viaggi
Pubblicato da markingegno il 22 luglio 2009
VIAGGI
Mi capita di tornare spesso, con la memoria, ad un episodio della mia infanzia che, per il lasso di tempo trascorso, dovrebbe essere, ormai, definitivamente seppellito nel limbo o nel limo dell’inconscio. Ed invece, spesso, torna prepotentemente alla ribalta della coscienza, in maniera assolutamente imprevedibile e chissà per quali arcani collegamenti, ed ogni volta si accompagna, invariabilmente, ad un vago ed indefinito senso di colpa o di rimorso. E’ un viaggio a ritroso nel tempo, un tuffo nel mio passato remoto, come se qualcosa di quell’evento fosse rimasto in sospeso, come se un nodo irrisolto aspettasse ancora il suo naturale compimento. Talvolta mi chiedo se tutto sia veramente successo, o non sia, piuttosto, frutto di immaginazione o distorsione dei ricordi, purtroppo la risposta è affermativa, me l’ha confermato pure mio fratello che partecipò anche lui a quel fatto increscioso.
Il “fattaccio” è successo una quarantina d’anni fa, d’estate, poco prima che ci trasferissimo in città perché io potessi proseguire gli studi. All’epoca abitavo ancora, con la mia famiglia, in un piccolo paese di montagna dell’entroterra siciliano, a vocazione agricola, come si direbbe con un eufemismo, in pratica condannato alla disoccupazione ed alla povertà nonché decimato dall’emigrazione della forza lavoro: era rimasto, sostanzialmente, un paese di donne, vecchi e bambini. Noi bambini e ragazzi giocavamo, più che altro con una buona dose di fantasia, con pochi giochi rudimentali ed artigianali, interamente fatti a mano, niente di assolutamente paragonabile ai moderni giochi tecnologici:
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interminabili partite a pallone su spiazzi di terreno pianeggianti, come l’aia dopo il periodo della mietitura e della battitura del grano, o in slarghi urbani eletti a stadio, come Piazza S. Antonino;
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la fionda fatta con una forcella di legno, in cui era fondamentale la scelta del ramo da cui ottenerla: doveva trattarsi di un ramo con una biforcazione perfettamente simmetrica, altrimenti il colpo partiva sghembo; l’elastico era ottenuto dalla camera d’aria di vecchi pneumatici, bruciando i quali si otteneva, anche, un cerchio metallico, fatto di fili intrecciati, che veniva fatto ruotare con un bastone alla cui estremità veniva inserito un occhiello di fil di ferro entro cui alloggiare il cerchio metallico; un pezzo di cuoio da vecchi scarponi abbandonati costituiva la striscia che accoglieva il proiettile da lanciare, cioè un sassolino di pietra che doveva avere una forma sferica quanto più possibile;
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l’arco fatto con un ramo verde flessibile e pieghevole, tirato alle estremità da un pezzo di spago o di corda, mentre le frecce erano ottenute da stecche di vecchi ombrelli;
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rudimentali mezzi di locomozione “tricicli”, ottenuti con due assi di tavole di legno, uno orizzontale, che poggiava su un bastone che aveva alle estremità due cuscinetti a sfera, ed uno verticale e mobile, articolato col primo, che all’estremità portava anch’esso un cuscinetto a sfera e serviva da timone e volante.
Sebbene in seguito si sarebbe rivelato un falso storico, all’epoca noi vivevamo nel mito del “Far West”, dove indiani e soldati, banditi e sceriffi incarnavano l’eterna dialettica del bene e del male; i personaggi dei fumetti di cui ci nutrivamo erano Tex Willer, Il Piccolo Ranger, Un Ragazzo nel Far West, Blek Macigno, Capitan Miki, Kinowa etc.
Oppure, organizzati in bande, andavamo in giro per le campagne a “razziare” nidi di uccello, qualche volta qualche gallina allontanatasi un po’ troppo dal pollaio, o a mangiare a sbafo i frutti degli orti e dei campi che già allora cominciavano ad essere incolti a causa delle grandi migrazioni del dopoguerra.
