LA CASA VUOTA
Pubblicato da mariacristina il 30 gennaio 2008
Da pochi giorni, Attilia Caraspiga aveva compiuto quaranta anni. Una data fatidica, quella, perché, per la prima volta nella sua esistenza, aveva compreso come le stagioni della vita fossero passate in fretta, e lei era sbocciata, fiorita ed appassita nel breve volgere di un battito di ciglia. Improvvisamente inacidita e rancida come uno yogurt scaduto.
Da quel lontano giorno di dicembre in cui aveva scovato la prima ruga aprirsi il solco alla radice del naso, proprio nel bel mezzo delle sopracciglia, erano passati ormai diversi anni, ma Attilia ne aveva conservato un ricordo di attonita sorpresa, di smarrimento totale ed ineffabile, come quello di chi, improvvisamente, scopra di essere segnato da un morbo oscuro ed invincibile. Da allora, era stata preda di un male atroce ed inguaribile, un male per cui non esisteva più nessuna cura: il suo tempo era fuggito, e lei era rimasta sola.
Quando si è giovani, molto giovani, non sempre ci si rende conto che gli anni passano e si lascia che le persone, le occasioni e la vita ti scorrano accanto come vascelli persi nelle nebbie del tempo. Quante volte aveva pensato che sarebbe stato saggio concedere il suo cuore a qualcuno? Due o tre volte, forse. Ma aveva sempre deciso di non lasciarsi andare: di non permettere a nessuno di tarparle le ali. Aveva tante prospettive dinanzi a sé. La vita pareva colma di promesse dolci e meravigliose. Così, Attilia aveva sempre evitato le decisioni definitive e non aveva mai veramente vissuto. C’era tempo. C’era sempre stato tempo. Ma, ora che si guardava allo specchio e osservava il viso striato da solchi profondi e la radice dei capelli che ricresceva sempre più bianca, si chiedeva dove fosse andato a finire il suo tempo e dove si fossero nascosti gli amici, gli amanti, le prospettive di una vita felice. Dove erano fuggiti i suoi sogni?
Forse, se almeno avesse avuto un figlio tutto suo da allevare, le cose intorno a lei avrebbero assunto un colore diverso. Ma crescere un figlio da sola non sarebbe stato semplice. Lo stipendio le bastava appena per sopravvivere e nessuno l’avrebbe mai aiutata. Si aveva un bel parlare di parità ed emancipazione ma, in una piccola città di provincia come la sua, essere una ragazza madre non era per nulla facile. Non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare la disapprovazione dei parenti né il ripudio dei suoi genitori. La liberazione era una cosa da ricchi. Serviva poco a quelle che, come lei, dovevano fare i conti con la triste realtà quotidiana.
Era stato per questo che aveva scelto la solitudine.
Di giorno, faceva la cassiera presso un grande supermercato della sua città. Era bello. C’era tanta gente che entrava per fare la spesa o anche solo per guardare, come se fosse un gran parco giochi o un giardino delle meraviglie. Le persone vuotavano i loro carrelli pieni zeppi d’ogni ben di Dio sul bancone davanti alla sua cassa e lei segnava i prezzi della merce acquistata con sapienza e con maestria, facendo scorrere lentamente il gran nastro rotante sul quale scatole e scatolette arrivavano fino a lei. Era bello. Amava il suo lavoro.
Solo qualche volta si sentiva un po’ triste. Accadeva, di solito, quando qualche anziano era costretto a rimettere sugli scaffali parte della roba che avrebbe voluto comperare, perché non aveva i soldi per pagarla. Allora, Attilia aveva preso l’abitudine di corrugare il viso con solennità corrucciata, schiudendo le labbra sottili in un “oh” che esprimeva la sua sommessa disapprovazione nei confronti della vita. Cosa avrebbe mai fatto se un giorno le fosse capitato di ritrovarsi vecchia e sola, senza nemmeno il necessario per la spesa quotidiana?
