Pensieri e racconti – Brandelli di vita dal pianeta morente

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      Aereoporto di Fiumicino. Ottobre 2006. Un uomo sta scegliendo delle riviste che gli consentiranno di passare un'oretta prima di partire per Catania. Al momento di prendere il solito settimanale, decide di comprare un block-note ed una penna. Si siede, mette i Subsonica in cuffia e inizia a scrivere. Riempie il blocco in poco più di mezz'ora. Da allora, non ha mai smesso di scrivere. Neanche in questo momento. Un abbraccio a Paolo, che era con me in quel viaggio e che ora è in viaggio, per non so dove. Per sempre.

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I Vigilanti

Pubblicato da kiwi65 il 12 gennaio 2008

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Non avevo mai camminato sulle mani. Neanche da piccolo. Avevo paura di non riuscirci e non ho mai voluto provare. Avevo tirato fuori una scusa, per giustificarmi, come fanno i ragazzini. Questa cosa è una scemata e non la faccio.


Ci penso spesso, quando la sera guardo fuori dalle fessure del portone del garage. Speriamo questa notte sia sereno. Qualche nuvola in lontananza oscura la luna quasi piena. Si può fare.


Se avessi camminato sulle mani allora. Se solo avessi provato. L’orgoglio meschino mi dice che non devo avere rimpianti. Che ho fatto sempre le scelte giuste. Il cuore no.


E se avessi provato? Il mondo mi sembrerebbe diverso, oggi?


Gli anni mi hanno cambiato. Sono diventato un appassionato di auto e di corse notturne. Ora siamo un bel gruppetto. Nessuno di noi conosce i nomi degli altri, perché non è sicuro. E poi non serve. Abbiamo una cosa che ci divide e una cosa che ci unisce. Quello che ci divide è il colore. Quello che ci unisce è la voglia di sfidare i Vigilanti.


Ormai sono tre mesi che non vedo più il Viola. L’Azzurro non lo ricordo ormai più. Siamo rimasti in tre. Io, il Nero e il Giallo.


Ci vorrà ancora un po’. Le fotoelettriche della torre d’acciaio che domina la città smetteranno di illuminare questa parte e io avrò un minuto di tempo per uscire. Solo un minuto.


E’ duro aspettare, ma ne vale la pena. L’accordo è che il primo che esce parte. Gli altri no. Aspetteranno la prossima volta.


Mi sembra di vederli. Il Nero ed il Giallo. Chiusi nei loro garage in attesa che la luce diventi più fioca. Un sobbalzo ad ogni pattuglia che passa davanti al loro viale. Ogni volta che arriva l’oscurità per un attimo sembra il momento giusto.


Niente. Bisogna aspettare.


Una volta le macchine erano tutte uguali. Tutte inquinavano e tutte si potevano comprare. Poi uscì una piccola macchina giapponese fatta dalla Soto. Un’auto insignificante. Che aveva emissioni zero. A mano a mano, tutte le legislazioni mondiali si sono adeguate. Tutti hanno dovuto comprare macchine Soto, le uniche depositarie del brevetto. Tutte le altre macchine sono diventate fuorilegge. Si possono tenere. A patto che vengano usate come pezzi da museo.


Nel giro di qualche anno la Soto Corporation è diventata padrona delle nostre vite. Ogni cosa nella nostra casa, alimenti, mobili, elettrodomestici, vestiti, ha una piccola S rossa da qualche parte.


La mia Effe invece me l’ha lasciata mio zio. Avevo quindici anni, quando ho iniziato a salirci su. Non sapevo neanche cosa fosse un cambio.


Lui l’aveva ereditata a sua volta da suo padre, uno strepitoso giocatore di biliardo. Aveva giocato a goriziana in quasi tutto il mondo, sfidando chiunque e dovunque. Vincendo sempre.


Mi ha raccontato che un giorno, un uomo svizzero molto ricco gliela regalò, per chiudere un debito di gioco. Da quel giorno, questo gioiello di meccanica è stata mantenuto perfettamente efficiente. Un giorno lo andai a trovare in campagna e lui mi portò nel pagliaio a vederla.


Una meraviglia di cerchioni cromati e pneumatici giganteschi. Un motore che acceso metteva paura. Me ne sono innamorato subito.


Ci ho messo dei mesi per domare quel mostro.


C’è un momento che senti che sta per arrivare l’oscurità. Quella vera. Lo senti. E’ quando c’è la luce più accecante. Quando le sentinelle fanno l’ultimo giro per girare poi dall’altra parte. Un minuto e poi le luci nelle strade si spegneranno per mezz’ora.


Buio. Sessanta secondi.


Uno, due, tre.


Salto in macchina. Giro la chiave. In moto.


Il brusio del mio Effe al minimo mi accarezza.


Venti, ventuno, ventidue.


Telecomando. Apro il garage.


Finalmente entra la prima. Via.


Esco sul viale e salgo sul cavalcavia. Stasera a casa, ragazzi. Esco io.


Rettilineo. Centoquaranta.


Cinquantotto, cinquantanove.


Mi hanno individuato. Tra poco li avrò addosso.


Sento le sirene.


Guardo il contachilometri. Centosessanta.


Appaiono nello specchietto retrovisore. Sono in due. Con le loro Soto supertruccate. Gli abbaglianti mi entrano dentro e i lampeggianti illuminano la campagna. Si avvicinano.


Forse è la prima volta che provate ad inseguirmi. Avete mai visto una Effe al lavoro, Vigilanti? Avete mai visto una meraviglia cosi’? Avete mai sentito parlare di un motore turbo? Avete una lontana idea di cosa sia?


