dianadesi

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and the flowers are gone…

Pubblicato da dianadesi il 10 marzo 2009

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D.M. novembre 1970

I

La jeep sobbalza ad ogni buca, ad ogni avvallamento del terreno sabbioso. Il caldo torrido, di giugno, il sole a picco rendono il paesaggio simile all’inferno. Ora siamo in un arido uadi, in una luce accecante, ho voglia di citta’. A pochi chilometri, in pochi minuti si e’ proiettati in un’altra atmosfera, quella di una citta’ moderna con le luci, i confort e la vita che continua…

E’ strano pensare che solo ieri sera ero in un locale di Tel Aviv, con Nevill, il fotoreporter a bere bibite ghiacciate ed ad ascoltare la musica piu’ moderna in mezzo a ragazzi e ragazze come tanti.

Stamattina uscendo dall’albergo il portiere mi ha detto:”Signorina Connemara, si porti il casco, fara’ molto caldo, davvero molto caldo e…una sciarpa per la polvere…”

Ho ringraziato ma ho faticato a dare ascolto, il casco non l’ho mai voluto usare , neanche durante i reportages piu’ impegnativi di altre guerre vissute con il taccuino e la penna ed i miei pensieri. Ho messo i jeans, una maglietta, senza pensare troppo a cio’ che mi aspettava. Ora rimpiango la sciarpa. La sabbia entra negli occhi, nel naso, in gola, fa piangere e tossire ed il sole mi brucia la pelle.

Per chilometri e chilometri il deserto, stiamo entrando nel pieno del Negev. La guerra, la fulminea guerra e’ appena finita, se ne vedono le tracce. Mi vedo intorno gli scheletri anneriti e contorti dei carri armati distrutti, sono tanti tragici monumenti di un odio e di una crudelta’ che ha spinto l’uomo ad uccidere ancora. Passa un caccia nel cielo, ne sento il rombo, si dirige verso la base, lo vediamo scomparire all’orizzonte chiaro ed infuocato. Ad un tratto mi chiedo dove sto andando, dove stiamo andando e perche’. Non sarebbe mrglio lasciar soffrire questi popoli in silenzio, senza scrutare il loro dolore, senza fissarlo in immagini, senza fissarlo sulla carta stampata? Non sarebbe piu’ umano ritirarsi in silenzio invece di andare a chiedere i mille perche’ a quei visi tesi nella sofferenza? Non lo so! E non posso nemmeno chiedermelo. Il giornale vuole il servizio, prima di tutto il giornale! Ho voglia di buttare tutto all’aria, di scendere li’ in mezzo a quel deserto, di carezzare quelle lamine, di pregare. Ho voglia di chiedermelo questo santo “perche’?” E pretendo una risposta. Guardo Nevill, l’autista, i loro visi sono impassibili, forse in loro non c’e’ il perche’, per loro c’e’ solo il dovere. Accidenti, ma sono esseri umani, come me, come quei corpi contorti imprigionati in quelle gabbie d’acciaio.
E’ un immenso cimitero senza tombe, o no, le tombe sono quei fusti di cannone, quelle prigioni di metallo. E’ un immenso cimitero senza fiori, ecco, senza fiori perche’ questo posto e’ stato dimenticato dalla natura. Anche i fiori se ne sono andati, e’ rimasta solo la sabbia, sempre la sabbia e la solitudine.

Chiedo a Nevill se ha scattato foto, mi risponde mostrandomi il rollino impressionato. La mia voce suona falsa in quel silenzio, suona sacrilega e mi accorgo di abbassarla come in una chiesa durante la Messa. Ed e’ questa una immensa chiesa sotto la volta del cielo, si e’ celebrato il Sacrificio, si e’ immolata la Vittima.

Improvvisamente, prima che io possa formulare la domanda l’autista mi grida: ” Il canale, laggiù!” E lo vedo. Un solco d’acqua stranamente azzurra, una linea dai contorni netti. Sulle rive i presidi. I soldati si scrutano da una parte all’altra con i potenti binocoli. Alì guarda David, Moshè guarda Mohamed. E tutti sono stanchi per la stessa fatica, sudati per lo stesso sole, tutti pensano alle loro case, alle loro madri, alle loro donne. Sonnecchiano quasi ed alzano svogliatamente quei binocoli, sembrano inermi, la guerra pare lontana mille miglia. Eppure basta un gesto di Alì o di David perche’ si scateni l’inferno, perche’ le postazioni scarichino torrenti di fuoco su quella lama di acqua pigra ed impassibile.

Ci danno l’alt. I documenti. E’ un giovane soldato israeliano che ci ferma. Dobbiamo scendere. A piedi ci possiamo avvicinare alla sponda. Sento il calore della sabbia attraverso gli stivaletti. Sono pochi metri per giungere alle postazioni. Ci viene incontro un giovane tenente, ci saluta gioviale, si chiama Ben e parla, parla…Ho voglia di camminare in silenzio, chiedo solo:

-Da quanto c’e’ questa calma?-

-Stanotte- e’ la risposta, logica, naturale.

Il fuoco di notte e’ ancora piu’ temibile, ma egli pare non pensarci, pare essersi abituato.

Ci avviciniamo ai soldati che si danno il turno con i binocoli.
Hanno visi gioviali, allegri, da bravi ragazzi moderni. Magari chissa’, domani saranno in quello stesso locale dove io ero ieri sera. E si saranno scordati questo incubo. Scordati? forse no, e’ difficile dimenticare l’inferno.

Chiedo un binocolo, guardo al di la’ di quell’acqua cosi’ placida e cosi’ infida. vedo le stesse facce abbronzate dei giovani accanto a me, vedo le stesse figure di ragazzi, forse un po’ piu’ pensosi, nei grandi occhi scuri. Provo una grande rabbia, un terribile senso di impotenza e il “perchè”mi torna più martellante che mai.

La jeep si muove a scossoni. E’ tardi ormai, dobbiamo tornare in citta’ prima che venga il buio. E’ pericoloso attardarsi nel deserto di notte. abbiamo parecchia strada davanti a noi e forse non vinceremo la gara di velocita’ con il sole. Il buio ci sorprendera’ ai margini del deserto.

