via GADDI
Pubblicato da Clelia Liù Grisù il 15 maggio 2008
VIA GADDI Era una leggenda, un luogo d’iniziazione, lo sfondo, l’ambientazione di molti racconti popolari del tempo, su di essa ricamavano storie spaventose che dovevano apparire come vere perché il fenomeno si diffuse anche oltre le mura della città. Si narrava cha al suo interno accadesse qualcosa di sconvolgente, di non comprensibile… Via Gaddi è un piccolo borgo di una Forlì medioevale dimenticato per secoli, la via è così stretta che percorrendola, non puoi voltarti indietro perché le spalle sono bloccate dalle pareti che ti schiacciano e ti costringono ad un’unica direzione, lo devi attraversare tutto per uscirne e non puoi neanche girare la testa leggermente all’indietro se non vuoi rischiare di rimanere incastrato. Non ci sono porte né finestre e le pareti di mattoni a vista sono spesse come case. Su via Gaddi non ci sono ingressi di appartamenti né si affacciano finestre di case adiacenti, essa è contornata solo da blocchi di pareti che dietro di loro ospitano solo altre pareti. Mattoni a destra, mattoni a sinistra, mattoni in profondità. Sotto ai piedi sassi e in alto, una fessura sottilissima di cielo, ma di notte, neanche quella. Non c’è niente al suo interno, solo un passaggio obbligato, qualche rumore, un senso unico senza pentimenti e i propri passi. Uscivano tutti da via Gaddi, perché quello che accadeva lì dentro, era qualcosa di molto più terrificante della morte o della scomparsa, esperienze umane tragiche, ma soprattutto per chi rimane. Era qualcosa che non si vedeva, non si udiva, ma chi usciva da lì poteva giurare che fosse reale quanto era reale la propria esistenza. Furono numerosissimi i casi di persone che uscite, lentamente iniziavano ad odiare se stessi, a disprezzare ciò che prima amavano, a compiere atti di autolesionismo e di rabbia verso il proprio corpo, come non volessero più percepire la propria pelle addosso, e tentavano di strapparsela, fino, in alcuni casi, ad uccidersi. Qualcuno, prima di degenerare, era riuscito a raccontare come lì dentro si fosse sentito così profondamente osservato, percorso da occhi invadenti e sconosciuti che gli avevano mostrato, come specchi deformanti o forse fedeli, l’orrore più recondito e inconscio dei propri pensieri: le bugie più subdole raccontate agli altri e a se stessi, le falsità, le invidie, i desideri di distruzione, di sconfitta altrui, l’odio, la derisione dei più deboli… e tutti quei pensieri che si dimenticano e sembra di non poter esser capaci di concepire. Dicevano di non conoscerne l’esistenza, che era come scoprirli per la prima volta ma allo stesso tempo di riconoscerli come propri, reali, effettivamente pensati e provati moltissime volte.L’ho percorsa oggi, via Gaddi, in una qualsiasi sera d’aprile, oggi che ormai la leggenda è sfumata, dimenticata, sminuita, ridicolizzata… Oggi che per ridargli una dignità hanno installato una “antica” illuminazione a gas che cerca artificiosamente di riesumare la “antica” leggenda, di ricordare. Oggi che donne, uomini e persino studenti e bambini la attraversano sfacciatamente, ridendo ad alta voce di lei e di quel che si raccontava, per chi ancora lo sa. Nessuno si accorge più di nulla, nessuno avverte alcun cambiamento dopo la passeggiata tra le strette mura. Anche noi abbiamo sorriso della sua perduta veste inquietante, dei catarifrangenti dei lavori in corso che la illuminano molto più delle lampade, del rumore della botola calpestata da qualche scarpa da ginnastica, dell’ululato di un cane che guarda caso viene emesso proprio mentre passiamo, della sagoma di Irina là in fondo al tunnel che guarda caso, per un gioco di luci, pare gigantesca e della finestra, comparsa in epoca moderna, da cui si odono risate televisive, e anche da lì, guarda caso, ridono di via Gaddi. Forse ciò che racconta la leggenda, non è mai esistito, o forse non è più in grado di spaventarci? Forse il male dentro all’uomo è diventato così intenso e ingombrante che i nostri inconsci hanno dovuto compiere un lavoro ancora più complesso per nascondercelo tutto, e le autodifese perché l’inabissato inaccettabile non venga a galla sono molto più serrate. Sarà stata la selezione naturale che ha avvantaggiato gli individui dai fenotipi più inconsapevoli, più difesi, che non essendosi suicidati o autodistrutti, hanno potuto riprodursi e trasmettere i propri caratteri, permettendo così alla specie umana di evolversi in un ordigno sepolto inesploso. Fatto sta che oggi ignoriamo la leggenda perché non possiamo più permetterci di sentirci guardati e di vederci dentro… per questo ci guardano da fuori. E mentre penso a questo, alzo lo sguardo verso la fessura di cielo e guarda caso, c’è una telecamera… poi alla televisione di via Gaddi parte la pubblicità!
16 maggio 2008 alle 2:13 pm
Ciao Clelia,
ma dov’eri finita tutto ‘sto tempo? E’ piacere leggerti di nuovo, specialmente quando torni con uno scrito così bello.
Mi piace il tono della narrazione, discreto, non invadente come se stessi raccontando di cose piccole, senza importanza, en passant. E invece ci stupisci alla fine con riflessioni di una profondità inaspettata.
Grazie per avercelo fatto leggere!