Le Storie del Cinghiale

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Prima lezione

Pubblicato da diego il 8 gennaio 2008

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Era metà pomeriggio di un venerdì di novembre, e un Fiat Ducato risaliva il traffico come un vecchio salmone graffiato e malconcio. Il fiume in questione era un corso Giulio Cesare appestato dai peggiori mali del nostro tempo: traffico, fumi di scarico, mitragliate di clacson, pedoni invadenti e cumuli d’immondizia alti come le piramidi di Giza.
A bordo del Ducato c’erano il giovane Aldo, che era la prima volta che si avventurava in quelle acque, e il vecchio Giorgio detto Lingualunga, un bruto con tanto di pappagorgia ispida di una barba che non faceva più di un giorno ogni sei. Giorgio a Porta Palazzo c’era già stato (in effetti, era quello che si sarebbe detto di casa); stava illustrando alcuni elementari concetti al giovane apprendista, e allo scoccare delle quattro se ne era uscito con una vera perla di saggezza.
-Dunque- aveva detto. -Quello a cui devi fare l’occhio è il numero.
-Il numero?
-Esatto, il numero. Te ne accorgi dopo un po’. Dunque, un marokko da solo vuol dire poco o niente, perché ce ne sono a chili che stanno fermi, specie davanti ai bazar. Se invece è fermo a un angolo può fare il palo. Due marokki invece sono quasi sempre amici che stanno parlando, e non ti filano nemmeno se gli spari. Però se vedi dai tre marokki in su, e intendo quelli che ti sembra che non fanno niente e ridono e si danno le spinte, è probabile che sono di quelli che la sanno lunga, e tu è meglio che giri al largo.
-Ah!- aveva esclamato Aldo, con una punta di soggezione. Aveva capito e non aveva capito, ma interrompere Giorgio Lingualunga nel bel mezzo di una tiritera come quella era impresa ben oltre l‘umano potere.
-E ricordati che lì non sei a casa tua ma sei a casa loro, e se gli gira e fanno un fischio, te ne trovi addosso tanti che non li vedi nemmeno al paese loro, dovunque sia. Questo è importante e te lo devi ricordare sempre, bene? Comunque te non preoccuparti. Noi andiamo da quelli bravi, quelli che mi conoscono. L’ho detto solo perché se uno ti guarda storto tu non ti metti subito a fare il galletto, hai capito? Specialmente dai tre marokki in su. Mangia la foglia, ingoia il rospo… insomma zitto e mosca. Non voglio ricomprarti un tanto al chilo sul banco della macelleria.
-No, no.
Giorgio annuì, poi abbassò il finestrino, si ripulì la gola e mollò fuori un bello schioppo giallo e vischioso. -L’importante è che capisci. E non fare quella faccia, mica stiamo andando in guerra. Io ti sto solo mettendo d’avviso, no? Non sono mica dei mostri.
-Ho capito.
-Bravo. Allora, poi ci sono i gialli, che vendono i vestiti o sono parenti di quelli dei ristoranti, oppure tutte e due le cose, ma a noi non ci interessano. Però ci sono anche loro, e io te lo dico. E poi ci sono i neri. Quelli non ho mai capito che fanno, e se lo capisci tu poi fammelo sapere. Li vedi camminare tutto il giorno da soli o in coppia e mai più di due, ogni tanto hanno le borse e ogni tanto non le hanno e tengono le mani in tasca. Camminano e basta. Magari hanno freddo, chissà da dove arrivano.
-Dall’Africa.
-Ma si, lo so, mica sono scemo scusa, è solo un modo di dire.
-E di quelli ne conosci?
-Di neri? Manco uno. Comunque sono come i cinesi, le differenze sono quelle che ti ho detto: quelli vendono i vestiti, gli altri camminano, quelli gialli, gli altri neri. Tutto li. Ho detto che sono come i cinesi nel senso che a noi non ci danno fastidio. A noi ci interessano i marokki, hai capito? È con quelli che lavoriamo.
-Ho capito.
-Bravo. E non fare lo scemo che mi lasci la giacca sul furgone o il portafoglio in giro, che ci sono quelli che vanno in giro apposta. Specie i ragazzini. Hanno le mani più lunghe degli occhi, e aspettano solo uno scemo come te, senza offesa. Se ti giri e starnutisci ti portano via i pantaloni e le mutande.