Spesso veniva con noi un cane randagio, di razza bastarda, senza proprietario e senza nome, assolutamente anonimo come taglia e colore del mantello, dal pelo maculato e variegato. Essendo nato da cani addomesticati, purtroppo aveva familiarità con gli esseri umani; doveva avere nel suo patrimonio genetico l’istinto di appartenere a un padrone umano o la fiducia di ritenere che gli uomini fossero i suoi migliori amici: andava con tutti, tutti lo conoscevano in paese, qualcuno gli dava un tozzo di pane o gli buttava un osso, qualcuno lo prendeva a calci o lo scacciava in malo modo senza motivo alcuno; per noi ragazzi era un adorabile compagno di giochi: lo sfidavamo nella corsa, ci divertivamo ad accarezzarlo, a tentare di ammaestrarlo, facendolo sollevare in piedi su due zampe o a dare la mano in segno di saluto, o a fargli riportare degli oggetti che lanciavamo il più lontano possibile; una volta lo vestimmo con una maglioncino di lana, un’altra volta cercammo di fargli trainare un piccolo carretto come se fosse un cane da slitta.
Un giorno la banda (eravamo una decina di ragazzi, più o meno coetanei) stava ritornando da una “spedizione” in un podere dalle parti del vecchio convento abbandonato, dove avevamo mangiato in abbondanza gelsi neri; il momento migliore per assaggiarli in tutta la loro saporita freschezza è la mattina presto, prima che il sole diventi caldo, ma ovviamente nessuno di noi era disponibile ad alzarsi così presto la mattina durante le vacanze estive, per cui andava bene anche il tardo pomeriggio. Stavamo ritornando in fila indiana lungo il sentiero in salita di terra battuta e davanti a noi c’era a fare da esploratore il cane.
Come in ogni gruppo sociale, anche nel nostro c’era un tipo, più aggressivo e violento, che voleva spadroneggiare ed assumeva comportamenti che oggi si definirebbero di “bullismo”. Anche fisicamente era un po’ più sviluppato della media, ed anche la sua relativa imponenza fisica lo spingeva ad infastidire gli altri bambini, suoi coetanei o più piccoli, con piccoli gesti di quotidiana prepotenza e sopraffazione e a volere primeggiare.
Ad un certo punto, Costui, che indicherò come LP, spinto da non so quale istinto di malvagità, raccolse da terra una grossa pietra e ci fece segnale di fermarci. Anche il cane, che camminava davanti a noi, si fermò, non sentendo più il rumore dei passi e si girò indietro con uno sguardo interrogativo ed un attimo dopo fu colpito dal grosso masso, scagliato con violenza e da brevissima distanza da LP, e si accasciò tramortito al suolo emettendo un debole guaito. LP come un esagitato alzo le braccia al cielo in segno di vittoria urlando come un ossesso:
“Presto, uccidiamolo! Non è di nessuno, non vale niente! E’ un debole, un servo, non merita di vivere!”
e, così dicendo, continuava a colpirlo con una gragnola di altre pietre e ci incitava a partecipare al massacro.
Noi lo guardavamo con stupore, increduli di quanto stava succedendo, confusi ed incerti sul da farsi. Nessuno di noi ebbe il coraggio o la forza d’animo di fermarlo o di provare a farlo smettere, sebbene la maggioranza vivesse con sgomento ed orrore quello spettacolo. Ognuno di noi in quel momento avrebbe voluto essere lontano mille miglia e cercava, perlomeno, di segnare un minimo distacco formale, guardando da un’altra parte, come se la sua attenzione fosse attratta da qualcos’altro, o indietreggiando di poco. Ma dopo un certo tempo, qualcuno, spinto da un malinteso spirito di gruppo, nonché dalle incitazioni e dalle urla di LP, combattuto tra il desiderio di compiacimento e la paura delle conseguenze del rifiuto, davanti a quella esplosione di violenza che si temeva potesse indirizzarsi anche verso i presenti, cominciò a lanciare qualche sasso sul povero cane randagio, che ad un certo punto fu completamente seppellito sotto un cumulo di pietre. LP sempre più esagitato, rivolgendosi a quelli
che stavano in disparte li incitava, quasi a diluire la nefandezza della sua azione ed a trovare supporto morale chiamando a correità gli altri:
“dai, non vi tirate indietro, scagliate anche voi le pietre, seppelliamolo, dobbiamo essere un gruppo unito!”