Questa guerra e’ buffa, e’ come una scampagnata, e’ appena fuori citta’. La sera si torna a casa, alle solite occupazioni di sempre. All’imbrunire i caffè di Betlemme, di Gaza, di Gerusalemme sono pieni di giovani, sereni, sorridenti, e’ la volonta’ di sopravvivere, di non darsi per vinti che li spinge.

Stiamo facendo una corsa folle per raggiungere Gerusalemme.

Siamo giunti che ormai e’ notte, la giornata e’ stata strapazzosa, ma non ho voglia di andare a dormire. eppure domani ci aspetta una giornata, forse, piu’ lunga e faticosa di questa.

Esco a piedi vestita come sono per la Gerusalemme di notte. La cupola della moschea di Omar risplende di bagliori notturni, voglio evitare il centro affollato, mi dirigo verso il Muro del Pianto, il confine riconquistato dopo secoli dagli Ebrei. Ho visto la’ alcuni Ortodossi con il cappello nero e le trecce pregano ancora con il loro antico rituale. Ho visto il generale Rabin, dei comandanti i cui nomi sono sulle prime pagine, con le lacrime agli occhi davanti a quelle pietre tenute insieme da calcinacci ed ora anch’io mi sento sciogliere in tanta tristezza,, in tanta pena. E’ una pena dolce, in cui e’ piacevole affogare piano piano. Sto vivendo una guerra, giorno per giorno, insieme a coloro che la soffrono, che la vivono per difendere le loro terre, i loro ideali, le loro case.

E’ giusto che anche io possa piangere, possa sfogarmi, possa godere di questa pace dopo essermi riempita degli urli delle sirene,dei fischi dei proiettili, del rintronare delle esplosioni. E’ un istante di verita’, ma ho paura.

Paura del domani, perche’ mille perche’, non uno solo, si affollano nella mia mente. Come finira’? E finira’?

L’Europa lontana, il mondo intero che seguono gli avvenimenti attraverso le immagini televisive e le parole di tanti giornalisti come me, non hanno nemmeno la piu’ pallida idea di cosa ci sia realmente qui.
II

Di buonora mi hanno chiamata stamattina, ho trovato l’autista in grande agitazione piegato sulle carte topografiche, discuteva con Nevill. Ho parlato con la redazione, ma c’e’ voluta un’ora prima che riuscissi ad avere la comunicazione. Stavolta si va all’est, verso il Giordano, verso le terre conquistate da Israele. La guerra e’ guerra e lo leggo negli occhi dell’autista, un ebreo di Nablus, negli occhi dei facchini, dei semplici passanti. E’ odio?Non lo so. La strada e’ piu’ breve oggi, ma molto piu’ difficoltosa. S’incontrano colonne di soldati, ragazzi e ragazze, cantano i loro inni tradizionali insieme alle canzoni della nostra epoca. Canti di fede e canti d’amore. Passano camion carichi di prigionieri, sono piccoli arabi abbronzati, per lo piu’ senza divisa, se la tolgono perche’ hanno paura di far riconoscere i gradi. Si dice in giro che passino gli ufficiali per le armi. L’ho chiesto una volta ad un capitano ebreo, un giovane eroe alto e robusto dal sorriso schietto. “Non so” mi ha risposto, ma qualcosa mi ha turbata… se e’ cosi’, non e’ piu’ guerra…

Hanno volti tristi e spauriti quei prigionieri in canottiera e mutande. Sarebbero quasi comici, da film, se non ci si rendesse conto tutt’ad un tratto che per loro la guerra e’ finita, ma non sono finiti i patimenti. C’e’ poco cibo in queste regioni, poca acqua e soprattutto per i prigionieri. Alcuni hanno preferito tentare la via del deserto piuttosto che rimanere nei campi di raccolta. Quando rivedranno la loro patria? Sono stati battuti, ma la piu’ grande sconfitta e’ in loro perche’ non sono gli Egiziani che hanno un Nasser trascinatore di folle, un Egitto grande ed abbastanza ricco. No, sono poveri sudditi di un piccolo re che ha per reggia una villetta, per ricchezza il suo grande coraggio e la sabbia del deserto. Si puo’ reggere un paese solo con il coraggio? Con l’eroismo? Questi uomini si sono battuti con forza da leone, con i pugnali contro i carri armati, sono morti invocando il loro re, senza speranza, senza avvenire. Li ho visti e li ha visti anche il soldato che ora mi sta aiutando a scendere dalla jeep.

-E’ un esercito di cartapesta, il loro…o forse, era un esercito, perche’ non c’e’ rimasto piu’ niente. Nei giorni della battaglia si poteva vedere Hussein sul suo piccolo aereo da osservazione volare in prima linea: Ed i soldati sembravano raddoppiarsi. Ma erano a piedi, con poche armi. La Legione Araba era leggendaria in passato, ma ora e’ rimasta la stessa di un secolo fa. noi abbiamo i carri armati, le autoblindo, loro solo il loro coraggio. Li ho visti gettarsi contro i carri…

Lo guardo, vorrei chiedergli “Cosa hai provato nel vedere quegli uomini contro i mostri di acciaio? Non hai provato ammirazione? Hai visto solo il nemico?”, ma rinuncio, non mi capirebbe. La guerra moderna non e’ fatta per gli eroi. Gli eroi sono d’altri tempi, ora fanno ridere, sono solo degli stupidi esaltati. Ora la guerra la si vince nelle fabbriche con la potenza industriale e non con il valore.
Come puo’ capirmi un carrista nato in un paese industriale moderno che sa che la guerra si combatte nei carri, con l’aviazione, se gli dico “Vedi quel soldato avanti a te, a piedi, e’ un eroe perche’ sfida te cosi’ protetto, cosi’ difeso”. Golia e’ diventato nano e Davide e’ divenuto un Golia. Il ragazzo mi guarda, non ride, crede di non aver capito. Oddio vorrei tanto che qualcuno di quei giovani che mi sorridono dall’alto delle torrette si fermasse a riflettere su cio’, ma…io sono un’illusa, la guerra e’ guerra. Anche al giornale mi riderebbero in faccia se dicessi una simile cosa. I sentimenti umani non sono ne’ per la guerra, ne’ per la redazione di un giornale, al massimo servono a vendere di piu’…

Ci siamo accodati ad una colonna di camion carichi di ragazze in uniforme, sono studentesse di Gerusalemme, di Tel Aviv, di Haifa, di Gaza che hanno lasciato i libri e sono corse a fare la guerra. Alcune vengono dai kibbutz del confine, li’ dove l’uomo con il suo lavoro ha strappato la terra al deserto.