Giorgio scoppiò a ridere e diede una botta al volante, strombettando il clacson. Tanto non ci faceva caso nessuno. Era pieno di clacson che strombettavano.
-Ah, rubano?
Giorgio gli lanciò un’occhiata.
-Non ci senti? Guarda che sono svelti, poi non dire che non t‘ho avvisato. Sai quante volte m’hanno fregato, a me? Più svelti dei ragazzini qui ci sono solo gli zingari. Quelli riescono a rubare anche ai marokki, ma in giro ce n’è pochi e se non fai proprio la faccia da tontolone da te non vengono.
-Ho la faccia da tontolone?
-Si. Bè, un po si. Dai, ti devo dire la verità, no?
-Mica per forza.
-Boh, come ti pare. Comunque la fauna è quella. Ci sono i marokki, ci sono i gialli e ci sono i neri. Io fino adesso altri colori non ne ho visti, ma guarda che a Porta Palazzo non si sa mai. Qualche volta ci atterrano i marziani, dico io, così abbiamo pure i verdi.
Allungò la testa fuori e mollò un altro schioppo, che finì a due dita dalla scarpa di un vecchietto che aspettava il tram.
-E i bianchi?
-Io e te- disse Giorgio. -Se ne vedi un altro è un miraggio, oppure un marokko che ha tinteggiato la casa.
Stavano oltrepassando in quel momento la Dora, un Gange torinese un po’ più piccolo dell’originale, ma parimenti marrone e limaccioso. Aldo si allungò sul sedile, scrutando in direzione dell’altro ponte, che era cento metri più in là.
-E quelli che fanno?
Sotto il ponte, dove il terreno spelacchiato digradava verso le acque torbide del fiume, c’erano due persone, una seduta e una sdraiata. Giorgio lanciò un’occhiata e scosse la testa. Diede un colpo alla leva del cambio innestando la terza, e lo scorcio della riva sparì dietro un albero.
-Prendono il sole.
-Che?  
-Quelli non ‘fanno‘, tontolone, quelli si fanno. Vedi che sei tontolone? Entrano in orbita, giocano a freccette, come lo chiami tu?
Il ponte sulla Dora era la frontiera. Di qua dal ponte vigevano certune regole e leggi, di la dal ponte… bè, di là c’era Porta Palazzo, con altre regole e altre leggi. Un osservatore approssimativo avrebbe detto nessuna regola e nessuna legge, ma le regole c’erano eccome. Giorgio lo sapeva, e aveva trovato in qualche maniera educativo osservarne le applicazioni, e non avrebbe saputo dire con precisione perché. C’erano leggi di natura che l’uomo col tempo aveva dimenticato, alterato o deliberatamente soppresso, e a Porta Palazzo erano ripristinate in toto, secondo l’antico costume. Legge del più forte. Occhio per occhio. Roba biblica, roba importante.
-Ecco- disse Giorgio. -Laggiù cosa vedi?
-Marokki.
-Si ma quanti?
-Non so, saranno sette, otto. Una decina.
Giorgio fece una pernacchia. -Fuffa. Sono più di due, non ti interressa quanti. Quando hai finito di contarli siamo già tornati a casa. Hai capito o no cosa ti ho detto prima?
-Allora sono quelli pericolosi.
-E invece no.
-Oh, checcavolo… io non ci capisco niente!
Giorgio allungò una manaccia grassoccia e cantilenò petulante: -Questi stanno sul corso. Quello là è il bazar di Hassan. Quelli che stanno davanti sono amici suoi.
-E io come cavolo faccio a riconoscerli? Sono tutti uguali!
-Non sono uguali. Se stanno davanti al bazar di Hassan, allora sono amici di Hassan. Sai leggere, no?
Aldo tentò di dare un’occhiata e fece una smorfia imbronciata. -In arabo no. Qua è tutto scritto in arabo.
-I negozi dei cinesi no. Te l’avevo detto che sei a casa loro, non te l’avevo detto? Non è che mettono le scritte bilingue per i turisti. Magari dopo qualche volta che vieni lo impari.
-Perché tu lo sai?
-Non so l’arabo, però conosco i marokki, e più o meno è la stessa cosa. Qui sul corso sono tutti bravi perché ogni tanto passano gli sbirri. Adesso hai capito?
-Ho capito.
-Va bene.
-Giorgio?
-Cosa?
-Sei proprio stronzo. Mica ti offendi se te lo dico, no?
-No, fai bene a ricordarmelo.