Alla fine, probabilmente, ognuno di noi scagliò almeno una pietra, anche se piccola piccola, anche se con mano tremante, anche cercando di proposito, o sperando, di sbagliare bersaglio.
Ripensando all’accaduto, ancora oggi non non riesco a decifrare bene il comportamento di LP: doveva esservi, indubbiamente, una componente di malvagità innata, di violenza interiore da soddisfare, quella stessa che trasforma una persona, apparentemente normale, in un serial killer. Ma la molla principale, penso, fosse quella di affermare la sua leadership con una azione eclatante, forte, che mostrasse scempio dei valori etici e lo ponesse su di un piedistallo di ferocia, al di sopra delle sdolcinatezze e dei sentimentalismi da catechismo o da femminucce, ed incutesse terrore. Dal suo punto di vista volle essere, forse, un rito malvagio di iniziazione all’età adulta o un rito di consacrazione a capo del branco.
Quella sera, nel mio misero lettino, piansi a lungo di disperazione, per la malvagità gratuita cui avevo assistito, ma piansi anche per la viltà di cui avevamo dato prova, pur essendo quasi tutti in totale disaccordo con quell’esplosione di violenza, e per la vigliaccheria di cui anche io mi ero macchiato. Entrambe le considerazioni mi gettavano in uno stato di profonda costernazione ed inquietudine perché mi spalancavano scenari inquietanti sul futuro, sulla natura delle persone, sull’essenza dei rapporti sociali.
Razionalizzando oggi, sulla scorta della cultura e dell’esperienza di cui adesso sono in possesso, mi rendo conto di avere vissuto, all’epoca, una esperienza tremenda. E’ come se avessi vissuto, quel giorno fatidico, un viaggio nell’iperspazio alla velocità della luce e fossi stato scagliato, con un’accelerazione vertiginosa, brutalmente, in faccia ad una realtà cruda e tremenda, anni-luce lontana dalle fiduciose aspettative di cui si era nutrita fino ad allora la mia infanzia, vissuta sui libri di storia, dove sembrava esserci un filo conduttore di sviluppo positivo, di progresso della civiltà, di trionfo del bene, sull’educazione religiosa, sulla protezione sociale di cui era stato circondato. Fu come essere risucchiato in un buco nero e scaraventato in un universo alieno, in una dimensione parallela dove poteva essere facilissimo straniarsi e perdersi nei labirinti della follia.
Credo di potere immaginare l’impatto emotivo che quell’episodio deve aver continuato a suscitare in me a distanza di tanti anni, perché attingeva a delle suggestioni emotive e psicanalitiche che fanno parte dell’inconscio collettivo, a delle tematiche forti, che allora io vissi in maniera assolutamente subliminale e che successivamente avrei ritrovato tante volte nella storia e nella cronaca:
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la lapidazione, antica e crudele pratica di esecuzione capitale, tragicamente attuata, purtroppo, ancora oggi, in tanta parte del mondo, che evoca risonanze bibliche collegate al concetto del peccato e della punizione(“chi è senza peccato scagli la prima pietra”).
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il falso mito dell’innocenza dell’infanzia, che risale al pensiero di Rousseau del selvaggio buono ed incontaminato, che poi verrebbe corrotto dalla civiltà. Quando invece la cronaca sembra mostrarci, con dovizia di riscontri, caso mai esattamente l’opposto, con eclatanti manifestazioni di crudeltà e di malvagità già in bambini molto piccoli. Cosa, del resto, ovvia e naturale, perché, se veramente l’uomo ha una doppia natura e contiene in sé una componente innata di violenza e di ferocia, queste, non ancora mitigate dagli effetti dell’educazione, dalla assimilazione o introiezione dei principi di convivenza sociale come valori etici e dal deterrente della pena, più facilmente possono manifestarsi in età precoci.
° lo spirito del branco, in cui emerge lo spirito gregario di sottomissione al leader ed il desiderio di identità e di appartenenza al gruppo, in cui le piccole “negatività” dei singoli, si potenziano e portano quasi sempre a tragiche conseguenze: dar fuoco ad un barbone, tirare sassi da un cavalcavia, lo stupro di gruppo etc. Nel gruppo finiscono per prevalere sempre gli elementi peggiori e trascinano al ribasso l’intera compagine sociale, grande o piccola che sia.