Hanno dato l’alt alla colonna, non so perche’. Ci chiedono ancora i documenti, questa volta e’ una ragazza dai lunghi capelli scuri. E’ molto gentile, si muove con una grazia che contrasta stranamente con l’uniforme inpolverata e mascolina.

-I camion hanno avuto l’ordine di fermarsi, proseguiranno per una direzione diversa dalla loro, vero? Sono diretti ad Allenby?-mi chiede sorridendo.

-Si- rispondo un po’ seccamente.

Avra’ 17 o 18 anni, e’ solo di poco piu’ giovane di me, ma me la sento molto differente, non so perche’.

-Devono sostare per i controlli una mezz’ora- continua-le spiace?- sempre con un tono di grande cortesia.

-Prego- ma questa volta e’ Nevill che ha parlato, o meglio, ha solo mosso un po’ le labbra.

La ragazza si appoggia alla jeep ed io le chiedo il nome.

-Sheila-risponde- sottotenente Sheila Hacohen. E’ una sabra, fiore di cactus, come vengono chiamati i giovani nati in Israele. E’ di Jaffa, insomma. Manca da casa da una settimana.

-Ti hanno lasciato partire senza dire nulla?-chiedo

-MIo padre e’ troppo anziano per combattere-mi risponde- i miei due fratelli sono a Nablus ora…-

-Dove sei stata? Hai combattuto?

-Vengo dalla zona di Gaza, sono stata in mezzo al fuoco.

Mi sembra banale chiederle se ha avuto paura. Chissa’ perche’ mi sembra assurdo che possa aver avuto paura, poi mi pento dei miei pensieri, sto cominciando a considerare questi ragazzi e queste ragazze degli automi e solo perche’ hanno vinto una guerra…

-Sei fidanzata?- le chiedo-Hai un ragazzo?

Fa cenno di si con la testa e mi dice che si chiama Aaron, che e’ sul Sinai ora. Che sono 15 giorni che non lo vede.

-Hai sofferto a lasciarlo?- la guardo -hai avuto paura?

Ha gli occhi lucidi ma scuote il capo…

-No e poi non serve a niente. Dobbiamo farcela, no? Con le lacrime non si vincono le guerre.

La guardo bene, mi era sembrato avesse gli occhi lucidi, no, e’ solo il sole che glieli ha arrossati. Si allontana a prendere ordini. Sono ragazzi che hanno imparatp a convivere con la morte se vogliono una patria.

Il soldato sheila non puo’ piangere, non ne ha il tempo. Anche io mi sono indurita con questa vita che faccio, ma certe cose mi toccano terribilmente. Mi viene da pensare ai milioni di problemi che mi creo io, nella mia vita tranquilla in Europa. E’ giusto pero’ che una ragazza conosca cosi’ presto questa durezza? Non e’ piu’ dolce una donna che soffre per amore in un’esistenza normale? Penso che anche Sheila soffra per amore, solo non lo vuole far vedere perche’ e’ soldato. Ma ecco, e’ qui il punto. E’ giusto che una donna si indurisca fino a divenire un soldato? Come saranno un domani queste ragazze cosi’ provate, cosi’ rudi? O saranno le camerate, le compagne d’armi dei loro ragazzi, dei loro uomini? E’ la mia mentalita’ europea che mi fa vedere questi problemi o sono reali, esistono?

I documenti sono pronti. Sheila mi saluta con un cenno della mano, hanno imparato questi giovani il gesto caro a Churchill. Nevill continua a rimanere voltato indietro a guardarla mentre la jeep sobbalza verso il Giordano. Si, del resto, Sheila e’ proprio una bella ragazza!
III

Il sole picchia sempre piu’ forte su di noi. Nevill si e’ messo il casco, io che mi sento ridicola mi sono accomodata un fazzoletto. Solo l’autista continua a guidare e non sembra sentire il calore che si sprigiona da quel sole dardeggiante e da questa sabbia infuocata. Il sole picchia anche sui soldati dei tanti posti di blocco che incontriamo. Ogni volta i documenti, i controlli,i “grazie”, i saluti. “Vittoria” dicono e li lasciamo mentre ci fanno grandi segni da lontano. Entriamo in un territorio pericoloso. Ci sono i fedayn, ma soprattutto le migliaia di profughi che fuggono dinanzi ai soldati di Israele, che lasciano le loro case, la loro roba e scappano, dove non lo sanno. Scappano guidati da una paura la cui unica ragione e ‘ forse l’odio verso Israele. Forse, dico, perche’ non conosco la vera ragione. Vorrei chiederla a quegli uomini stanchi, a quelle donne spaurite, a quei bambini dagli occhi innocenti pieni di interrogativi. Cosi’ come vorrei chiedere ai soldati ebrei ed arabi il grande perche’, quel perche’ che mi assilla. La ragione che ha spinto ancora una volta ad uccidere, a distruggere, ad invadere, a fuggire. Ma c’e’ una risposta? O mi diranno le ragioni politiche? Quelle le conosco e non sono una giustificazione. David ha bisogno di spazio per i suoi figli, per sopravvivere dopo l’olocausto, Mohamed ha paura e vuole la terra dove ha abitato da generazioni. Ma Mohamed odia David? Si dice di si a sentire i discorsi infuocati di Nasser. O non sono piuttosto il frutto di una minoranza chiassosa ed esaltata? Conoscono i discorsi del capo egiziano quei poveri vecchi che fuggono attraverso il piccolo ponte di Allenby? E David non odia Mohamed? Hanno una patria il torto e la ragione? Questo non vorrei giudicarlo io, vorrei soltanto avere la forza di rimanere obiettiva, di non lasciarmi trascinare dalla mia impulsivita’.
Qui in questo deserto di fuoco e’ stata messa a nudo la verita’. E’ la piu’ grande palestra di vita, l’uomo di fronte all’altro uomo, ognuno con la sua indole, con il suo retaggio di tradizioni, con il suo carico di amore, di odio e di paura. Perche’ e’ terribile vedere come l’animale umano abbia pura, come sia indifeso dietro alle ideologie e le divise. In fondo la politica e’ solo un gioco ad alto livello. Qui c’e’ solo l’antica lotta per la sopravvivenza, per la casa, la prole. Come milioni di anni fa. Si uccide sempre e solo per questi motivi da generazioni e la pura che vedi negli occhi dei soldati e’ l’antica paura, l’orgoglio e’ l’antico orgoglio, quello di Caino. La politica e’ solo un rotrovato della civilta’, e’ una dorata copertura inventata dai raffinati.