Svoltarono dal corso e si addentrarono in un bugigattolo in discesa. Una vecchia Mercedes scalcagnata con la marmitta a penzoloni sbucò da dietro un angolo e Giorgio schiacciò il pedale del freno. Aldo, che tutte le volte si rifiutava di mettere la cintura, partì in avanti e si trovò col naso a un centimetro dal cruscotto.
Giorgio bestemmiò e pigiò a lungo il clacson. Dal finestrino della Mercedes sbucò una testa di marokko che latrò qualche parola incomprensibile. Giorgio inserì la prima e scattò in avanti, e il marokko motorizzato fu lesto a spostare la Mercedes prima che il Ducato la travolgesse. Filò via con la marmitta che ruttava nuvole di fumo nero.
-Tu guarda come guidano questi.
Aldo aveva appena compreso cosa significasse essere a Porta Palazzo, il luogo dove le cose non sono mai come sembrano. Agganciò la cintura di sicurezza, anche se viaggiavano ben al di sotto del limite.
-Non avevi detto di non attaccare briga?
-Ma quelli in macchina di solito sono innocui. Poi valeva per te scusa, mica per me.
-Però guarda che roba, questi girano in Mercedes.
Giorgio scoppiò a ridere. -Te ne intendi di macchine?
-No. Perché, non era un Mercedes? Mi pareva di aver visto…
-Si, più o meno. Un marokko-Mercedes.
-Sarebbe?
Giorgio alzò le spalle. -Che vuoi che ti dica, questi hanno la fissa del Mercedes. La prima cosa che fanno appena hanno in tasca qualche soldo è comprarsi un Mercedes. Poi vedono che i soldi non bastano e ripiegano su qualcosa che sta su col filo di ferro e il nastro da pacchi. Ah, bè… l’importante è che sia Mercedes. Puoi dargli anche una macchina polacca con le ruote sgonfie e il motore a pedali, basta che abbia quello stemmino davanti. Marokko-Mercedes. Ne hai uno da vendere? Se hai un Mercedes ti faccio fare un affare, giuro, anche se ha le ruote che si staccano e il motore che gratta per terra.
-Io non ce l’ho il Mercedes.
-Peccato. Secondo me lo fanno perché quando telefonano al paese possono dire che hanno il Mercedes. Ah si, fratello- cantilenò in perfetta cadenza marokka. -Sono appena arrivato in Italia e ho già fatto fortuna. Pensa, ho comprato il Mercedes! Il mese prossimo mi faccio il jet privato e ti vengo a trovare. Oh Gesù, che schifo! Tu guarda come vivono. Ecco, guarda questi.
Aldo guardò. Un gruppo di giovani marokki stazionava all’angolo, in preda ad un irresistibile attacco di buonumore. Quella volta non contò quanti erano. Seguendo la giorgiotecnica erano più di due, e tanto poteva bastare.
-Chi sono questi?
-Io li chiamo il Circolo di Cucito, poi chi siano non lo so e non me ne frega. Sono sempre lì. Ecco, da quelli è meglio che stai lontano, bene?
-Pericolosi?
-Se stai lontano, no. Se non gli  vai a sventolare una mazzetta di banconote sotto il naso, neanche.
Improvvisamente fu Aldo a ridere, e quel giorno era la prima volta che lo faceva. -E chi ce l’avrebbe una mazzetta di banconote, scusa?
-Si, ho capito. Comunque stagli lontano. Quelli vendono il fumo e fanno i loro affari, ma gli viene il naso riccio se uno come te gli ronza intorno. Hanno paura che gli porti gli sbirri, hai capito? Non guardarli di storto, e non fare quella faccia come se gli stai dicendo voi chi cazzo siete? Te l’ho vista fare una volta, e la cosa peggiore è che non ti viene nemmeno bene.
Svoltarono in una piazzetta. C’erano solo poche macchine parcheggiate, qualche bazar, un barbiere (o quello che Giorgio avrebbe chiamato marokko-barbershop), una macelleria islamica e una fila di cassonetti che traboccavano di immondizie e cartoni vuoti. C’era un camion della pulizia stradale che procedeva con la flemma di un pachiderma al pascolo. Il frastuono che emetteva era assordante.
Giorgio rallentò.
-Eccolo laggiù, lo vedi? Quello là è Ahmed.
-Quello con la camicia azzurra?
-Lui.
Davanti alla vetrina di un bazar, un tizio imbrillantinato e smilzo, con folti baffi neri, aspirava fumo da una sigaretta munita di bocchino. Indossava pantaloni eleganti e scarpe lucide. Ogni volta che portava la sigaretta alle labbra, sul dito scintillava un grosso anello d’oro.
-Sta aspettando noi?
