“Dacci oggi il nostro orrore quotidiano”

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Morirete tutti

Pubblicato da mariacristina il 12 marzo 2008

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MORIRETE TUTTI

 

Faceva freddo, quella mattina, ed era umido, quando il giovane templare  venne scortato al patibolo fra una folla urlante e festosa. Il suo sguardo era gelido: – Morirete tutti!- gridò, mentre veniva legato al palo e le fiamme cominciarono a lambirlo.

Alla sua destra e alla sua sinistra, a due per parte, quattro uomini erano incatenati a travi di ferro issati sulle lugubri pire di paglia. Piangevano ed imploravano pietà. Sui loro volti sfiniti ed emaciati, si leggevano i segni delle atroci torture che avevano dovuto subire prima che fosse loro estorta la confessione. Ma quale valore poteva mai avere una confessione strappata ad uomini legati ad una ruota che slogava e spezzava articolazioni e legamenti; ad uomini appesi per giorni a catene inchiodate nella volta cavernosa della galera; ad uomini abbandonati, senza acqua e senza cibo, con le ossa ed i muscoli straziati e dilaniati dalla tortura? Quale valore poteva mai avere una confessione estorta con pinze infuocate, con chiodi taglienti ed appuntiti infilati nelle carni? Strappata con il dolore e con la paura?

Così avevano rivelato di appartenere alla setta degli adoratori di Vaath, l’angelo caduto ai tempi in cui Lucifero si era ribellato a Dio. L’ira dell’Essere Supremo lo aveva scagliato giù, sulla Terra, a chilometri di profondità, nel cuore degli abissi più oscuri e segreti sui quali sorge l’Appennino centrale. Quella montagna era da sempre stata chiamata Pizzo del Diavolo. Nessuno sapeva perché. La gente del posto sapeva soltanto che quello era un luogo da cui stare lontani. Se ci si avvicinava troppo al monte, attirati dai suoi fianchi boscosi e dalle pozze di acqua calda e  solforosa che sgorgavano alle sue falde, i più avvertivano il sentore di presenze oscure ed innominabili.

La presenza del Male.

Ed avevano ragione, perché, tra quelle alture così ricche di fronde verdi e boscose, il demone si era risvegliato.

In preda agli spasmi della tortura, gli uomini avevano raccontato di averlo incontrato, una sera.

Un orrido  diavolo: enorme, nero, squamoso, con la parte inferiore del corpo da serpente e la testa informe. Dalle squame, sorgeva un ammasso gelatinoso e viscido, che aveva ai lati due corte appendici, a mo’ di braccia, che terminavano con degli unghioni lunghissimi e possenti, pronti ad artigliare le carni della preda. In una delle sue mostruose mani, l’essere reggeva un flauto. Quello strumento musicale doveva essergli molto caro, perché il capo deforme era rivolto verso di esso ed i due buchi vuoti, che aveva al posto degli occhi, sembravano fissarlo con intensità adorante. La bocca, infine, era contorta in una smorfia feroce che lasciava intravedere lunghe zanne affilate, pronte a dilaniare le carni che le mani mostruose avrebbero artigliato.

Ebbero paura. Un terrore folle ed innominabile avvinghiò le loro membra e impedì loro di fuggire.

Si ritrovarono stesi al suolo. In posizione prona. Adoratori di una divinità infernale e malevola.

Solo Manfredi, il giovane templare, era ancora in piedi.

Era rimasto immobile,  piantato sulle solide gambe di soldato, con le braccia pendenti lungo le pesanti maglie del giaco ed i pugni serrati nello spasmo del terrore.

- Chi sei – gli aveva chiesto con un filo di voce, mantenendo, nonostante tutto, la belle testa eretta in segno di sfida.

Il demone aveva riso, schernendolo.

Ma lui non si era lasciato sopraffare dall’orrore: – Chiunque tu sia, essere immondo, sappi che noi siamo Templari. Siamo i servitori del Tempio e della sacra croce di Cristo che portiamo effigiata sul nostro petto e scolpita con marchio indelebile nel nostro cuore.

Vaath aveva riso ancora. In un modo così gutturale e profondo che,  per giorni,  quel suono orribile ed osceno era rimasto serrato nelle loro orecchie e nei loro cervelli, impedendo di udire qualsiasi altra cosa. Avevano pregato, avevano invocato il loro Dio, lo avevano implorato di proteggerli in quel frangente tanto pericoloso ed oscuro. Ma Dio non aveva risposto.

E allora avevano fatto penitenza.

Si erano legati intorno alla vita un ruvido cilicio di corda, che recava intrecciati degli spini simili a quelli della corona che Gesù aveva portato sulla croce.

E si erano flagellati, tutti e cinque, a turno, con crudeltà e ferocia inaudite, pur di estirpare il Male dalle loro anime e dai loro cuori.

