Pezzi di vita

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L’ospite numero “465″

Pubblicato da mimmi71 il 22 settembre 2007

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L’ospite numero “465”


 


 


Il portico della chiesa con le volte affrescate: una nave che affonda, un cielo affollato di angeli, un uomo sulla croce solo e disperato. Una morte paziente occhieggia da una porta socchiusa un uomo avvolto da un lenzuolo, le mani aggrappate convulsamente ai lembi bianchastri, gli occhi sbarrati. In un angolo una targhetta con un’apertura per le offerte; “alla povera chiesa di S. Maria di Loreto”, recita la scritta.


Il portone di legno scuro intarsiato è aperto, ne esce flebile un canto di coro, si fa un po’ più intenso avvicinandosi di qualche passo. Le panche di sasso ai lati del portone invogliano a sedersi, a mettersi in ascolto, a posare gli occhi con più attenzione sulle pitture un po’ scrostate. Invitano al pensiero, alla meditazione. In una giornata del genere soprattutto. Una giornata nella quale il mondo è uno splendore per gli occhi, per la pelle, per i polmoni.


Una giornata che si lascia annusare, respirare, ascoltare.


Il vento scuote le fronde dei grandi alberi che si ergono maestosi nel selciato davanti alla chiesa, il cielo è di un azzurro lucente. Lo spicchio di lago che s’intravede oltre il muraglione di pietra color sabbia è luminoso e puntellato di vele; tanti triangolini gialli, rossi, verdi, blu.


La vita, la meraviglia della vita, trapela da ogni cosa, persino dal suono dei passi delle persone che percorrono questo piccolo tratto, cinquanta metri, non di più. Cinquanta metri di stupore.


 


Tre donne, i loro passi, il loro vociare.. Due bambine corrono ridendo, le superano, vanno verso i grandi alberi, si nascondono tra i massicci tronchi aggrovigliati.


Una sedia a rotelle.


Sulla sedia una vecchia con gli occhi socchiusi, un fazzoletto tra le mani con avvolta all’interno una piuma di piccione. La cincischia, apre e chiude il fazzoletto, rimette a posto la piuma e ricomincia; se la passa sulla bocca, come a pulirsi, o forse per avvertirne il lieve tocco, non si capisce.


“.. dove ci mettiamo? Sotto quell’albero? Bambine, oh?! Basta!”


“ Ma si, vai lì. Metti la nonna di schiena, girala, se no ha il sole in faccia..”


La vecchia biascica qualcosa, paiono parole senza senso, forse prestando più attenzione..


Nessuna delle tre donne se ne accorge, nessuna riesce ad ascoltare.


D’altronde la voce è fioca, le parole escono lente, troppo lente, impastante, gli occhi le si richiudono subito.


Due si sono accomodate su una panchina rossa, all’ombra degli alberi. Accavallano le gambe, appoggiano le borsette, una estrae un cellulare.


“Oh, è scarico.. Devo fare una chiamata, assolutamente. Ho corretto delle bozze, a giugno. Non mi hanno ancora pagato, guarda te. Per questa volta mantengo ancora un tono gentile, ma è la terza che chiamo. Per quattro soldi..”


L’altra le offre il suo, per chiamare.


Sembrano sorelle, si assomigliano. Probabilmente lo sono. Entrambe massicce, ben vestite, soprattutto sono le espressioni del volto che le rendono tanto simili.


La telefonata viene fatta, in francese. È strano, la donna che parla al cellulare pare stia recitando.. Ma non solo ora, al telefono, parlando una lingua straniera. È che usa una particolare enfasi nel dire certe frasi, sottolinea con la voce certe parole, pronunciando le vocali strette, usa dei vezzeggiativi che hanno dell’artificioso; suonano esageratamente stucchevoli proprio perché pronunciati a quel modo.


È come se davanti a lei ci fosse un pubblico o una cinepresa, ricorda le attrici di teatro. Ogni suo gesto, il modo di compierlo, come leva la doppia lente agli occhiali per esempio, è eseguito con esagerazione, quasi una caricatura dello stesso.