-Ahmed non aspetta nessuno- disse Giorgio. -Piglia la roba dal primo che arriva, e lui gli affari li fa solo così. Però è un buon cliente, a prenderlo per il verso giusto. È fuori a fumare perché dentro non si può. Te prova a fumargli nel bazar e lui ti stacca il bigolo e lo rivende ai cinesi per la medicina tradizionale.
-Io non fumo- disse Aldo.
-Bè, meglio per te.
Fermarono il furgone davanti al bazar. Giorgio saltò giù sfoderando un sorriso seducente.
-Ahmed- disse.
I due si strinsero la mano, e Ahmed si toccò il cuore, in un gesto che per i marokki era tipico e molto nobile. Non degnò Aldo nemmeno di una vaga occhiata. Ahmed aveva le sopracciglia incurvate verso il basso, come in bilico tra il perplesso e l’arrabbiato. Giorgio sembrava avere la situazione sotto controllo.
-Ha portato sponia?- chiese Ahmed.
-Niente spugne, Ahmed. Spugne arrivano il mese prossimo.
Le sopracciglia del marokko s‘incurvarono un altro po’.
-Ha portato panosponia?
-Pannispugna uguale. Il mese prossimo.
-Che ha portato?
-Fazzoletti.
Le sopracciglia gli cascarono definitivamente e irrimediabilmente. -Solo fasoletti?
-Solo fazzoletti, Ahmed.
Ahmed agitò la mano che recava il grosso anello d‘oro. Si lisciò i baffi. -Io no serve fasoletti!- brontolò -Io negosio pieno fasoletti. Tu tharthar, sempre porta fasoletti. Io serve sponia, io serve panosponia. Tu porta fasoletti!
-Quelli ho caricato, Ahmed. Tutti fazzoletti.
Ahmed sbuffò. Guardò in giro scuotendo la testa. Arrivò il camion della nettezza urbana, soffiando aria e acqua sull’asfalto, succhiando via le cartacce dalla strada. In un momento tutto venne avvolto dal frastuono delle grandi spazzole che succhiavano via le cartacce dalla strada. Ahmed aspettò che si allontanasse.
-Quanti ha portato?- disse poi.
-Tutti quelli che vuoi. Vedi che ti voglio bene, Ahmed, sono venuto da te per primo. Nemmeno al paese tuo ti vogliono bene come me.
Ahmed fece schioccare la lingua contro il palato. Sbatté le mani in un vago gesto di preghiera.
-Dami ciquanta, tharthar. Io faccio favore che prendo fasoletti. Io no serve fasoletti.
-Prendine cento, che ti fai di cinquanta? Tra due giorni li hai finiti. Guarda che non passo più fino a Natale.
-Solo ciquanta- disse Ahmed.
Giorgio fece segno ad Aldo e aprì il portellone del Ducato. Cominciarono a prendere i cartoni di fazzoletti tre alla volta e a portarli all‘ingresso del bazar, dove un ragazzino marokko sbucato da chissà dove li trascinava dentro. Ahmed soprintendeva il passaggio contando i cartoni in arabo e fumando la sua sigaretta.
-Cinquanta- disse poi Giorgio, posando gli ultimi due cartoni. Non ci avevano messo più di cinque minuti.
-Sicuro, tharthar?
-Cinquanta, non hai contato?
Ahmed rimase profondamente assorto per qualche istante, come a meditare su chissà quale magagna, poi pizzicò il bocchino nero tra due file di denti di colore simile.
-Dami ancora venti- disse.
Giorgio fece un cenno e Aldo riprese a scaricare.
-Trenta- si corresse Ahmed.
-Ahmed prendi ancora cinquanta. Te l’ho detto che poi non vengo più.
-Trenta- disse Ahmed, e il tono era definitivo. Sostituì la sigaretta nel bocchino con una nuova e l‘accese subito. -Tu deve portare sponia, tharthar, tu deve portare panosponia. Tu me riempie negosio di fasoletti, io come lavora? Dame fattura.
Aldo aveva finito di scaricare gli ultimi trenta cartoni e stazionava appoggiato al cofano del Ducato, che emanava un gradevole calore.
-Non ce l’ho la fattura, Ahmed. Ti porto la prossima volta.
Giorgio si sfilò dal taschino una calcolatrice e digitò qualche numero, poi la passò ad Ahmed, che controllò, pigiò a sua volta dei numeri e gliela restituì.
-Io ti da acconto. Saldo quando tu porta sponia e panosponia.
-Niente acconto, Ahmed. Lo sai che non posso.
La cosa frustrò grandemente il marokko.
-Io no lavoro!- disse Ahmed. -Io niente lavoro sta settemana! Io aspettava sponia e panosponia e tu porta fasoletti! Io come lavora? Tu tharthar vuole soldi subito, tu sei… come dice italiano? Tu balengu.