Ci fermiamo per chiedere la direzione all’incrociare una colonna di prigionieri, Allenby e’ li’ davanti a noi, a 4 chilometri. Ripartiamo a scossoni, povera jeep, soffre il caldo anch’essa! Sgranocchiamo pochi crackers, Nevill beve coca cola e getta la bottiglietta sulla sabbia. Chissa’ un giorno lontano insieme a i resti contorti delle macchine belliche ritroveranno anche quella bottiglietta, prodotto dell’industria, della civilta’ come le bombe, il napalm, le mitragliatrici. Ho visto le bombe al napalm una notte, le ho viste cadere e rovesciare una pioggia di fuoco, risplendeva nella notte quel fuoco. Nevill mi aveva toccato una man ica: ” Guarda, Liza, quelle scintille, sembrano fiori” mi aveva detto. Eravamo stesi al riparo, davanti a noi l’inferno. “No, Nevill, non c’e’ posto per i fiori in una guerra come questa” e le mie parole erano state sommerse da un boato. In quel momento ho provato la paura. Stesa al suolo mi ero sentita sciogliere le braccia e le gambe, affondare nella terra fino al momento in cui un gioviale ufficiale non era venuto a rialzarci ed a darci il permesso di proseguire. Ho visto l’effetto del napalm. Un nero vuoto, un assurdo deserto bruciato ed il nulla.
IV

Allenby sta davanti a noi, ci e’ venuto incontro quasi all’improvviso. Un ponte teso sullo storico Giordano, meta di migliaia di famiglie di profughi. Le vedo affollarsi sulla strada gialla, sono donne ancora giovani, provate dalle molte maternita’. Sono caratteristiche nelle loro gonne lunghe, nei corsetti ricamati, con quelle palpebre pesanti sugli occhi neri. Sono bambini ricciuti, scalzi e seminudi che si trascinano dietro le gabbie con gli uccellini, che si affollano attorno a i carri dove e’ ammucchiata la loro povera roba: piccole cose che costituiscono il patrimonio di famiglia. Che contrasto con quei ragazzi alti e lindi! Hanno tutti gli occhiali scuri per difendersi dai bagliri accecanti, hanno cronometri al polso ed il portamento sicuro.

Ci hanno dato l’alt, ne approfittiamo per scendere e sgranchirci le gambe, Nevill si gira intorno, cerca di fissare sulla pellicola quelle immagini, gli occhi languidi di quei bambini affamati…. Mi torna ancora quel moto di rivolta contro l’apparecchio fotografico che gia’ avevo provato nel Negev. Vorrei poter fuggire di la’, nascondermi.

Chiedono i documenti a quei vecchi patriarchi in fuga, la sentinella mi si avvicina: “Che scappa a fare questa gente? Perche’ se ne vuole andare? Ha paura, ma di che? mica ce li mangiamo” mi dice, poi mi chiede la mia nazionalita’. “Cerchiamo di impedire questa migrazione” riprende “ma non c’e’ niente da fare. Se ne vanno, lasciano tutto e fuggono come davanti al diavolo. Potrebbero continuare a lavorare la terra ed invece no…se ne vanno a morire di fame in un paese desertico” lo guardo, si, e’ vero, e’ illogico questo esodo di massa, ma e’ dettato dall’odio della politica…Perche’? Di nuovo perche’?

Rivedo i ghetti, le stragi, le persecuzioni dell’olocausto, quei ragazzi hanno dimenticato? o no, vogliono vendetta? Che interrogativi tremendi! e cerco la risposta negli occhi di chi mi sta davanti. Ho offerto mezza scatola di crackers ad un bimbo, si avvicina il padre, mi racconta degli uomini che con il fucile hanno sorpreso la sua famiglia nel sonno…mi ricordo d’altro canto il racconto recente del kibbutz assaltato di notte, gli uomini uccisi, le donne violentate, tutto dato alle fiamme…Perche’? perche’?

Chi ha ragione? Mohamed o David? Poi chiedo” Perche’ fuggi? Dove vai?”

L’uomo si carica in braccio il bimbo:” Fuggo perche’ non c’e’ posto per me di qua dal fiume, non ho piu’ casa, piu’ terra, lavoro, ho paura”

“Ti potrebbero dare del lavoro, una nuova casa, se resti…”ribatto io” Ma chi? loro?” indica la sentinella…e’ odio! lo sento…

La colonna dei profughi si sta muovendo, lentamente e vedo quella figura di uomo col bambino in braccio allontanarsi piano piano. Continuo a sentire le sue parole:” Mio figlio tornara’ qui da vincitore e riconquistera’ la sua casa” ecco come nascono i fedayn. No, questa guerra non finira’ mai! Lo capiscono i potenti della terra?