Ciò nonostante, le sue giornate sarebbero state sopportabili, se non proprio felici, se fossero rimaste circoscritte al lavoro nel supermercato. Purtroppo, però, la sera segue sempre il giorno e, inevitabilmente, giungeva l’ora in cui doveva abbandonare il suo angolo fatato e uscire in strada. Era triste, molto triste, quando i negozi chiudevano. Il rumore metallico delle saracinesche che si abbassavano era il suono dei sistri mortiferi che le annunciava il ritorno alla sua solitudine.
D’estate, quell’orribile situazione era tollerabile. Le lunghe giornate di sole e le molte ore di luce le permettevano di prolungare la sua vita fuori, nelle strade sempre piene di gente e di rumori. Ma, d’inverno, il buio scendeva troppo presto e Attilia si ritrovava troppo a lungo a fare i conti con la squallida solitudine della sua esistenza.
Forse, se avesse scelto di condividere la vita con un animaletto: un cane, un gatto, un uccellino, il suo buio avrebbe trovato un po’ di luce e di calore. Ma non volle mai scendere a compromessi con se stessa: solo una famiglia tutta sua avrebbe potuto alleviare la solitudine.
Così, in una fredda sera di dicembre, quando le giornate diventano sempre più corte e le ombre si allungano gelide e silenziose, come lunghe dita ghiacciate sulla landa desolata della tua esistenza, Attilia decise che, per quella notte, non sarebbe tornata nella casa vuota.
Il suo appartamento deserto e solitario, lontano, nella grigia periferia, le faceva orrore. Lì, fuori del supermercato, nelle vie del centro, rimase stordita a guardare la gente che correva e si affrettava carica di pacchi e pacchettini. I negozi erano tutti illuminati e le strade risplendevano di mille luci colorate. Nella parte centrale del Corso, dove Via Baglioni, che prima scorre parallela ad esso, si immette come un affluente nella strada principale, un enorme albero fendeva la nebbia e il buio della notte con le sue mille lampadine tutte accese. Per un attimo si sentì felice. La gente intorno a lei correva all’impazzata, verso gli ultimi autobus della sera o verso le auto parcheggiate nei tanti garage che circondavano l’acropoli. Sicuramente, qualcuno a casa attendeva il loro ritorno. Ma chi aspettava il suo? Fu così che decise di andare a piedi.
Mentre scendeva giù, lungo Via Oberdan, verso Piazza Cacciatori delle Alpi, notò che la gente intorno a lei scompariva a poco poco, inghiottita dalla nebbia dell’inverno. Ma non si diede per vinta. Era la vigilia di Natale e non voleva tornare a rinchiudersi nel suo triste appartamento di periferia. Continuò a camminare, anche se era freddo Molto freddo.
Errò per tutta la notte, e per il giorno successivo.
Forse non ha mai smesso di farlo, e vaga ancora su strade sconosciute.
Non è più tornata alla sua casa, e al supermercato hanno dato l’allarme solo alcuni giorni dopo, non vedendola più tornare.
I suoi genitori la piangono, ed anche parenti ed amici. Ma, le loro, sono solo lacrime di coccodrillo.
Di Attilia Caraspiga non si sa più niente. E’svanita nel nulla come il tempo della sua vita, fuggito via troppo presto, con il carico di tutti i suoi sogni.
31 gennaio 2008 alle 6:42 am
Brava Maria Cristina! L’argomento è triste, indubbiamente, ma fa riflettere. La vita, in fondo, è una ruota che gira, anche se è difficile accorgersi che è in movimento(tranne che ai compleanni…).
Mi è piaciuto. Ciao! Alla prossima!
3 febbraio 2008 alle 7:13 pm
TRiste davvero e la solitudine è davvero la cosa che fa più paura: più della vecchiaia…più dei demoni!
5 febbraio 2008 alle 10:46 am
Bellissimo! Ancora piu’ bello dei tuoi racconti horror “tradizionali”. Se posso essere sfacciato, io leggerei volentieri ancora qualcosa di questo genere
9 febbraio 2008 alle 10:57 am
Bello davvero…sicuramente fa riflettere! Bellissima l’immagine dei “sistri mortiferi”, mi ha colpito parecchio!
20 marzo 2012 alle 2:43 am
I dont disagree with you.
20 marzo 2012 alle 2:07 pm
This surely makes perfect sense…
23 gennaio 2014 alle 7:29 pm
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