La città dei demoni
Pubblicato da mariacristina il 2 marzo 2008
LA CITTA’ DEI DEMONI
Oggi è una giornata triste. La più triste della mia vita. Lascio la mia città e la mia casa.
Il groppo che mi stringe la gola sta diventando, ad ogni istante, sempre più stretto e soffocante. E’ la paura che fa questi scherzi. Ho orrore del posto in cui vivo.
Nonostante tutto, mi dispiace partire, perché è una bella la città, la mia. Di una bellezza triste e melanconica: camaleontica, che muta con il variare degli eventi atmosferici e ad essi si adatta. E’ un’antica fortezza di pietra e roccia, arroccata nel cuore profondo dell’Appennino, che se ne sta appollaiata su due alti colli, orgogliosa e solitaria come il rapace che la rappresenta. Splendida e luminosa, vitale e sorridente quando il sole brilla, diventa intrigante e misteriosa nelle brume dei giorni grigi e senza luce. Quando la nebbia cade silenziosa, si trasforma in un luogo d’altri tempi, e non solo perché le sue origini si perdono nelle notti della storia. La foschia l’avvolge in un manto magico e solenne e, se cammini sull’acciottolato sconnesso del centro vecchio, perdi di vista ogni segno del tempo e dello spazio. Nel mare lattiginoso che la nebbia ti crea intorno, le luci dei lampioni sembrano improvvisamente smisuratamente lontane e le insegne dei negozi appaiono e scompaiono come torce che ondeggiano appese ad anelli infissi nella parete dei secoli. Ogni rumore ti giunge attenuato, soffocato dal manto ovattato che copre tutte le cose, e gli esseri umani che incontri lungo la strada sono bianchi spettri silenziosi, che scivolano leggeri come candide vele sull’acciottolato sconnesso della vita. Ma sono veramente esseri umani, o demoni evocati dal profondo delle tenebre?
C’è qualcosa di maledettamente strano e di perverso nel modo in cui scorrono al tuo fianco e si voltano a guardanti con gli occhi di brace che fendono la nebbia. Le strade mi fanno paura, ma le case non sono più sicure dei vicoli lattiginosi, e nemmeno le chiese offrono protezione dal Maligno.
Ieri, ho cercato rifugio in una cappella.
Al mio ingresso, sono stata assalita dal vago profumo d’incenso diffuso nell’aria umida ed ho visto vapori levarsi dall’aspersorio e salire in alto, fluttuando verso le volte cineree della piccola chiesa, leggeri e silenziosi, incedendo maestosi tra le colonne d’alabastro, avvolgendole in un lungo abbraccio tacito e nebbioso, mesto e solenne, passo e dolciastro come l’odore della morte.
Poi si sono insinuati tra le fessure del tempio, penetrando tra gli spigoli rotti dei marmi delle pareti.
Sono stati assorbiti dalle crepe dei muri, assimilati dalle travi porose che reggevano il soffitto e infine li ho guardati sparire, dileguarsi in un attimo, lasciandosi dietro l’acre sentore della decomposizione.
In piedi, con il viso all’altare, un sacerdote rivolgeva al suo Dio una febbrile ed ansiosa preghiera. Gli raccomandava l’anima di una giovane che giaceva, esangue e senza vita, nella bara scoperchiata ai piedi dell’altare. Nei primi banchi c’erano poche persone, tutte vestite di nero e velate. Era così buio che a stento ho potuto intravederne le sagome. Apparivano serie, composte, nessuna di loro piangeva o singhiozzava. Guardavano innanzi, verso il celebrante che si era improvvisamente voltato. Teneva le braccia spalancate ed il viso era rivolto al corpo adagiato nella cassa. Ha levato l’aspersorio che ha iniziato ad ondeggiare, a mo’ di pendolo, spargendo incenso sulla povera salma senza vita. Dalla sua bocca è uscito un suono sordo ed oscuro, incomprensibile. Ho creduto che fosse latino. Stava recitando le litanie dei morti.
Quelli vestiti a lutto, in piedi, nei primi banchi, hanno risposto nella stessa lingua tenebrosa.
“Non è latino” ho pensato ed ho sentito i lunghi artigli della paura percorrermi la schiena scossa da brividi.
“Chi sono e che cosa fanno?” mi sono chiesta. Ma, in quel momento, non ho saputo darmi una risposta.
Ho desiderato fuggire, aprire la vecchia porta di legno che portava fuori, nei vicoli lattiginosi del centro storico, ma ero impietrita dall’orrore e dalla paura. Le mie gambe non rispondevano più ai comandi. E’ stato proprio in quel momento, che dagli scranni posti a ridosso dell’abside, lungo le canne del grande organo scavato nella pietra, si è levato un canto d’inaudita bellezza.
Chi stava cantando? Nel vecchio coro di legno intarsiato non sedeva nessuno. Eppure,
ho udito voci cristalline modulare una nota lunga e delicata, di una consistenza così fragile ed eterea da rimanere imbrigliata nelle trame dell’odore pungente che avvolgeva la cappella. Erano voci limpide e sonore, squillanti come le campane che annunciano il mattino ma, in quella mistica perfezione canora, ho percepito un cenno roco e inspiegabile, dolente e putrido insieme, corrotto e splendido come l’incenso.
Ho subito compreso che quel salmo dolce e solenne, che trasudava una mestizia flebile e malinconica, non è mai salito fino a Dio, ma è rimasto avvinghiato con le sue spire alle colonne d’alabastro, ha impregnato di sé ogni cosa ed è stato risucchiato dalle viscere della terra.