“Shalom” mi saluta la sentinella” Pace”, ma la pace dov’e’?
V

Mentre sobbalziamo addentrandoci in territorio giordano mi torna alla mente la telefonata che ho fatto a casa due sere fa.”Non ti esporre troppo ai pericoli” mi ha raccomandato mia madre che non si e’ ancora rassegnata alle esigenze di questo mio lavoro. Ora sorrido, pericoli’ Qui non si tratta di pericoli materiali, si tartta di pericoli morali. Come uscito’ da questa storia? Sapro’ vedere ancora bello il mondo? E’ certo un’esperienza indimenticabile.

Nevill ha la forza di canterellare, gli chiedo di smettere, mi guarda poi: ” Povera gente!”mi dice. Comprendo tutto, e’ bastata un’occhiata, e’ di poche parole, Nevill. fa il suo lavoro con perizia consumata, ha molti anni di esperienza piu’ di me. E’ stato nel Vietnam, ha vsito la morte molto piu’ presto di quanto l’abbia vista io. Forse si e’ indurito. Vorrei chiederglielo e glielo domando al momento della sosta.” Non ci si abitua mai alla morte” mi risponde ed e’ sincero. Gli ho visto tremare la mano nel mentre se la passava fra i capelli per tirarli indietro. L’Europa e’ cosi’ lontana, ho forse nostalgia’ Avevo scordati tutto, la casa, la famiglia, gli amici, persino il giornale. E questo nonostante le continue comunicazioni telefoniche.

Ci stiamo dirigendo verso un campo di profughi, abbiamo il permesso di visitarlo. Giungiamo dopo un viaggio massacrante fra quelle poche baracche, alcune tende, tutte recintate da filo spinato. Paura che entrino dall’esterno o che fuggano dall’interno?Fuggire dove? C’e’ solo deserto.

Dopo aver esaminato i lasciapassare ci conducono nella baracca principale, li’ c’e’ l’ufficio del comandante, un capitano gia’ anziano, Abdullah Shramra. Ha l’aria acida di chi sta finendo una misera carriera. certo non e’ un posto invidiabile quello di Shramra.

Ci accoglie benevolmente, pero’, e ci porta in giro per il campo mentre ci racconta come e’ riuscito ad organizzarlo..”Non e’ stato facile, sa!” mi dice “ognuno aveva le sue idee, le sue esigenze, poi il sole, il caldo, la mancanza di acqua e le decine e decine di uomini, donne e bambini che giungono in ogni momento. A volte ci si sente impazzire, le malattie, la morte, la grande paura…”

Davanti a noi sotto una tenda, Jasmine, una bella ragazza sta preparando un’iniezione per un bimbo.” Il tifo” riprende il capitano “un grande pericolo! Per fortuna da tempo non ce n’e’ stato piu’ un caso” e sospira “vede, questi sono gli alloggiamenti” Tende, casupole messe insieme con assi e lamiere, file di panni messi ad asciugare, un viavai di donne giovani ed anziane. ” Le studentesse di Amman, delle citta’ ci vengono ad aiutare”. Sono ragazze dall’aria cittadina, curata, studiano psicologia, sociologia, hanno creato una scuola per quei bambini, una mi si avvicina, studia filosofia, e’ di Amman:”Devono crescere istruiti” mi dice”per il loro, il nostro futuro” ed in quella frase riconosco l’eterna lotta, la guerra che non finira’, la volgia di riscossa.

Il capitano Shramra sospira” Un soldato come me non dovrebbe comandare questo posto! Volevo la prima linea…” Non lo ascolto piu’, possibile non si renda conto della necessita’ di un posto come questo?Una frotta di bambini ci passa accanto correndo e gridando, giocano…Shramra ne ferma uno, ce lo mostra, appare trasfigurato:” Ho anch’io una bimba” mi racconta” e la rivedo in ognuna di queste…”La piccola testa di boccoli vorrebbe scappare ma il capitano avrebbe voluto una dimostrazione di buona educazione di fronte ai giornalisti stranieri…propaganda? chissa’! Un paradosso.

La visita si sta per concludere, ci riaccompagna nel suo ufficio, ci vorrebbe offrire un bicchiere di te’ freddo, ma abbiamo lo stomaco in subbuglio per le troppe bibite ghiacciate bevute durante il tragitto. Ci saluta cortesemente, ci accompagna all’uscita. Lo vediamo ancora li’, rigido, in piedi, mentre ci allontaniamo, di nuovo verso Gerusalemme.

Nel sole morente la citta’ mi appare piu’ solenne, piu’ maestosa che mai, ma non ho tempo per commuovermi, ho un appuntamento molto importante. il servizio per il giornale dipende da stasera. Devo incontrare la persona che con grande rischio forse e’ riuscita a procurarmi l’ambito permesso per visitare una base di guerriglieri. Non conosco il suo nome e confesso che ho un po’ di paura. E’ un arabo, e’ tutto cio’ che so. Supplico nevill di starmi vicino, nell’avventura gialla di tutto il mio lungo viaggio.

Il tipo e’ alto, ben piantato, si avvicina con fare cordiale, ci da delle carte, sono i lasciapassare. E’ di poche parole. non possiamo sapere chi e’.Non e’ che un anello di una lunga catena di accordi presi dalla Redazione con esponenti politici arabi. E’ lungo e difficile avere un simile permesso. Non posso spiegare la trafila, ma posso dire che ho dovuto aspettare permessi su permessi, accordi in tanto tempo…Ora so solo di sicuro che domani sara’ il mio “giorno piu’ lungo”.
VI

Sono fresca e riposata mentre scrivo questi appunti. La giornata e’ iniziata presto, ma ho trascorso una notte tranquilla. Il paesaggio e’ cambiato, la pista che percorriamo e’ sassosa, la nostra mete e’ il confine con la Siria, una localita’ impervia dove si annidano i guerriglieri. Non ne conosciamo il nome ed anche se lo sapessi non potrei rivelarlo. Su questa rocca ogni notte Israele scaglia quintali di ferro e fuoco nella speranza di distruggere le basi segrete. la natura non e’ stata certo benigna verso queste regioni. Il colore uniforme, monotono, accecante, persino il colore del cielo non e’ terso, ma tende a questo giallastro in cui siamo immersi. Ci guardiamo ogni tanto, in silenzio. Vorrei chiedere all’arabo che ci guida quanto manca ma dovrei servirmi dell’autista che funge da interprete e cosi’ mi rassegno ad essere sballottata in questo deserto apparentemente senza meta. L’arabo non parla ed a me fa anche paura.