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la passività o vigliaccheria della “massa”, incapace di isolare la mela marcia al suo interno e di arginare la violenza degli elementi violenti o deviati che facilmente riescono a prendere il potere, proprio per la mancanza di valida opposizione. L’ipocrisia della cosiddetta “gente per bene” comporta, al più, di non sporcarsi le mani direttamente, di non commettere attivamente soprusi o violenze, il che non esclude un’adesione ideologica in nome dell’ordine e della disciplina; o la sublimazione dell’inerzia quasi fosse una scelta dolorosa per evitare le guerre civili. Tragica illusione cui seguirà una crudele delusione!
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Grazie all’indolenza ed all’inettitudine della massa amorfa, i più violenti, astuti ed ambiziosi con la loro determinazione facilmente riescono a prendere il sopravvento e fare il bello ed il cattivo tempo. Così nascono e si consolidano le ricorrenti forme di dittature della storia, con il loro tragico carico di sangue, di violenza, di dolore, di sopraffazione. Altro sangue dovrà poi essere versato per riconquistare la libertà perduta, perché l’abbattimento della dittatura non è mai un processo indolore ma quasi sempre richiede una rivolta armata.
Il Il passaggio da una fase all’altra dell’esistenza umana è segnato certamente da tanti episodi, non uno soltanto, ma ve ne sono, indubbiamente, di più significativi e critici che lasciano un’impronta maggiore sulla psiche e sono quelli che poi la psicanalisi cerca di riportare alla luce. Molti dei guasti e dei complessi che ci portiamo dietro e che condizionano pesantemente in negativo la nostra esistenza, risalgono, a quanto pare, ai primi anni di vita (il distacco originario dal grembo materno, la scoperta della sessualità etc), ma anche l’adolescenza è un periodo difficilissimo e critico in cui più drammatico e netto è lo stacco tra l’età che si lascia, l’isola felice della sostanziale non responsabilità dell’infanzia, e quella in cui ci si immette, la legge della giungla e la crudele lotta per la sopravvivenza dell’età cosiddetta “matura”. Dove andrebbe chiarito che “maturità” sostanzialmente consiste in un crudele carico di disincanto, disillusione, perdita dei sogni e degli idealismi, accettazione del compromesso e delle ipocrisie sociali etc.
Quel lontano episodio mi torna spesso alla mente, ma non oso pensare con quale costanza ed intensità possa avere operato come un tarlo, in maniera subdola e sotterranea, sulla mia psiche; chissà che in buona parte il mio pessimismo che si è andato elaborando sul piano storico filosofico e poetico non si possa ricondurre agli effetti devastanti di quel remoto ed apparentemente insignificante evento.
Tra di noi non si parlò mai più di quel fatto, come se tacitamente si fosse deciso di rimuoverlo sul piano collettivo ed ognuno cercasse di metabolizzarlo sul piano interiore privatamente, anche perché a settembre LP partì giovanissimo per andare a cercare fortuna in Toscana. Era come se ardesse dal desiderio di bruciare le tappe della vita, di essere sempre primo rispetto agli altri, ma forse lo animava soltanto un inconscio desiderio di autodistruzione.
Un giorno passeggiando per le stradine del paese in compagnia del mio più caro amico, Giacomo, vedemmo un cane che rovistava in un bidone della spazzatura. Era un cane macilento e scheletrico, tutto pelle ed ossa, che zoppicava vistosamente ed aveva una grossa escrescenza sulla testa; nell’insieme sembrava un fantasma di cane, un cane-zombi, un cane morto vivente. Avvicinandoci di più ebbi un sobbalzo, assomigliava maledettamente al cane sepolto vivo. Anche il cane si volto verso di noi aprendo la bocca in una smorfia dolorosa nel tentativo di digrignare i denti e mostrando i canini rotti, uno si vedeva addirittura penzolante nelle fauci aperte. Per un attimo i nostri sguardi si incrociarono: aveva gli occhi acquosi ed inespressivi ma a me parve di scorgervi una nota di malinconia e di tristezza come se mi chiedesse: “perché tanta crudeltà?”; ma mi parve, anche, di scorgervi una nota di muto rimprovero: “perché non sei intervenuto?” Per la vergogna abbassai lo sguardo e quando sollevai la testa il cane era scomparso. Ci guardammo con aria interrogativa io ed il mio amico Giacomo: lo avevamo visto veramente? O era frutto dei nostri sensi di colpa? Se era vero, come era possibile che fosse sopravvissuto?