Ma Dio li aveva abbandonati. Erano rimasti soli, tra quelle montagne infestate dall’antico angelo ribelle caduto sulla Terra.

Così, un giorno, avevano spogliato le loro cavalcature dai bianchi drappi crociati, avevano bruciato il vessillo del Tempio ed avevano svestito le insegne dell’ordine.

Si erano issati sui loro cavalli e, con Manfredi alla testa, si erano diretti verso la montagna maledetta:il Pizzo del Diavolo.

Erano arrivati fin lì percorrendo un profondo canalone che un fiumiciattolo aveva scavato nella roccia bianca e friabile del massiccio montuoso. Lo avevano seguito per circa due chilometri, dopo il tramonto, alla pallida luce della luna,fino a raggiungere il punto in cui il piccolo corso d’acqua si univa ad una vena solforosa e calda,  che proveniva dalle viscere della montagna.

Smontarono dalle cavalcature e attesero, ai margini di un boschetto di quercia che arrivava quasi a lambire la piccola pozza formata dalla confluenza del fiume e della polla termale.

Indugiarono per tre giorni e due notti in religioso silenzio. Poi, la notte del terzo giorno, la luna piena raggiunse il sua apice nel cielo. I cinque uomini erano stanchi e disfatti, stremati dalla fatica e dalle privazioni del viaggio e dell’attesa.

I cavalli erano da tempo fuggiti via, in preda all’orrore più profondo.

Ma loro erano rimasti.

Guardarono la luna, così alta e brillante  nel cielo, unica luce in un universo immobile e buio. Non c’erano stelle, quella notte, ma solo una sfera enorme e rossastra, che incombeva sugli uomini con la sua luce macchiata di sangue.

Fu allora che l’udirono. Una nota. Una nota sola, melodiosa e ossessiva, provenire da mondi lontani. La loro attenzione si rivolse immediatamente al punto in cui la confluenza fra l’acqua calda e l’acqua fredda formava uno strano gorgo roteante, che sembrava perforare l’acqua in profondità per scendere dritto fin nell’oscurità degli abissi.

Era da lì che il suono proveniva.

Lo videro emerger lentamente, tra i vapori solforosi della polla termale. Veniva dagli antri più cupi e segreti della Madre Terra. Per primo, apparve l’ammasso informe e gelatinoso della testa, poi, come spinto da una forza nascosta, emerse il tronco. Era una massa deforme e cascante, fatta di materia e non di carne. Non aveva nulla di umano. Ai lati di quello che avrebbe dovuto (o voluto) essere un torace, spuntavano due specie di pinne munite di artigli. In una teneva serrato una specie di flauto, sul quale suonava una melodia calda ed ammaliante, composta da un’unica nota.

I  cinque templari si prostrarono al suolo in atto di adorazione.

L’entità continuò ad emergere lentamente dai recessi nascosti degli abissi. Nelle due cavità che aveva al posto degli occhi, brillava una strana luce rossastra, ardente come brace. Quel fuoco proveniva direttamente dall’inferno.

Quando fu completamente fuori dall’acqua, Vaath staccò il flauto dalle labbra e guardò gli uomini che gli si erano prostrati dinanzi. Non aveva labbra, ma solo una fessura lunga e profonda, incisa con una lama acuminata là dove avrebbe dovuto trovarsi la bocca.

La fessura si aprì e il demone alitò parole in un linguaggio oscuro e incomprensibile.

Ma gli uomini stesi al suolo le udirono: -Alzatevi, miei servi, e venite a me. Io sono Colui che da millenni abita le profondità di queste montagne. Sono Colui che può darvi la morte, ma anche la vita. E, se volete, la vita che vi darò sarà eterna. Come la mia.-

Gli uomini, in ginocchio, lo fissarono estasiati, in preda ad un mistico abbandono.

L’essere fece loro segno di avvicinarsi. Ad uno ad uno, Manfredi in testa, i templari si spogliarono e si immersero nella pozza d’acqua calda e solforosa. Ad uno ad uno Vaath li sfiorò con le sue strane pinne da pesce, benedicendoli con parole oscure e innominabili. Ed essi lo adorarono, come se fosse stato il loro vero dio.

Poi, tornarono sull’erba accanto alla pozza, e si prostrarono al suo cospetto. Il demone li guardò con i  rossi occhi di brace ed alitò i suoi ordini:  – Ho fame. –Disse. –Voi, miei servi, mi procurerete il cibo di cui ho bisogno. Ed io mangio solo carne. Carne umana. Fresca e giovane. Carne di bimbo e carne di vergine.-

Fu così che, per circa due anni, il territorio circostante il Pizzo del Diavolo si trasformò in un  luogo di oscuri e perversi massacri. Nelle notti di luna piena, quando l’astro si levava alto e solitario nel cielo nero come la pece, e aveva intorno a sé  un alone di luce vermiglia, si udiva scendere per la vallata il suono ammaliante di un flauto, modulato su un’unica nota. In quelle notti di sangue, bambini e vergini sparivano dai loro letti e dalle loro case. Manfredi e i suoi templari si aggiravano per le vallate circostanti la montagna a razziare giovani vite: dovevano nutrire Vaath.