Il cambio automatico delle Soto probabilmente andrà bene sulle giostrine. Chi guida una Soto non può neanche lontanamente immaginare cosa significhi avere sotto le mani Effe.


A freddo il cambio manuale si ribella ferocemente ai comandi. Poi, quando Effe si sente sufficientemente pronta, ogni marcia va dentro dritta come una fucilata. 


Con l’acceleratore invece non c’è niente da fare. O apri tutto o devi tamburellare col piede. Nessuna progressione. Quando l’acceleratore non è giù, la turbina urla selvaggiamente, pompando aria a vuoto.


Guardate. Guardate bene la fiammata dallo scarico. Che ve ne pare?


Scalo in quarta. Curva a destra. Effe resta incollata al terreno. Addrizzo e aspetto che loro spuntino dalla curva.


La prima Soto entra bene e accelera. La seconda picchia la coda contro il guard-rail e fa una paurosa sbandata. Ma poi si raddrizza.


Devo allungare. Non posso allontanarmi di molto. Mezz’ora in tutto dura la fuga.


La voce dell’altoparlante della prima macchina si fa sentire presto.


“VIGILANTI. FERMATI ED ESCI DALLA MACCHINA CON LE MANI ALZATE”


Mezz’ora. Solo mezz’ora.


La mia Effe divora l’asfalto. Ad ogni curva lo sfrigolare dei pneumatici mi dà un brivido di piacere immenso. Nello specchietto, le sbandate delle macchinette dei vigilanti.


Centoottanta.


Non mollano. Si dice che ogni ribelle in fuga che non riescono a catturare comporta una punizione esemplare.


La rigenerazione.


Le pattuglie che non hanno eseguito il compito vengono prese e portate nei sotterranei del governatorato, dove una volta venivano ospitati i carcerati.


In quei sotterranei esiste ora solo un macchinario. Il rigeneratore. I condannati vengono presi, fatti sedere e la loro mente viene sottoposta a dieci minuti di sollecitazioni artificiali negative. Tutte le ansie conosciute, i dolori dei vari tipi, gli stress più intensi vengono compressi e pompati nella testa dei condannati. Dieci minuti che nessun essere vivente vorrebbe mai vivere.


Finito il trattamento la loro mente viene rigenerata. Riportata ad uno stato adolescenziale. Come conseguenza del trattamento, i condannati rimangono in uno stato di ansia continuo per una settimana, nella quale la cosa peggiore è sentire l’ansia più divorante che si possa immaginare e non ricordare il motivo che l’ha generata.


Ecco perchè non mollano. Non riesco a dargli più di cento metri. E ci devo riuscire. Se non li stacco almeno di un chilometro sono il prossimo candidato per una pena terrificante. Forse la rigenerazione. Forse peggio.


Duecento. Duecentodieci.


Al di là della collina c’è una strettoia con un ponticello. Per fare quello che voglio fare devo andare oltre duecento. La mia Effe non mi lascerà nei guai.


Salgo sulla collina e non decellero. Metto la quarta.


La collina finisce. Effe decolla e vola per un bel pò, giusto il necessario per saltare il ponticello.


TUMPF!  L’atterraggio è duro. Effe ruggisce e non fa una piega.


Dopo qualche secondo, le due Soto provano ad imitare Effe. Una si rovescia in volo e finisce fuori strada. L’altra è costretta a frenare e a passare la strettoia quasi ferma.


Meno uno. Avanti.


Ancora venti minuti. Mi dirigo verso il lago. L’ultima volta non ho fatto in tempo e sono dovuto rientrare subito. Ho rischiato molto. Questa volta voglio girare attorno al lago e salire fino in paese.


Vedo la torre della chiesa in lontananza. Mi addentro nei vicoli e mi avvicino ad un gruppo di ragazzi che chiacchierano sotto il campanile.


Mi fermo, scendo e mi dirigo verso di loro. Gli do la mia macchina fotografica e gli chiedo di farmi due foto assieme a qualcuno di loro, sotto il campanile.


Sono consapevole di essere diventato una specie di mito, in questo posto. Specialmente per questi ragazzi. Uno di loro viene da me sorridendo. Gli altri si mettono attorno ad Effe.


Facciamo due foto di corsa. Qualche ragazzo mi chiede imbarazzato se potrà averne una copia. Ragazzi, è pericoloso, gli dico. Non fa niente, ne sarei orgoglioso, mi risponde il più sorridente.


Salendo in macchina, mi porto via la macchina fotografica e un groppo alla gola.


Predo la strada che esce dall’altra parte del paese. Sui muri si comincia a vedere la luce dei lampeggianti della Soto superstite.


La mezz’ora volge al termine e faccio il giro lungo per tornare a casa. Mi infilo rapidamente dentro il garage e chiudo la porta, prima che le fotoelettriche ricomincino a scrutare le vie periferiche.


Chiudo gli occhi e mi godo la mia ennesima vittoria, seduto dentro la mia Effequaranta Rossa.


Poi salto giù e, senza pensarci, faccio un salto e mi metto in verticale sulle mani.


Cammino. E’ bellissimo.

Non avevo mai camminato sulle mani.

2 Commenti a “I Vigilanti”

  1. emmaus 2007 dice:

    Bello! Complimenti Piero! Davvero ben scritto, ambientato in un futuro angosciante ma con squarci di vita… vera! Con quel che costa la benzina, mi sa tanto che le Soto le faranno davvero… Ciao! Alla prossima!

  2. wildant. dice:

    idea brillante.
    a partire dallo spunto della paura a camminare sulle mani con le implicazioni psicologiche evidenti ,alla corsa del “riscatto “.
    hai trascurato di chiarire alcuni perchè (perchè solo mezzora?) ma ci si fa prendere dalla storia e quasi non ci si fa caso..
    piacevole!

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