E’ trascorso parecchio tempo dalla partenza quando giungiamo in una conca arida fra rocce. Due sentinelle ci vengono incontro. Il capo coperto dal bournus, il mitra imbracciato, la’ria grave. Ma avranno al massimo vent’anni.

Documenti, spiegazioni, finalmente possiamo avanzare, siamo nel recinto del campo, davanti a noi la bandiera di Al Fath, squadre di ragazzi schierate in ordine.

L’arabo mi spiega che e’ la prima volta che ad un occidentale viene concesso di assistere all’addestramento e, mentre parla, io guardo quei ragazzi, poco piu’ che bambini, buttarsi nel cerchio di fuoco, rotolarsi fra i cingoli dei carri, addestrarsi al lancio delle bombe a mano, al corpo a corpo.. Penso che hanno poco meno dell’eta’ dei miei amici europei. Altro che auto rombanti, locali alla moda! Questi bambini conoscono lo svegliarsi ogni giorno all’aurora, il vento caldo e sabbioso, il crepitare del mitra e lo scoppio delle granate. E la notte sono atterriti dalle cateratte di fuoco che l’aviazione riversa su di loro.

” Posso parlare con uno di questi ragazzi?” Mi fanno cenno di si, mi accorgo che li ho intorno, in fondo sono una ragazza della loro eta’ eppure mi incutono soggezione.

Li guardo uno per uno, vorrei chiedere tante, troppe cose.. Ali’ ha 18 anni, abitava a Tiberiade, ha perso la casa, il padre, la mamma e le sorelle sono in Giordania, in un campo profughi.

Un bambino abituato troppo presto all’odio, alla guerra.

_Perche’ sei qui?perche’ combatti?

-Oerche’, mi chiede?-mi guarda, fisso, negli occhi -e’ mio dovere, devo aiutare i miei fratelli, poi riavere la mia casa, la mia terra. Ogni popolo deve difendersi…

-Ma tu odi Israele?- sono ferma, decisa, dura.

-Prima no, poi mi sono accorto che dovevo combatterla per riprendere la mia terra, siamo qui da secoli…

-Ma, gli Ebrei dove li mettiamo?

-Non hanno la loro striscia di terra? Non basta loro? Prima ci accusavano di volerli sterminare, ora sono loro che ci attaccano

-ma, Ali’, rispondi alla mia domanda- gli ripeto. Il bimbo appena cresciuto mi fissa:” Quale?” sembra chiedermi..

-Ali’, tu odi Israele?- cade di nuovo li’, pesante, la parola “odio”.

Nel silenzio Ali’ ha chinato la testa, poi la rialza con l’atteggiamento fiero da uomo adulto…

-Si, la odio- scandisce -la odio per tutto cio’ cheha fatto a me, alla mia famiglia, al mi popolo e mi vendichero’!

Torna in riga con i suoi compagni, non scorgo piu’ nei suoi occhi lo sguardo innocente di bambino, scorgo solo il soldato e provo un brivido.

E’ ora di ripartire. quando la jeep si mette in moto sento levarsi nell’aria un canto. Sono i bimbi guerriglieri che non giocano, ma fanno la guerra.

Guardo questa terra, una distesa di sabbia gialla. E per questa sabbia molti fratelli hanno dato la vita, contenti. Ecco cosa da forza a questi giovani, loro credono a quello che fanno in un’epoca in cui diamo tutto per scontato…peccato che questa fede, questo ardore siano di morte e non di vita!

Mi volto a Nevill, vorrei capire lui cosa prova, cosa sente. Egli un giorno mi disse di non credere piu’ agli ideali perche’ ha visto troppe cose. Diventero’ cosi’ anche io? vorrei poter mantenere tutta la vita questo sgomento, questo dolore di fronte alla sofferenza, ma so che con il lavoro che faccio mi induriro’ e solo allora, quando non provero’ piu’ nulla, saro’ abile ed obiettiva, avro’ raggiunto il massimo dell’efficienza.
VII

Non ce la faccio piu’ a stare nella jeep ed inoltre mi sento un peso tremendo nel petto. Ad un kibbutz presso Tiberiade ci fermiamo per fare rifornimento di acqua e di bibite. Nevill e l’autista provvedono a cio’, io rimango appoggiata alla macchina con il cervello svuotato ed una gran voglia di piangere. Guardo quei campi coltivati, strappati dall’uomo al deserto, quei cresciuti nella sabbia, quelle opere umane. Vedo quei giovani abbronzati col sorriso sulle labbra. Eppure ogni notte sono scossi dagli attacchi di sorpresa, dalle mitragliate, dalle eslosioni. Mi scuoto. un giorno qualcuno mi ha detto:”Non si vince con le lacrime”, e’ vero, e’ inutile piangere, bisogna lavorare, andare avanti, ricostruire perche’ cosi’ e’ giusto. Solo cosi’ non ci si da per vinti. Io sono troppo debole, ho visto tanta crudelta’, ma vedo anche come l’uomo puo’ reagire, puo’ sopravvivere. In questo viaggio ho scoperto le meravigliose, infinite risorse dell’animale uomo. Nevill torna con l’autista parlando velocemente, mi dicono che il direttore del kibbutz ci vuole a pranzo. E’ un uomo anziano, cordiale, e’ fuggito dai campi di sterminio della Polonia. La sua vita si e’ svolta nei ghetti europei ed ora qui, in questo sole, si sente felice anche se qualche volta c’e’ un po’ da combattere…Sembra una battuta come lo dice, eppure e’ proprio cosi’. Sono contenta di averlo conosciuto e glielo dico. Vuole che Nevill gli faccia una foto, gli promettiamo di mandargliela poi dal giornale.