Se così fosse stato, allora, non era morto a seguito del primo violento colpo, era rimasto semplicemente tramortito ed era stato seppellito vivo! Ma come poteva aver fatto a liberarsi dal cumulo di sassi sotto cui era stato sepolto? Tutte domande che rimasero senza risposta. Di certo, aveva perso la fiducia nel genere umano, era evidente, ed infatti si era messo sulla difensiva, digrignando i denti. Se era fuggito, lo aveva fatto sicuramente perché era debole, altrimenti sono sicuro che si sarebbe vendicato scagliandosi contro di noi per azzannarci.
Quel rigido inverno di neve, durante le vacanze di Natale eravamo ritornati in paese, un giorno, verso sera, si diffuse la notizia che un compaesano aveva perso la vita in Toscana a seguito di un incidente stradale. Nei piccoli paesi esiste ancora la coralità, ci si conosce tutti e con tutti ci sono rapporti di parentela o di amicizia o di vicinato, i fatti di ognuno riguardano l’intero tessuto sociale e le notizie, soprattutto se brutte, fanno rapidamente il giro del paese. Così si venne a sapere che il compaesano morto in Toscana era LP. Quella notte, sul mio lettino, non riuscivo a prendere sonno: provavo quasi un sentimento di soddisfazione per la notizia, che interpretavo quasi come la giusta punizione divina, ma poi provavo vergogna, perché era pur sempre un essere umano, per quanto abietto e malvagio potesse essere stato in vita, ed io ero ancora fresco di catechismo.
L’estate successiva stavo passeggiando col mio amico sul belvedere del paese dove i vecchietti si siedono, tuttora, sulle panchine per ammazzare il tempo. Attorno ad una di queste, c’era un piccolo assembramento di persone ed al centro un vecchio che dandosi delle arie da protagonista, teneva una concione mostrando agli altri un foglio di giornale. Era una pagina di cronaca interna del giornale “La Nazione” di Firenze, che il figlio aveva conservato dall’epoca dell’incidente ed aveva portato, quando era rientrato dalla Toscana per le ferie estive. Questi paesi ad alta emigrazione, d’estate sembrano rianimarsi, perché rientrano tutti i “fuorusciti” con la scusa di visitare i loro parenti e gli anziani genitori, in realtà per compiere un tuffo nelle loro origini e fare, perché no, delle vacanze a basso costo.
Conscio del suo momento di celebrità, come se dispensasse la verità, il vecchio arringava i passanti mostrando il giornale ed invitando a leggere l’articolo:
“prego, leggete il giornale, c’è scritto tutto per filo e per segno, me l’ha portato mio figlio”.
Nell’articolo si descriveva l’incidente occorso a LP con dovizia di particolari e con le testimonianze di altre persone che avevano assistito alla scena, in particolare un camionista che veniva dietro l’auto di LP ed un automobilista che aveva incrociato LP dalla corsia opposta in un breve tratto rettilineo in prossimità del luogo dell’incidente. Dall’articolo risultava che la dinamica dell’incidente era stata la seguente: al momento dell’incidente grandinava e l’asfalto era viscido; un cane era sbucato all’improvviso sulla strada, ma non attraversando la strada, perché in tal caso LP penso che non si sarebbe fatto scrupolo di metterlo sotto le ruote. No, il cane sembra che si fosse lanciato dal muretto sul ciglio della strada direttamente sul parabrezza della macchina di LP abbrancandosi con le zampe alle spazzole in movimento. LP ostacolato nella visuale aveva perso il controllo del mezzo invadendo la corsia opposta, poco prima dell’arrivo dell’auto del testimone oculare, era uscito di strada, precipitando nella scarpata ed andando ad arrestarsi in un tornante sottostante, dove in quel momento sopraggiungeva un autocarro carico di massi da costruzione di una vicina cava. A seguito dell’urto il camion si era ribaltato ed il carico di pietre aveva seppellito l’auto sfracellata di LP ed il cane.
