Stanza parallela
Pubblicato da Clelia Liù Grisù il 20 dicembre 2007
Stanza parallela
Sono uscita da lì stordita e traballante, sono traballata giù per quelle scale di marmo spesso, con gli scalini alti che fanno fare così fatica quando arrivi, per salire. Non ho dimenticato di ringraziarlo e di salutarlo gentilmente con il solito distacco con cui si cancellano quei ruoli, impossibili fuori di lì.
Un giorno mi ricordo di averlo visto uscendo con la sua bicicletta, darsi la spinta con il busto teso in avanti per la pedalata più potente e credo di essermi accorta per la prima volta del sue essere così umano, reale nel suo gesto accelerante magari per andare a fare la spesa o a casa, dalla moglie. L’ho salutato con la mano da dentro alla mia auto vecchietta con un sorriso da bambina, credo, non so se apparisse artificiale la mia espressione, oppure sincera. Non so bene chi ho salutato, lì fuori, se l’amico, il confidente, il saggio o forse il dottore; e non so bene neanche chi lo ha salutato… forse l’amica, la confidente, l’inesperta o l’ammalata. Era ancora presto per capirlo allora.
Credo che uscendo da quel laboratorio, dopo l’ennesimo esperimento in cui smascheravamo sempre gli stessi meccanismi fatti di ingranaggi fatti dalla vita, credo, oggi, di aver raggiunto per un momento una certa consapevolezza.
Era come se vedessi per la prima volta quel viale, quegl’alberi, S. Domenico e la bellezza di una parte della mia città. Sentivo i miei passi così miei andare all’unisono con tutto il resto, il vento sul viso era perfetto per dipingermi in faccia un senso di svolta. I colori erano vivi anche se il sole d’inverno di tarda mattina non faceva del suo meglio.
Ho cercato quel gatto di città che prima di entrare avevo visto salire sull’albero senza accorgermi di notarlo, l’avevo creduto solo e spaventato mentre ora mi suscitava un qualcosa di strano, un pizzicore allo stomaco che chiamerei curiosità.
Ero curiosa, da quanto tempo non ero stata più curiosa? Il gatto non c’era più ma non importava, era importante averlo cercato.
Mi scorreva la pellicola di anni di silenzio, la stessa inquadratura, gli stessi sbagli, la delusione, l’adeguarsi per difendersi e poi la ribellione incompresa; l’insoddisfazione, l’apatia, la nebbia negl’occhi.
Vedevo così nitidamente ma sapevo che avrei perso quel potere miracoloso non tanto tardi. E dire che in quel momento sembra sempre così intensamente tutto possibile.
Che strano come quella piccola stanza parallela con tre poltroncine, qualche quadro, giusto perché ci stava bene appeso qualcosa su quei muri pregni di angosce, un orologio al contrario, il tappeto che insonorizza il dolore e lui, tutti insieme… lo so, conosco il trucco, è il setting, devo averlo studiato, deve essere per questo che l’effetto placebo di certe affermazioni su di me non ha effetto… dicevo che è strano come quella stanzina male arredata si trasformi, appena mi siedo, in quell’ingorgo di viali trafficati da neurotrasmettitori carichi di messaggi.
Mi siedo in cima alla mia poltrona, in postazione, tre, due, uno, pronta per il lancio di espulsione con cui vomito i nodi impronunciabili del mio inconscio. E lui quasi dattilografa. Ma è orribile quando rilegge ad alta voce i miei pensieri virgolettati dell’ultima volta, l’orale trascritto giudicato con quel “senso comune” che appena arrivo è ancora attivo fa schifo agl’occhi del mio super-io. Ma poi mi riscaldo e lo riempio di domande esistenziali, quelle che faccio a me alle quali dovrei saper rispondere da sola immagino. Ma lui pare soddisfatto di quelle domande e si applica ad esse per allenare la sua professionalità, si appassiona ad esse, sembra tenerci è bravo, o forse chissà, magari quelle stesse domande stuzzicano anche il suo sentire, forse se le pongono tutti quanti queste stesse domande…e allora che ci faccio qui?
Dentro al groviglio fluttuo e a volte dimentico di fare esempi concreti, dimentico che ho davanti un perfetto sconosciuto che di me non ha vissuto niente. Non esiste nel mio dramma se non come unico spettatore della mia voce narrante… e poi vibra il telefono e allora precipito da quella postazione di lancio, mi sconcentro e di nuovo mi sembra assurdo essere lì, come è assurdo chiedere ad uno straniero un’indicazione per la via di casa.
Però resisto, forse perché a volte mi sembra l’ultima partita che mi resta da giocare, nonostante il non farcela da sola mi spaventi quasi più del non farcela stesso.Però poi uno sguardo in su e il pensiero di un gatto che non c’è mi fanno ricredere e sentire che forse ne vale la pena.
È difficile tornare a casa a pranzo, sempre un po’ in un ritardo da giustificare, richiamare chi mi ha cercato e far finta di non aver fatto nessun giro sulle montagne russe… dare spiegazioni bugiarde. Adesso però ci sono affezionata alla mia bugia, la prima occasione con cui mi alleno ad innaffiare il mio giardino, solo mio. Tolto quello che pensano gli altri, mi piace avere questo segreto, solo mio, di un momento in cui in fondo, non faccio che prendermi cura di me, lo faccio per me, per una volta, ed è bellissimo.
Alla fine pago, ricevuta, agenda, appuntamento, le scale difficili, i saluti imbarazzanti, esco e non mi giro… ho fretta di applicare il nuovo alla vita.
20 dicembre 2007 alle 12:44 pm
Che bello! Sembra una canzone più che un racconto. Le immagini e le sensazioni si rincorrono e si accavallano, e scorrono via come un torrente di montagna. Complimenti!
21 dicembre 2007 alle 10:42 am
Sì Giulia, mi associo ai complimenti di Diego! Si legge tutto d’un fiato.
21 dicembre 2007 alle 6:33 pm
Condivido i giudizi di Andrea e Diego. Brava Giulia!
24 dicembre 2007 alle 11:14 am
Bello! Brava.