Il cibo e’ abbondante, non molto raffinato ma buono come si conviene a dei lavoratori. Quando ripartiamo sono in molti a sbracciarsi nei saluti.Alzo la mano anch’io nel gesto di vittoria. “Se lo meritano” penso e guardo fisso in avanti verso la lunga strada che dobbiamo percorrere per tornare verso la costa, sempre piu’ vicini a casa.

La guerra sembra lontana, ormai, mille miglia, invece e’ qui, sempre qui. Ce lo ricordano le colonne di soldati, di carri militari, di prigionieri. Passa un camion carico di lettighe, sono i feriti, la piu’ dura delle realta’ della guerra. Tornano a casa per essere curati, ma non potranno mai piu’ scordare perche’ avranno sempre davanti a loro, sul corpo, i segni tangibili dell’odio, della cattiveria.

Li sorpassiamo, corriamo verso Nablus, la notte ormai ci ha sorpresi, sono stanca per i chilometri percorsi in breve tempo. Ma abbiamo fretta. Il servizio perche’ sia d’interesse deve essere attuale e la nostra e’ una gara con il tempo.

L’alberghetto che ci ospita e’ modesto, le camere piccole e buie, ma la cena e’ abbondante, il latte buono. C’e’ anche un giornale. Guardo le ultime notizie, si e’ sparato sul canale. Rabbrividisco. Mi tornano in mente quei ragazzi con i binocoli, mi sento come se li conoscessi da tanto tempo, come se fossi loro amica, loro sorella. Ho paura per loro. Ma e’ tardi, il paese buio, le artiglierie lontane.

C’e’ poco fino a Tel Aviv ed il caldo non eccessivo. Eccoci tornati in citta’. In albergo mi levo di dosso la sporcizia, la polvere della guerra, mi rivesto con i vestiti alla moda. Mi sembra di aver compiuto in un’ora un salto di mille anni.

All’ambasciata, dove sono andata a salutare ed a ringraziare per l’aiuto offertomi, c’e’ un bel fresco e ritrovo l’aria di casa mia. Mi dispiace pero’ dovermene andare dover abbandonare questo angolo di mondo. Sono tutti molto gentili.

-E’ stata dura? – mi chiedono.

Non so cosa rispondere, non penso a quel momento, penso a tutto cio’ che ho passato.

Mi ritrovo sulla via dell’aeroporto, un’arteria larga, moderna, bei negozi. Faccio portare i bagagli, poi con nevill me ne vado in giro a trascorrere quest’ultima ora. Una ragazza vende fiori stupendi, forse sono di cactus, non so…C’e’ un giovane soldato che li compera:

-Sa- mi dice- li’, nel deserto, fra la polvere, i cannoni ed i carri non c’erano fiori per i miei compagni caduti. Anche i fiori se ne sono andati in quella distruzione…

Lo guardo, gli sorrido, poi mi accorgo che non ha piu’ un braccio. Vorrei fermarmi e parlare con lui, ma Nevill mi tira per un braccio, e’ tardi. Ho solo un attimo, un attimo per poter mormorare ad un giovane eroe:

-Si, e’ vero. Ci sono stata anch’io, anche per me in quel deserto e’ morto qualcosa, anche per me non c’erano fiori…si, anche i fiori se ne sono andati!

novembre 1970 Diana Macchitella

p.s. rileggendo queste righe mi sono accorta di quanto nel frattempo il mondo sia cambiato…la guerra si e’ sparsa per il mondo, l’Europa che si credeva immune e’ stata toccata e la crudelta’ si e’ incrementata…fino a che punto arrivera’ l’uomo?

d.m. 31 luglio 2005

18 Commenti a “and the flowers are gone…”

  1. dianadesi dice:

    ho cambiato argomento!

  2. Postaguido dice:

    Una lettura che invita ad una profonda riflessione.

  3. dianadesi dice:

    visto da quanto tempo scrivo?:-)))

  4. bernardodaleppo dice:

    Brava, asciutto e toccante; se si pensasse a quanto l’odio e la guerra sono infettivi, a quanto la pace somiglia a un ripido pendio innevato, tanto sereno e tanto precario…

  5. dianadesi dice:

    è una storia che ho vissuto…

  6. emmaus2007 dice:

    Accidenti, Diana, che avventura!
    Ha ben descritto quelle incredibili condizioni di vita, con le assurdità che gridano al cielo! Fa veramente pensare questo tuo. Brava!

  7. caterina dice:

    bellssimo reportage e purtroppo tristissimo.
    si riferisce alla guerra dei sei giorni?
    il deserto del Negev…affascinante se nn fosse che fu portatore di morte.
    toglimi una curiosita’, Diana ma…vissuto in prima persona?
    non credo, dalla tua foto su facebook…
    Israele e la sua storia rappresentano per me una metafora del bene e del male, del nero e del bianco, del dolce e dell’amaro… tutto e niente.
    uno stato meraviglioso e pieno zeppo di contraddizioni.
    Un popolo che amo e poi odio e poi amo di nuovo.
    e gira che ti rigira, tutto quanto si riconduce sempre a quel pezzo di terra.
    la disputa e’ sempre li’. la tensione fa parte di loro anche se apparentemente appare tutto tranquillo e Gerusaemme sembra essere l’occhio del ciclone tanto e’ pacifica la sua gente.
    fatto sta che la guerra e’ ovunque, come sempre è stato e anche se lo speriamo, accompagnera’ sempre qualche parte di mondo.
    “si vis pacem par bellum ” e’ quanto mai attuale anche se lo predicavano millenni fa.

    grazie per questo spaccato mediorientale.

    cate

    molte stelle per te

  8. dianadesi dice:

    sono stata ad abitare in Israele un anno per la professione di mio padre…l’ho vissuta, anche se ero issima….mi ha colpito molto, ovviamente non ero giornalista;-)))

  9. giangia dice:

    Ho letto e riletto questo tuo scritto e ogni volta, a parte il “Perché?” che salta fuori in continuazione, ho trovato spunti per tante altre riflessioni.
    Avevo 20 anni quando tu scrivevi questo racconto; mi tuffavo dentro ai reportage degli inviati e, ricordo benissimo, allora sapevo il perché (ero documentata sull’olocausto, avevo letto Levi, Exodus…).
    Adesso non so più nulla, ho solo questa idea: “La guerra sta all’uomo”, basta guardarsi intorno.
    Osservo le varie manifestazioni per la pace e penso. “Ma se capitasse a noi, ora, che qualcuno ci entra in casa e ci costringe nello sgabuzzino, impugneremmo la bandiera arcobaleno o qualcos’altro?”
    Ciao

  10. giangia dice:

    Dimenticavo: scritto bene il tuo racconto! ha lo stile del reportage ma è molto introspettivo, brava!