Giorgio lo lasciò fare. Aspettò che terminasse l‘esibizione, poi disse: -Dammi i soldi Ahmed, che dobbiamo andare via.
Ahmed si passò le dita sui capelli. Si toccò i baffi. Guardò a destra. Guardò a sinistra. Il camion della nettezza urbana si stava allontanando portandosi dietro il suo fracasso assordante. Guardò in alto, verso i cornicioni da cui spuntavano decine di code di piccione, e poi guardò in basso, sul marciapiede guarnito da ciò che quelle code producevano. Soffiò aria sconsolato. Diede gli ultimi tiri e gettò via il mozzicone. Disse a Giorgio di entrare nel bazar.
-Te aspetta qui, forse ci metto un po’- disse Giorgio. -Vatti a prendere un kebab, se hai fame, però ricordati di chiudere il furgone e non lasciarci dentro niente.
-Non ho fame- disse Aldo, ma l’altro era già sparito nella penombra del bazar. La porta cigolò e si richiuse, e Aldo rimase solo.
Un marokko che spingeva un carrello carico di scatole marroni attraversò lesto la piazzetta, seguito a ruota da un altro che portava in spalla un tappeto arrotolato. Da quando il camion della pulizia strade se n’era andato, la piazzetta si era via via animata. Sfilarono a fianco del furgone due cinesi, un uomo e una donna, che parlavano fitto fitto.
Poco dopo arrivò a passeggio una ragazza cinese, e Aldo la osservò finché poté, senza riuscire a stabilire quanti anni avesse. Vestiva jeans a chiazze stinte e la maglia era abbastanza corta da mostrare l’ombelico, eppure aveva una bellezza tutta particolare. Serici capelli neri le cascavano fin sotto le spalle, e il viso, un piccolo ovale aggraziato, non era affatto giallo ma bianco pallido. Aveva lineamenti fini e delicati. Era bassa ed esile, e aveva i seni molto piccoli, che appena s‘intravedevano attraverso la maglia.
Aldo drizzò immediatamente la schiena e diede una spazzolata alla giacca sporca. Sfoderò un sorriso ampio a sufficienza da mostrare i denti fino ai premolari e fece un leggero inchino quando la ragazza gli passò davanti.
-Ehi- chiamò. -Buongiorno, parli…
La ragazza gli scoccò un’occhiata fuggevole e allungò il passo. Scomparve dietro un angolo.
-Si- brontolò Aldo. -Buongiorno e vaffanculo. Dio, come odio questo posto.
Sentì qualcosa che lo colpiva lievemente su una spalla. Si girò.
-Tu sei  da Ahmed, si? Tu sei amico di Ahmed.
Era un ragazzino marokko. Non aveva più di dodici anni, e il suo sorriso era senz’altro più largo e convincente di quello che Aldo aveva impiegato un attimo prima con la cinese. Era un sorriso che avrebbe fatto comodo a qualsiasi politico. Un sorriso da prima classe. Aldo sarebbe stato in grado di contargli tutti i denti, uno per uno, compreso il canino che era saltato via lasciando uno spazio vuoto nella fila.
-E te chi sei?
-Io lavoro da Ahmed, si? Sono amico di Ahmed. Io ha visto che tu guarda ragazza, si? Ti piace cinesi?
-Che dici?
-Io ha visto che tu guarda cinesi, si? Allora te piace cinesi. Si vuoi te presento. Io tuuutti qui conosce!
Aldo saltellò su un piede, imbarazzato.
-Senti lasciami stare, eh? Non vai a scuola?
Il sorriso del ragazzino si raffreddò di qualche grado, come se la domanda lo avesse un po’ offeso. -Siiii- disse. -Io vado scuola tuuutti giorni. Anche lavoro da Ahmed, e noi amici, si? Tu sei amico di tharthar, si? Lui parla tanto.
-Si, lo so.
Qualcosa lo colpì nuovamente alle spalle e saltò fuori un altro ragazzino che si appaiò al primo. I due scambiarono qualche parola in arabo, poi il sorrisone da politicante riapparve sulle labbra del magnaccia in erba, più scintillante che mai. Scintillava anche lo spazio nero dove mancava il canino.
-Io vado, adesso, si? Io ha taaanto da fare. Tu saluta tharthar, quando vedi, si? Io amico di tharthar, lui conosce me. Anche noi amici adesso, si?
Gli prese una mano e la strinse vigorosamente.
-Si, amici- disse Aldo. -Come no.
I due ragazzini s’incamminarono, parlottando a bassa voce. Aldo scalciò un copertone del Ducato e si appoggiò di nuovo al cofano. Guardò in giro, ma la ragazza cinese era sparita.