Ed in quegli anni difficili, la schiera dei devoti alle tenebre si ampliò, giorno dopo giorno. La lotta per la supremazia sull’Italia scatenata dal Barbarossa contro i Comuni e papa Alessandro III, aveva reso sempre più difficile la vita, non solo per gli abitanti delle città, ma anche e, soprattutto, per quelli delle campagne. A migliaia vennero a rifugiarsi tra i monti scoscesi dell’ Appennino: gli uomini e le loro famiglie, in cerca di cibo, pace e libertà.

Vaath  li aspettava.

Manfredi ed i suoi quattro amici avevano riunito intorno a loro un piccolo drappello di fuggiaschi.

Esseri disperati e pronti a tutto: anche a vendere i proprio figli in cambio di cibo e di speranza.

Vaath diventò sempre più forte e potente. Manfredi, ormai, era l’unico a poter essere ammesso al suo cospetto. Amava il demone. Ne era un suddito fedele. Ogni volta che si avvicinava alla magica polla e attendeva che egli uscisse dalle profondità della terra per servirsi il suo pasto, una sorta di abbandono estatico si impadroniva di lui.

Poi, un giorno, Vaath gli aveva offerto il suo cibo: una vergine straniera dagli occhi chiari e dai lunghi capelli biondi. L’aveva sgozzata con una lama affilata e ne aveva bevuto il sangue caldo che usciva a fiotti dall’arteria recisa. Per un attimo,sul viso deforme dell’orribile entità sembrò apparire un macabro ghigno di soddisfazione. – Orai sarai immortale. – Gli disse nella sua antica lingua oscura. – Ma ricorda, se vorrai sopravvivere alla morte,  tu non dovrai tradirmi. Mai.-

Manfredi allontanò da sé la sua vittima lasciandola cadere sul fitto manto erboso, senza far caso al corpo scosso dagli ultimi rantoli dell’agonia. Rivolse la lama contro di sé e si tagliò le vene del polso sinistro. Poi tese il braccio verso i demone che bevve il suo sangue.

Quando Vaath si allontanò, strisciando sul suo corpo di serpente, il templare si tamponò la ferita con dell’erba fresca.

- Tu mi appartieni!- Gli gridò il demone prima di inabissarsi nelle profondità della Terra.

Li  presero quella notte stessa. Da tempo, ormai, i servi di Alessandro III seguivano le loro tracce. Gli uomini della banda che avevano costituito li difesero fino all’ultimo respiro. Morirono tutti. Ma Manfredi e i suoi compagni templari furono catturati.

Vivi.

Una spia aveva messo sulla loro scia gli sgherri del papa e aveva indicato ai soldati quali fossero i capi della setta.

Furono portati nella fortezza più vicina, rinchiusi nelle segrete del carcere e torturati. Manfredi non confessò mai i suoi crimini, ma gli altri cedettero tutti ai tormenti  ed indicarono in lui il capo, sperando di salvarsi.

La sentenza giunse rapida e precisa come una freccia scagliata da un arciere provetto. Sarebbero morti. Uccisi dal fuoco.

I quattro templari si confessarono e fecero ammenda. Fu questo l’unico motivo per cui il boia li strangolò prima che il fuoco potesse lambire le loro carni.

Per Manfredi, non fu così. La sua sorte fu diversa.  Lui non aveva confessato, non si era pentito, non aveva implorato misericordia. Aveva resistito alle torture più atroci con una forza che solo il demonio poteva dare. Gli inquisitori decisero che era lui e lui solo il vero servitore del Nemico. Per questo meritava una morte lenta e atroce. Una morte tra le fiamme.

Aveva sfilato altero ed impettito sulla carriola dei condannati a morte, tra ali di folla festosa e plaudente, incurante delle lacrime di terrore dei quattro templari che, una volta, erano stati suoi amici. Lui non aveva paura. Vaath lo avrebbe protetto. Così, mentre il boia lo incatenava al palo issato sulla pira funebre, non aveva tremato né abbassato lo sguardo.

 - Morirete tutti!- gridò con voce potente alla folla festante ammassata sotto i roghi. – E anche voi, morirete, preti dalla pancia grassa!- imprecò rivolto al palco dove le autorità ecclesiastiche e quelle  cittadine sedevano per assistere all’esecuzione. I vescovi non riuscirono a trattenere un sorriso. La folla ululò divertita, in preda ad un’ebbrezza che solo la vista di un massacro sa dare. 