  11. dianadesi dice:

    sono pienamente d’accordo con te! la guerra di difesa secondo me è legittima! caspita, vorrei vedere la mia rezione se qualcuno mi entrasse in casa!!!

  12. caterina dice:

    sono del parere ceh gli Iraeliani abbiano fatto miracoli in quella terra.
    non c’era nulla e in 60 anni loro hanno portato l’acqua perfino nel Mar Morto, se mi si passa il paragone azzardato ma sta di fatto che e’ cosi’.
    e’ gente all’avanguardia in tutto. e si difende.lo farei anch’io, sopratutto avendo visto di che cosa sono stati capaci.
    si sono affidati ai loro grandi statisti del passato, penso a Ben Gurion,e sono riusciti a far rientrare la maggior parte dei loro connazionali.
    hanno una determinazione che dovrebbe essere di esempio al mondo.
    credo pero’ che a questo punto occorrera’ con sempre piu’ forza considerare il concetto di due stati, due popoli.
    e’ vero che la Bibbia indica come terra promessa la Palestina ma e’ vero anche che nel mentre della diaspora, i palestinesi si sono insediati facendo di quella terra la loro casa.
    la spianata delle Moschee ne e’ il perfetto esempio e difficilmente gli Arabi accetteranno lo scambio con gli appezzamenti di terreno a est di Gerusalemme. Non accetterei nemmeno io.
    avremmo fatto cosi’ tutti.
    del resto chi puo’ dire di essere arrivato prima?
    e arrivare per primi e’ sinonimo di possedere?
    adesso come la mettiamo, verrebbe da dire?
    spero che Israele, proprio per la grande intelligenza e la grande forza di cui sono dotati i suoi abitanti, sappia trovare la strada giusta.
    credo nel processo di pace e credo che alla fine il bene dovra’ prevalere necessariamente.
    mi interesserebbe molto sapere il tuo parere, Diana.
    quella e’ una terra che mi ha rapita nel momento in cui ci ho messo piede e nn smette di affascinarmi.
    oltre che preoccuparmi quando la tensione raggiunge i suoi picchi.

    baci
    cate

  13. dianadesi dice:

    io sono un po’ di parte, sono di mamma ebrea..
    molte di quelle terre dal 1905 sono state comperate dalla fondazione Rotschild e quindi sono proprietà ebraica! altri territori sono stati conquistati con le armi e, se si ammette la legittimità della conquista in guerra, allora sono Israeliane…
    purtroppo il problema è che i palestinesi, che al tempo delle crociate convivevano in armonia con gli ebrei, ora hanno paura della crescita demografica nello stato di Israele, il vero problema è questo! sono poi intervenuti gli odi, la politica, ma l’errore risale al governatorato inglese all’epoca della proclamzione dello stato di Israele nel 1948.
    Fu una votazione a larga maggioranza all’ONU e lo stato di Israele è uno stato di diritto! gli israeliani avevano chiesto ai palestinesi presenti nelle terre conquistate di rimanere, mantenere le loro proprità, ma ormai l’odio lavora troppo..
    cerdo che la soluzione sia creare uno stato palestinese accanto a Israele, ma non sono sicura che si calmino le acque…
    è una storia che conosco molto bene!

  14. caterina dice:

    cara Diana,

    dovevo immaginare le tue origini falla passione con cui parli di Israele.
    E sono molto felice di averti incontrata.
    la tua terra ha avuto per me un fascino cosi’ forte nei pochi giorni che sono stata li’da sentire il bisogno di scriverne e parlarbe spesso.
    e d’accordissimo con te che Israele sia uno Syayo di Diritto!!!
    mi e’ anche parso, e poi confermato dallamia meravihliosa guida dpirituale,che la gente, Ebrei e Arabi insieme, non ne possa piuì di questa situazione. Una persona mi disse; noi vogliamo stare bene e lavorare, costruire le nostre famiglie iin pace,
    credo sia il desiderio di molti ma attendo un tuo commento in merito.
    e sappi che ho apprezzato tutto del tuo Paese, l’organizzazione, la bellezzadei paesaggi,il vento tra i palmeti nei deserti, il cibo squisitocucinato secondo

  15. caterina dice:

    il metodo Kosher.
    le sere in cui ho messo piede al Muro ho pregatoe poi sono tornata indietro con il viso al Muro, come le ragazze ebree che erano li’ rimanendo stupefatta dalla devozione con cui gli Ebrei vivono la spiritualita’.
    Grande Popolo e nn me ne volere se nel mio reportage sullavia delle pietre scrivo inesattezze.
    scrivo con gli occhi di una cattolica che e’ andata a vedere di persona luoghi sempre sentiti nominare.
    e cosi’ facendo ho portato a casa molto di piu’.

    leggero’con avidita’ ogni cosa scriverai in merito, augurandomi ogni giorno che lecose si sistemino e che ci sia la pace vera, una opportunita’ per chiunque abbia voglia di cooperare elavorare.

    con amicizia
    cate

  16. dianadesi dice:

    sei una vera amica, grazie!

  17. caterina dice:

    e scopro stasera che Israele e’ stato escluso dai Giochi del Mediterraneo.
    mah…

  18. dianadesi dice:

    non ho seguito, ma immagino il perché….
    un abbraccione

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