Poi scattò in avanti come se una scarica elettrica avesse attraversato la lamiera del furgone, bruciandogli il fondoschiena. Si palpò le tasche del giubbotto e gridò -Figli di puttana!
Partì all’inseguimento senza pensarci due volte. Svoltò l’angolo, ma i due ragazzini era spariti. Trottolò intorno, imprecando e bestemmiando, e prese una delle viuzze strette ingombre di rifiuti.
Corse a destra e corse a sinistra, finché non si accorse di aver perso l’orientamento. Si fermò solo quanto svoltò a un angolo a gomito e andò a sbattere la faccia contro un uomo. Finirono entrambi a terra. Aldo saltò subito in piedi.
-Ehi! Sei te!
Stava per scattare verso il ragazzino, poi si accorse di tutti gli occhi che lo fissavano e l’aria gli parve raddensarsi. C’erano molte persone intorno. Una moltitudine di marokki, giovani, ma non giovani come i due che gli avevano fregato il portafogli. Erano tutti ben piazzati. Sopracciglia minacciose, capelli ricci e neri, tagliati corti con la sfumatura sulle tempie. Era piombato nel bel mezzo di una riunione del Circolo di Cucito, e insieme al suo arrivo, in quell’angolo era calato un gran silenzio.
Uno dei due ragazzini, l’amico del politicante di quartiere (quasi certamente la manolesta che gli aveva sfilato il portafogli dalla tasca) se ne stava con la schiena appoggiata al muro sporco di un palazzo e le mani in tasca.
Aldo fece un passo verso di lui, e subito un marokko di dimensioni impressionanti gli si parò davanti. Aveva il naso piatto e beveva succo di frutta da un barattolo di vetro. Con una mano grossa come una vanga gli spazzolò delicatamente il risvolto del giubbotto, che nella caduta si era sporcato.
-Sei sporco, sai.
Un qualche genere di risposta gli salì alle labbra, ma evitò di pronunciarla. Gli era montato il sangue alla testa. Ne sentiva il rombo nelle orecchie.
-Chi cerchi?- chiese il marokko gigantesco.
Aldo guardò il ragazzino, ma prima che potesse indicarlo, il marokko gli passò un braccio fraterno intorno al collo e lo girò dall’altra parte. Era molto gentile e molto tranquillo. Il suo braccio pesava come un sacco di cemento. Lo spinse dolcemente nella direzione da cui era arrivato.
-Tu vai via, si? E non corri, se no cadi e ti fa male.
Aldo sentiva le guance così rosse che se ci avesse appoggiato su la capocchia di un fiammifero lo avrebbe acceso. E che poteva dire? S’incamminò da dove era arrivato, e per buona coscienza il marokko gli diede una pacca sul sedere come avrebbe fatto un genitore soddisfatto con un bambino di tre anni.
Ritrovò la strada e tornò nei pressi del furgone, e appena un minuto dopo Giorgio uscì dal bazar di Ahmed. Stava finendo di contare una mazzetta di banconote da dieci. Se le infilò nel taschino.
-Tutto bene? Non ci ho messo tanto, no?
-No.
Giorgio sbuffò. -Lo so, ci ho messo un po’, ma Ahmed ha tutto il suo cerimoniale, hai capito? I marokki sono fatti così, devi saperci trattare. È arrivata una moglie con il tè e ha voluto che lo prendessi.
-Si, ho capito. Andiamo?
-Andiamo, andiamo. Non è mica il caso di fare quella faccia. Io ti avrei anche chiamato, ma poi il furgone chi lo guardava? Se ce lo fregano ci tocca tornare a piedi.
-Si, già. Il furgone.
Salirono sul Ducato, e Aldo piazzò un piede sul cruscotto, sapendo benissimo che a Giorgio dava fastidio perché diceva che poi le impronte doveva pulirle lui. In quel preciso istante non gliene fregava proprio niente.
-Non hai preso il kebab?
-No.
Giorgio mise in moto. -Hai fatto male, sai? Qua ci sono un sacco di cose che fanno schifo, ma il kebab lo fanno bene. Si, dico, devi conoscere i posti, è chiaro, non è lo stesso dappertutto. Io conosco un paio di posti dove lo fanno proprio buono, però ti deve piacere il piccante. A te piace il piccante?
-La roba araba mi fa schifo- disse Aldo.
-Mica tutto, dai. Bene, tanto ci veniamo tutte le settimane. Imparerai, vedrai se non imparerai.