L’articolo era accompagnato da una foto scattata dopo che i vigili del fuoco avevano rimosso i mezzi rovesciati ed il carico di massi: si intravedeva il corpo del povero LP e del cane che gli azzannava la mano destra. La foto era in bianco e nero, ma a me sembrò che quel cane assomigliasse al cane randagio sepolto vivo, l’estate prima, ad opera principalmente di LP. Il giornale concludeva che si era trattato di una assurda, tragica ed inspiegabile fatalità che aveva spezzato la giovane vita di un emigrante in cerca di fortuna. L’autista dell’autocarro carico di pietre era rimasto, invece, miracolosamente indenne.
Quella notte non riuscii a prendere sonno, tormentato da tanti dubbi ed interrogativi ed emozioni contrastanti: provavo quasi soddisfazione per il compimento della vendetta, perché tale mi sembrava essere, ma poi me ne dispiacevo. Non sapevo per chi parteggiare. Mi chiedevo come fosse possibile che il cane fosse sopravvissuto e che avesse architettato la sua vendetta in una maniera così scientifica e precisa: era come se fosse rimasto o ritornato in vita, nutrendosi di odio, unicamente per compiere la sua giusta vendetta. Aveva compiuto un’impresa eccezionale, sovrumana: in un anno aveva attraversato mezza Italia, compreso lo Stretto di Messina, era riuscito a localizzare il suo obiettivo, a pedinarlo, ad attendere il momento propizio per il compimento del suo diabolico piano. Quale intelligenza lo aveva guidato, quale forza di volontà?
E questi sarebbero quelli che noi spregiativamente consideriamo animali o bestie, biologicamente a noi inferiori, privi di intelligenza, di sentimenti, di volontà, di memoria?
Forse le cose non stanno esattamente così!
Da allora anche il mio atteggiamento nei confronti degli animali è profondamente cambiato, li rispetto molto di più. Anche quando entro in rotta di collisione o vengo a contatto con un animale anche fastidioso o disgustoso (geco, mosca, lucertola, ragno, scarafaggi etc) mi astengo dall’ucciderli, cerco solamente di accompagnarli fuori dal mio spazio vitale. Tratto i miei gatti quasi come persone. Non sarei più capace di mangiare le lumache o le cosce di rana, che pure mi piacevano tanto. Non sono ancora diventato vegetariano, perché purtroppo la carne ed il pesce mi piacciono e non so resistere e continuo a mangiarli, ma adesso lo faccio con un sentimento di rimorso, chiedendo loro scusa dentro di me, soprattutto a Natale ed a Pasqua quando si verifica la solita strage immorale di agnelli e capretti. Anche da un punto di vista letterario spesso sono “spinto”a scrivere con sensibilità di animali (ho già scritto due racconti su gatti, e già sento germogliare in me l’ispirazione per un prossimo racconto che avrà per protagonista una lupa “storica”).
Ecco, avere raccontato e rivissuto nei dettagli quest’episodio è stato come avere effettuato una seduta sul lettino dello psicanalista, forse averlo fatto affiorare alla luce della consapevolezza mi potrà aiuterà a superare definitivamente le tossine e le scorie psichiche ad esso legate. Era proprio questo, forse, il nodo irrisolto di questa vicenda che ancora mi tormentava; era proprio questo, forse, che mi si richiedeva, che io ne dessi testimonianza scritta, visto che ho l’ardire o la temerarietà di ritenermi un letterato, come gesto di mia personale riparazione. Forse questa è la mia penitenza per la parte di malvagità che ebbi in tutta questa triste storia.
24 luglio 2009 alle 8:29 am
Ciao Markingegno,
leggerti e’ sempre un piacere
Molto suggestivo questo tuo. Bella la violenza che scoppia improvvisa, e riuscitissimo l’incontro col cane zombi, nel cui sguardo il protagonista rivede i propri sensi di colpa.
Se posso permettermi un piccolissimo appunto, il tocco bizzarro nel finale con la strana morte di LP mi ha lasciato un po’ perplesso. Pare quasi voler aggiungere per forza un tocco di soprannaturale ad una storia che invece si reggeva benissimo in piedi anche senza.