Il boia appiccò il fuoco. In un attimo le fiamme si diffusero lungo la paglia e si alzarono in alto, avvolgendolo. Ma Manfredi non ebbe paura. Nemmeno allora. Sapeva che Vaath non lo avrebbe abbandonato. Non si  disperò nemmeno quando le fiamme gli attaccarono i vestiti e glieli distrussero, iniziando poi a rodergli le carni.

– Morirete tutti! Morirete tutti!- gridò, prima di svenire soffocato dal fumo e straziato dal dolore del fuoco che gli divorava le membra.

La folla rideva festante. Le minacce del templare morente sul rogo erano la cosa più comica che, in quel momento, potessero mai udire. Quelli che stavano dietro cercavano disperatamente di avvicinarsi al luogo dove si ergevano le pire in fiamme. Anche loro volevano vedere lo spettacolo. Anche loro avevano il diritto di divertirsi.  In preda ad un incontrollabile delirio, la massa urlante andava accalcandosi  sempre più vicina al luogo dell’esecuzione.

Troppo vicina.

E si era improvvisamente alzato il vento. Un venticello lieve ma insistente, che faceva volare lontano le braci dei roghi. Una donna, che si era avvicinata troppo, iniziò ad urlare con gli occhi sbarrati dal terrore. Un lembo del vestito aveva preso fuoco. Per lei non ci fu scampo. Nel giro di pochi secondi cadde a terra, mentre il vento leggero propagava le  fiamme tra la calca assiepata, senza via di fuga.

Morirono tutti.

Anche i preti grassi e le autorità, seduti nella tribuna d’onore. In prima fila,  a godersi lo spettacolo. Le fiamme, portate dal vento e dalla folla in fuga,  distrussero l’impalcatura in un attimo:  i prelati caddero giù, tra le braci ardenti, e i loro corpi furono divorati dal fuoco  affamato. Solo chi era in fondo alla piazza del patibolo, al limitare delle case e dei palazzi, ebbe qualche possibilità di salvezza.

Ci vollero molti giorni per sgombrare quel luogo dai cadaveri carbonizzati. Ci vollero mesi, o meglio: ci vollero anni, perché l’odore della carne bruciata lo abbandonasse. Forse il tanfo acre di tutte quelle morti disperate non se ne andò mai e permeò di sé ogni singola pietra della piazza.

E anche il terrore vi rimase in eterno, penetrando nelle fessure e negli angoli più riposti di quella vasta rotonda.

Perché i rari superstiti raccontarono che, quando le fiamme si spensero, videro una sottile spirale di fumo levarsi dalle ceneri della pira centrale. Aleggiò a circa mezzo metro di altezza da ciò che rimaneva del povero corpo del templare, poi iniziò a roteare su se stessa, divenendo ad ogni giro sempre più solida. Quindi si allungò e si modificò, assumendo la forma di un corpo dalla coda di serpente e dalle appendici simili a  pinne di pesce munite di artigli.

Era una forma enorme e mostruosa: fatta di materia e non di carne. Era la forma di un demone dalla crudeltà inaudita. L’entità immonda rivolse i suoi mostruosi moncherini  verso il cielo ed ululò la sua bestemmia satanica. Poi, soffiò sulle ceneri. A lungo. Lentamente. La cinigia si mosse come accarezzata dal vento.

Quelli che ancora erano rimasti, atterriti, in fondo alla piazza, scorsero un uomo (ma lo era ancora?) levarsi in piedi sulle proprie ceneri. Aveva gli occhi rossi e ardenti come la brace.

Si guardò intorno. Vide il demone e si inginocchiò. Si muoveva a scatti, come azionato da un congegno a molla.

Scese dalla pira, lentamente, con il suo strano passo da automa. Attraversò la piazza passando sui cadaveri fumanti. Quando fu sul limitare dello slargo, si guardò all’intorno.

I superstiti ed i soccorritori fuggirono in preda all’orrore più profondo.

-          Morirete tutti!- gridò con una strana voce metallica.

Sulla pira, Vaath levò le sue sconce appendici al cielo e rise. Sguaiatamente. In preda ad una gioia irrefrenabile.

                                Maria Cristina

2 Commenti a “Morirete tutti”

  1. andrea dice:

    Ciao Maria Cristina,
    pieno stile gotico “classico”, come tuo solito. Un racconto godibilissimo, una lettua piacevole. Forse tra i tuoi questo e’ quello che ricorda di piu’ le creature innominabili di Lovecraft…

  2. chris84 dice:

    Bello, ho particolarmente apprezzato l’ambientazione medievale del tuo racconto! Nonostante tratti un tema piuttosto ricorrente nel filone “horror”, lo fai con maestria e senza risultare stucchevole, pomposa o noiosa…

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