7 Commenti a “Prima lezione”

  1. emmaus 2007 dice:

    Grande Diego! Le tue storie sono sempre piacevolissime da leggere, semplici ma mai banali (è sempre questo il punto…). Davvero bravo!
    Ciao, a rileggerti presto!

  2. wildant. dice:

    Conosco Porta Palazzo.
    Quando abitavo a Torino non era così…si andava al mattino presto al “balun” a cercare qualche pezzo antico o forse solo vecchio e si faceva la spesa al mercatone.
    Non c’erano marokki nè cinesi.
    Tuttavia era un posto assai poco raccomandabile lo stesso.
    Purtroppo è una zona che ha sempre raccolto un certo tipo di personaggi.
    Quando ci torno adesso però sono impressionata…non c’è un solo negozio, una sola vetrina che non abbia le insegne in arabo o in cinese.
    Ti guardi in giro e par d’essere in un quartiere periferico di qualche città esotica, ma poi ti volti e vedi la Mole…
    D’altra parte, se prendi la “90″ a Milano, sei l’unico di razza indoeuropea…e in tutta la zona intorno a viale Jenner è lo stesso.
    Al mercato di viale Papiniano un tempo c’erano le signore radical-chic che cercavano il capo firmato a poco prezzo perchè faceva figo..ora non senti parlare altro che albanese o rumeno.
    Questa estate ero in giro in Duomo, a Milano, e volevo prendere un gelato..stavo per sedermi a un tavolino ma poi mi sono guardata intorno..il locale era affollato, come tutti gli atri. Non mi sono seduta, perchè se lo avessi fatto sarei stata l’unica donna priva di chador.
    In quello come in tutti i bar e gelaterie in Duomo e in corso Vittorio Emanuele. Era agosto, si vede che tutti i milanesi a parte me erano in vacanza.
    Tutto questo non mi dà l’impressione di vivere in una grande metropoli cosmopolita ma mi dà un pò un senso di disagio.
    Sinceramente vorrei dirti che nel tuo racconto c’è un fondo di razzismo. Ma non ci riesco perchè in effetti la situazione è proprio questa.
    Purtroppo è così. E non mi piace. Malavita per malavita almeno con la nostra non si hanno problemi linguistici.
    Perchè l’importante è ricordare che anche prima ,a Porta Palazzo da solo era molto poco salutare andare.
    Bravo Diego!
    Mi hai riportata nella mia città…è scritto veramente bene!

