Pezzi di vita

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La porta spalancata

Pubblicato da mimmi71 il 22 settembre 2007

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La porta spalancata 


 


 


Camminava solo, nella notte. Si teneva sulla sinistra, rasente il muro di pietre grigie: le mani nelle tasche dei pantaloni, la testa incassata nelle spalle, la schiena incurvata. Una sigaretta incandescente gli penzolava dalle labbra, unico bagliore nell’oscurità di quel cielo nero di novembre carico di nuvole, opprimente. Nessuna stella nel cielo, nessun lampione a rischiarare il cammino, nessuna casa nelle vicinanze; solo l’asfalto lucido di umidità, solo il suono del suo respiro, lento e regolare. Del bosco ai lati della strada se ne avvertiva appena la presenza: si sarebbe potuto immaginarne gli alberi dai rami spogli, contorti, come mani dai lunghi artigli che si sfiorano, inclinati verso il centro quasi a formare una galleria vegetale sopra la strada.


Ma non c’erano certezze, tutto aveva la consistenza del sogno.


Perché, volendo, ci si poteva sciogliere in quel nero, ci si poteva perdere, abbandonare, diventare parte del nero. Si poteva essere il nero della notte, si poteva essere il nero dell’ albero immaginato, il nero dell’ asfalto lucido; si poteva arrivare a credere di essere solo aria inalata dai polmoni del mondo e buttata fuori. Come respiro sognato, trattenuto e consumato. Si poteva essere tutto e allo stesso tempo niente.


L’uomo camminava solo nella notte. Sentiva il fiato caldo scendergli lungo il collo, sentiva l’asfalto morbido sotto le scarpe dalla suola di plastica, sentiva il battito del suo cuore nelle orecchie accelerare un po’ il ritmo quando la salita si faceva più ripida.


Non vedere, non pensare, solo ascoltare. Perdere la percezione dello spazio e del tempo, delle dimensioni, dell’essere. Farsi cullare dolcemente dal battito del proprio cuore, dall’oscillazione del proprio corpo, dal proprio respiro. Diventare tutto e allo stesso tempo niente.


E così sentiva, un passo dopo l’altro. Sentiva il suo corpo espandersi, arrivare alto sopra i rami degli alberi, scivolare tra i tronchi, come un fiume che tutto tocca lungo il suo corso. Sì, così si sentiva: come un fiume. Il fiume che è anche mare.  E lui era mare, un passo dopo l’altro. Mare che è acqua. E lui era acqua. Acqua pulsante, acqua che respira, acqua che può essere sia ghiaccio che vapore.


Acqua che può andare a farsi nuvola..


Quella notte di novembre il cielo era carico di nuvole, scure e dense. E lui era nuvola, ora, in quel preciso istante. Nuvola densa e pesante, carica di pioggia.


Un passo dopo l’altro, senza sapere dove andare e perché andarci, camminava, solo, nella notte. Le mani in tasca, la testa incassata, le spalle curve. Nemmeno più il bagliore incandescente della sigaretta ormai terminata e chissà dove lasciata cadere a terra.


Fosse passata un’automobile..


Il chiarore dei fanali lo avrebbe illuminato, lo avrebbe reso visibile per un attimo, pochi secondi, gli avrebbe dato di nuovo un contorno, una delimitazione:


“Questo sono io: le mie gambe, le mie braccia, la mia pelle.” 


Forse si sarebbe accorto delle dita intorpidite nelle tasche dei pantaloni, del leggero sudore che gli imperlava la fronte, dell’umidità che gli faceva luccicare i capelli. Forse avrebbe sentito il bisogno di accendersi un’altra sigaretta, di aspirarne il fumo acre e forte. Forse avrebbe sentito la mancanza della luce, una volta l’automobile l’avesse superato e ripreso la sua corsa.


Ma di automobili non ne passavano, né vicino a lui né in nessun altro punto di quella strana valle.  Altrimenti avrebbe percepito il rombo del motore, il suono avrebbe raggiunto le sue orecchie, lento, trascinato dall’aria. E quel suono lo avrebbe scosso, gli avrebbe ridato consistenza. Avrebbe pensato di nuovo. Si sarebbe ricordato del suo nome, dei suoi anni. Si sarebbe ricordato degli amici lasciati al bar a bere birra, tanti boccali di birra, infiniti boccali di birra tracannati, tanti da perderne il conto. Si sarebbe ricordato dei discorsi fatti, dapprima lucidi, poi via via più confusi e incoerenti. Gli sarebbero tornati alla mente i volti, i corpi, le espressioni come pezzi di un incubo solo vagamente inquietante, grottesco e surreale.  Si sarebbe forse messo in ansia:” Ma che ora si sarà fatta? Dunque, sono uscito verso.. Sono entrato alle nove, questo lo so! Quindi..”