E stato allora che l’ho visto.
La bara di legno che conteneva le spoglie mortali giaceva scoperchiata, tra l’altare e la prima fila di banchi. Mentre tentavo disperatamente di non perdere conoscenza, intontita dal profumo dolciastro dell’incenso ed irretita dalle litanie martellanti, l’ho visto.
Uno sbuffo tremolante di fumo ha cominciato ad uscire dalla parte superiore della bara dove, probabilmente, avrebbe dovuto trovarsi la bocca, ed è rimasto ad aleggiare su di essa per un lungo momento. Ha iniziato ad ondeggiare ritmicamente e, ruotando su se stesso, ha assunto la forma di spirale. Ad ogni giro la sua densità aumentava e la spirale è diventata quasi solida. Fumo solido ma trasparente, se possibile. Un ectoplasma. Poi ha iniziato ad allungarsi e a modificarsi, assumendo la sagoma di un corpo. Potevo distinguere un tronco, una testa, due appendici per le braccia e due appendici per le gambe. .. Mio Dio!
Era una sagoma enorme e mostruosa. Deforme. Fatta di materia e non di carne. Eppure, in quei tratti di fumo distorti, ho riconosciuto una creatura dalla crudeltà inaudita. Impietrita dall’orrore, avrei voluto gridare: – Chi sei? – Ma le corde vocali erano paralizzate.
L’essere immondo ha rivolto le appendici blasfeme verso l’altare e ha ululato la sua bestemmia satanica. Poi, l’ho visto guardare verso di me, trasparente ed immateriale, ma vivo. L’ho visto ghignare, l’ho visto volgere le spalle alla bara ed abbracciare la pietra che reggeva il grande organo. L’ho visto immergersi lentamente nel marmo e sparire, come fumo assorbito dai pori della roccia.
Mio Dio, chi era? Che cosa era?
Sono tornata in me. Quella visione spettrale mi ha scosso così profondamente da riportarmi all’istante alla realtà. Mi sono guardata intorno, ma il prete ed i suoi accoliti, impassibili, hanno continuato a cantilenare le loro martellanti litanie.
Sono riuscita a fuggire. Nessuno mi ha vista, tranne Lui.
Ormai non ho più dubbi. Il Maligno è qui tra noi. Il Maligno con le corna, la coda e gli zoccoli, la lunga barba caprina, gli occhi sanguigni e scintillanti come brace, la bocca digrignata sui denti aguzzi ed affilati , aperta in un sorriso osceno e repellente. Il Maligno dalle dita lunghe e flessuose, il Maligno dalle dita rapaci e repellenti, il Maligno dalle dita arrotate, il Maligno dall’ unghia tagliente, il Maligno che esala un fetore nauseabondo, puzzolente come lo sterco, pungente come il liquame, putrido come il disfacimento, è qui. Si aggira tra le colonne di alabastro della cappella, penetra negli armadi della sacrestia, dà voce alle canne dell’organo, alita sulle fiammelle delle candele, si insinua nel coro, apre i portali pesanti ed intarsiati e girovaga per le vie nebbiose della città vecchia. Poi, varca la soglia delle case, si incunea tra i tavoli e le panche, stende la sua ala oscura sui paioli della cucina, sul fuoco del camino, sulle mensole pendenti dai muri, sulle travi di legno del soffitto. Diventa gelido e sottile, si infila nelle fessure, tra gli stipiti delle porte, nei pertugi dei chiavistelli e sale, su, per le scale fino a raggiungere soffitte ed abbaini. Malvagio e solitario arriva nelle nostre dimore e vi porta scompiglio, disperazione e morte.
Qualcuno lo ha evocato nella piccola cappella di marmo profumata d’incenso.
E’ questa l’atmosfera che, negli ultimi giorni di ottobre, si respira tra i vicoli nebbiosi e le case senza tempo della città vecchia.
Sta succedendo qualcosa d terribile. E’ per questo che voglio partire. Ho chiesto a mia madre e ad i miei fratelli di venire con me. Ma non vogliono. Dicono che hanno stretto un patto di sangue con i daimones, gli antichi demoni che vivono nel cuore dell’Appennino.
Ma perché mai i daimones avrebbero dovuto scendere a patti con gli umani se non per ingannarli, tormentarli, torturarli, dannarli? I daimones sono demoni. Sono servi del Maligno, come lo sono gli uomini che lo hanno evocato. Essi sono il Male, in ogni sua forma e manifestazione.
Hanno preso la mia città di pietra e scivolano silenziosi tra i vicoli di nebbia. E’ un luogo infestato.
Una città di demoni e di morti.
Scendo di corsa le scale e raggiungo il garage. La mia piccola macchina è ancora dove l’ho lasciata due giorni fa, prima di entrare nella cappella. Salgo e metto in moto. Il cancello automatico si spalanca al tocco del mio telecomando. Sono nella strada immersa nella nebbia. Accendo i fari, ma non diradano le ombre.
Non importa, devo andare, costi quello che costi. Vedo già, nello specchietto retrovisore, un enorme ectoplasma luminescente che si avvicina.
Il Maligno sta venendo a prendermi.
Mi lancio, alla cieca, tra gli antichi vicoli persi tra le brume.
macrina
3 marzo 2008 alle 10:35 am
Ho apprezzato moltissimo il modo in cui hai descritto l’atmosfera della città vecchia, non male anche il finale che lascia qualche dubbio al lettore. Ce la farà a scappare? ^_^
Ciao, Fabio.