  3. Diego dice:

    Avevo il timore che questo racconto potesse suscitare pensieri di quel genere, Wildant, per questo ero un pò restio a pubblicarlo. E’ in parte autobiografico, perchè se anche la storia è del tutto inventata, il lavoro dei due protagonisti in effetti è proprio quello che faccio io. In questa storia c’è solo quello che vedo, quello che sento e che ascolto quando sono in quel quartiere. In poche parole, quello che io penso del mestiere dello scrittore: in qualità di scrittore, io non vi darò giudizi, posso solo mettervi di fronte a ciò che vedo. E’ un quartiere sordido e, non lo nego, anche pericoloso. Eppure è tremendamente affascinante. Lì c’è tutto il mondo in pochi passi. E’ come vivere un romanzo fantasy, volendo. E’ vero che c’è una vena di razzismo nel racconto, nemmeno troppo latente. Spero tuttavia che sia chiara una cosa: io ho scritto il racconto, ma non ‘sono’ il racconto, se volete capirmi. Grazie per i complimenti!

  4. meled dice:

    Fotografia di vita. Molto ben scritto. Complimenti

  5. wildant. dice:

    Hai fatto benissimo a pubblicarlo invece Diego perchè è proprio bello e ben scritto..appunto, è una fotografia di vita…attualmente le cose stanno così.
    Tra l’altro forse ora il quartiere risalta ancora di più nel suo essere quasi “straniero” perchè c’è stata una notevole rivalutazione dei quartieri limitrofi, a partire dalle torri palatine e le strade intorno..via della Consolata per esempio ..palazzi ex fatiscenti ora ripuliti,locali trendy pieni di gente che un tempo non avrebbe messo piede in quelle vie dopo le 6 di sera per nulla al mondo.. strana città comunque Torino, molto bella.
    (le mie considerazioni in realtà non erano rivolte a te, quanto ai giornalisti, che dovrebbero ancor più di uno scrittore fotografare le situazioni e invece nelle cronache li sentirai sempre dire “rapinatore marocchino, albanese,cinese,… magari si spingono a siciliano o napoletano” ma qualcuno ha mai sentito definire un rapinatore o un assassino “lombardo” o “romagnolo” ? io no. E non mi si dica che non ne esistono….)
    Comunque mi hai fatto venire nostalgia di casa…. farò presto un altro giretto a Torino! Grazie!

  6. ivanvr dice:

    un vero spaccato di vita, mi e’ piaciuto tutto, il personaggio sapientone dei bassi fondi, l’ingenuita’ del ragazzo, la parlata del marocco, i luoghi e l’ambientazione anche se non conosco fisicamente il posto mi sembrava di sentirne gli odori di spezie e di polvere. bravo davvero. ciao ivan

  7. maria cristina dice:

    E’ belllo e reale. Molto reale. Purtroppo è uno spaccato di quello che sta accadendo in tutte le nostre città. L’integrazione è difficile, anche in una città come la mia che, per tradizione politico- culturale è sempre stata aperta alla venuta degli stranieri. L’omicidio di Meredith insegna. Gli stranieri formano una città nella città e noi siamo stati espulsi da quasi tutte le zone del centro storico. Hai fatto bene a scriverlo e a pubblicarlo-

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