E la stanchezza, la fatica che al suo corpo costava camminare, gli sarebbe piombata addosso di colpo, pesante e quasi insopportabile. Si sarebbe quindi affrettato, preso dal bisogno di dormire, dalla impellente necessità di dormire  nel suo letto, a casa sua. Casa sua…Casa sua, quindi sua madre: avrebbe per forza dovuto pensare a lei. Di sicuro lo stava aspettando alzata, lo faceva sempre. Per assicurarsi che fosse rientrato sano e salvo, il suo bambino. Un bambino di quarant’anni. Appena apriva la porta lo guardava, non diceva una parola, sospirava e basta. Un sospiro lungo e profondo, poi abbassava gli occhi, si alzava dalla sedia e con lentezza saliva le scale per andarsene a letto. E quello serviva a farlo sentire in colpa: quel silenzio, quel sospiro, quella lentezza. Alle volte delle lacrime le rigavano le guance..


Si sarebbe agitato, certo, avrebbe accelerato il ritmo: a casa, in fretta.


Ma la notte era nera, le nuvole si erano sciolte in una leggera pioggerella fitta fitta, fine fine. E lui era pioggia: pioggia che lava, che cola, che inzuppa e impregna la terra, pioggia che si lascia assorbire, pioggia che è nutrimento.


Camminava solo nella notte, l’uomo invisibile, senza fine.


L’uomo infinito, immenso, potente. Potente..


Sentiva anche questo. Una potenza immensa lo invadeva, percorreva il suo essere, lo faceva vibrare. Sentiva la potenza di tutto quel nero, del nero dell’asfalto, del nero del bosco, del nero delle nuvole e della pioggia, del nero che era nero perché invisibile, perché infinito. E ciò che è infinito, è eterno.


Camminava e non pensava, ascoltava la potenza del tutto. E lui sentiva di essere tutto, sentiva di essere infinito ed eterno, potente.


Un passo dopo l’altro.


Una curva stretta a gomito e la strada proseguiva, sempre più ripida, in alto, sulle montagne. Le piante si facevano più rade, il bosco meno folto. Ancora poche centinaia di metri e si sarebbero scorte le luci dei paesini sull’altro versante di quella strana valle, la sua valle. La valle in cui era nato, la valle in cui era cresciuto, la valle dalla quale non se n’era mai andato. Il suo sguardo ci si sarebbe posato su quelle luci, l’incantesimo di quella camminata notturna si sarebbe bruscamente interrotto, la magia dissolta, svanita. Sarebbe rientrato nel suo involucro, all’interno del suo guscio. Sarebbe tornato ad essere un piccolo uomo, solo un piccolo uomo che per un attimo si era sentito immenso. Il suo cervello avrebbe ripreso a funzionare, le cose che si sarebbe detto tra se..


“Devo bere di meno.Ma tutti bevono.. E io faccio parte di quelli che al bar bevono. Certo rido, rido spesso. Mi diverto? Sono uno che si diverte.. Sono di compagnia. Sono simpatico. Non ho figli. Non sono un padre e nemmeno un marito. Vado a letto con chi mi capita, tutto va bene. Fumo, fumo troppo. Sono un fumatore. Mi faccio anche qualche spinello, alle volte. Piantavo marijuana.. Poi ho smesso, tanti soldi che non mi servivano a niente. Mi piacciono i fumetti. Leggo solo fumetti. Alle volte piango. Alle volte canto mentre guido la macchina. Questo sono io. Mio padre è morto che ero bambino.. Non me lo ricordo. Non so se mi dispiace non averlo avuto mai accanto. A scuola andavo male, forse, dicevano, perché mi mancava un padre..” 


Avrebbe pensato, di nuovo. Avrebbe ripreso ad appartenere.


Appartenere a quelli che fumano. A quelli che se son senza sigarette arrivano a svuotare i portacenere nella speranza di trovarne una con ancora qualche tiro da fare. Per quello i loro portacenere sono stracolmi, vengono svuotati di rado.


Appartenere a quelli senza un padre.. Senza un padre e con una madre opprimente.


“Io questo sono.”


Timido? Sincero? Buono? Fesso? Solo? Magari alcolista..


Scorbutico? Alle volte.


Meccanico di mestiere. Un bravo meccanico. Ma ora aveva preso a lavorare nella sua strana valle, a tagliare legna, roba così. Era uno di quelli che alle volte rischiava!


D’altronde era stufo del lavoro regolare, degli orari da rispettare, stufo.


Era uno un po’ fuori dagli schemi, faceva parte di quelli che sono un po’ fuori dagli schemi; in fondo catalogabili anche loro.


Non dava importanza all’abbigliamento:


“Una persona è altro, mica i suoi vestiti!”


Era una frase che si ripeteva spesso. Ciò non gli impediva di indossare spesso e volentieri un cappello nero, di quelli tipo monello di strada. Si piaceva con quel cappello, si sentiva quasi bello. E bello proprio non era!


Quando prendeva la moto si metteva una giacca di pelle nera, morbida, bella, con una striscia rosso scuro orizzontale. Anche in quei momenti si piaceva. E gli piaceva guidare forte la moto sulle strade contorte della sua valle, avvertire la potenza del motore, tirare nei rari rettilinei asfaltati di fresco. Per un attimo gli pareva di volare!


E, appunto, gli pareva di assomigliare a certi attori visti nei film, tenebrosi e cattivi al punto giusto, magari non belli ma sicuramente affascinanti. Gli pareva..


Poi parcheggiava la moto davanti all’entrata del bar, scendeva con calma, levava il casco e lo appoggiava al manubrio. Dalla tasca interna tirava fuori una sigaretta e se l’accendeva tenendola a mezza bocca, si passava una mano tra i capelli e si voltava. Immancabilmente vedeva la sua immagine riflessa nella porta a vetri del bar e tutto il suo sentirsi “tenebroso e affascinante” andava a quel paese.


Questo era lui. Questo e tanto altro.


Per trasportare la legna guidava un trattorino munito di carrello di un rosso-arancio osceno, imbarazzante. Ci stava incupito seduto al posto di guida, come svogliato, imbronciato. Invece tagliare legna, accatastarla, trasportarla, sudare e fare fatica gli piaceva un mondo. Come gli piaceva un mondo l’odore della legna da annusare, da assaporare. Tornare a casa con la schiena rotta, stremato, sporco e appiccicoso, gli dava un’intima sensazione di soddisfazione. E soprattutto di pace. Una pace che a quarant’anni gli era quasi indispensabile, un equilibrio che gli era necessario.


Anche questo era lui.


Era lui che alle volte si commuoveva a dover sparare a un cervo.. Perché era un cacciatore, di quelli convinti. E gli piaceva la caccia, lo stato di tensione, la lotta. Ma alle volte gli risultava difficile premere il grilletto del fucile, ci stava male, doveva imporselo. E ci si commuoveva.


E anche questa sua sensibilità era una sfaccettatura del suo essere.


Questa come tante altre.


La rabbia che alle volte lo assaliva, una rabbia da spaccare tutto, da piangerci, da urlare. Una rabbia quasi incontrollabile. E poi c’era la frustrazione, il malessere, il disagio, il senso di colpa per cose senza importanza. La tristezza per una vita diversa, la malinconia degli anni passati, buttati magari via, sprecati. Le occasioni perse in attesa di un domani, di altre occasioni, di altre opportunità.


Alla fine cos’è poi un uomo? Alle volte se lo domandava.


Se lo chiedeva, si domandava se davvero si conoscesse, se davvero gli altri lo conoscessero..


“Quanto io sono come appaio? Con mia madre, con gli amici, per chi mi vede.. Io sono me stesso? Me stesso, me stesso: che vuol dire poi essere se stessi? Forse m’identifico col mondo esterno, con i miei simili, faccio mie cose che magari non mi appartengono. O forse sono un miscuglio, una specie di minestrone, di stati d’animo, di idee, di desideri, di sogni, di gioie, di angoli scuri, di sfaccettature mai colpite dalla luce e che ignoro io stesso. Ignoro o non voglio vedere, in fondo non fa differenza.”


Alla fine cos’è poi un uomo? Alle volte se lo domandava.


Questo sono io? Si, no, forse, in qualche modo. Se lo domandava e così si rispondeva.


Certo nella notte nera, sotto quella pioggerella fitta e lieve sentiva di essere molto di più, sentiva in un altro modo di appartenere a qualcosa di più grande, d’infinito, invisibile ed eterno. Lui era eterno perché parte del tutto, del tutto che è niente perché indefinibile, perché non delimitabile. In quel nero la sua pelle non c’era più a fare da scudo, da limite, da protezione. Non c’era più niente e quindi c’era tutto.


Camminava solo, nella notte, un passo dopo l’altro. E non si era mai sentito più “se stesso” che in quel breve lasso di tempo, mezz’ora al massimo, di camminata. Come una porta per lungo tempo rimasta socchiusa che improvvisamente viene spalancata. Quello era lui.


Certo, era chiaro ai suoi sensi: “Questo sono io.”


I passi da percorrere erano veramente pochi: sei, cinque, quattro.. La salita era al culmine, il suo paese in fondo al rettilineo pianeggiante. E le luci dei paesini sull’altro versante già occhieggiavano tra le fronde dei rari alberi.


 


 


 


 

4 Commenti a “La porta spalancata”

  1. fabio dice:

    Non è sempre scontato riuscire ad aprire quella porta, per il protagonista camminare solo nella notte è stato come trovare la chiave! Brava Miriam, corro a leggere gli altri :).

  2. Andrea dice:

    Ciao Miriam. Il tuo racconto e’ bellissimo. Non e’ proprio facile scrivere un pezzo nel quale “non succede nulla”, ma tu ci sei riuscita :)
    Affascinante e molto ben scritto tutto il brano della “fusione” con la notte, dell’unita’ col tutto.
    Grazie per avercelo fatto leggere.

  3. mimmi71 dice:

    Non so come rispondere direttamente..pare che il mio pc non supporti qcosa..mah.. comunque lo faccio qui: grazie a tutti!!!

  4. poesia42 dice:

    Bellissimo racconto,l’uomo il suo essere nel silenzio, solo ,una mamma che l’attende
    uomo fragile piccolo ma a volte potente…IO sono.
    Un saluto poesia42

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