“Mi hanno appena inviato altre bozze..”


Dalla sorella arriva la risposta, categorica, decisa:


“Finché non pagano, non correggerle.”


“Questo è evidente, acciderbolina!”


Acciderbolina detto così è un vero spettacolo!


Le altre due si sono accese una sigaretta. La sorella, buttata sulla panchina un po’ all’indietro con le gambe rigorosamente accavallate fuma impettita, tenendo la sigaretta lunga tra l’indice e il medio, con forza, quasi quel gesto e tutta la postura del suo corpo servisse ad affermare qualcosa. L’altra, quella rimasta per tutto il tempo in piedi, tiene la sigaretta un po’ nascosta dietro la gamba, il braccio teso lungo il corpo. Sta di fianco alla sedia a rotelle, osserva la struttura metallica. Vorrebbe sedersi, si capisce, ma non se la sente di abbandonare incustodito quello strano mezzo di trasporto. E se rotola via? Pare se lo domandi.. Forse sta cercando un freno da tirare.. 


Un occhio lo rivolge alle bambine, impegnate a nascondersi tra i tronchi; spesso, con un po’ d’apprensione. Sono le sue figlie, si vede da come le guarda. Se ne sta lì, vergognandosi di quel fumo che sale e che osa aspirare solo di fretta, una boccata veloce e poi via, la mano dietro la coscia. Accanto alla sedia a rotelle ma senza esserci, con solo lo sguardo attento alle figlie, e quello spostamento di peso da un piede all’altro, impercettibile.


Probabilmente sono quattro generazioni della stessa famiglia: la madre, le sue due figlie, una nipote e le sue due bambine.


“Allora, la Scozia? Com’era? ..”


“Uhhh, freddo, che freddo!”


Chi racconta della Scozia è quella seduta, che fuma: è lei che è appena tornata. Giusto una settimana, per distrarsi, per staccare dal lavoro. Bello e freddo, le pecore, tante pecore, il mangiare, gli acquisti, le solite cose.


Ogni tanto la vecchia apre gli occhi, soprattutto a certe parole, prova a dire qualcosa..


Ma chi le dà retta?


“Purtroppo..” sicuramente si saranno dette per telefono le due sorelle, a voce bassa, certe cose si sussurrano “Purtroppo..” e sempre bisbigliando:


“Che tracollo! Che tracollo!”


“In neanche una settimana..”


“ Mio dio, mio dio!”


“Non è più in grado, non intende..”


Ecco, allora, se non è in grado, se non intende.. Se è cosi, allora, si può anche girare la sedia a rotelle in modo che non abbia il sole in faccia, ma che non possa guardare in viso le sue figlie.. Si può parlare tranquilli della Scozia fredda e nebbiosa, ignorandola con la stessa tranquillità e serenità d’animo. Tanto, che differenza potrebbe fare?


Certo è vero: s’ inorridisce di fronte alla vecchiaia. Forse non di fronte a quella che ci propina la televisione e che ci piace credere vera: mani rugose e dalla pelle sottile, capelli di un candore immacolato, dolci sorrisi sulle labbra di chi tutto ha già visto e capito, occhi sereni rivolti a un’attesa infinita. S’ inorridisce di fronte a quell’altra di vecchiaia: quella delle malattie che ti divorano silenziose o obbligate al silenzio da tante, infinite pastiglie dai colori sgargianti e dai nomi impronunciabili; della vecchiaia delle parole non dette, dei rancori gelosamente conservati, delle carezze non fatte e non ricevute; la vecchiaia del ricordo di desideri tanto desiderati, ora che non c’è più nulla da desiderare; la vecchiaia del lottatore sfinito, stremato, senza alcun motivo per sorridere; la vecchiaia della saggezza tanto a lungo cercata e soltanto intravista. La vecchiaia che tutto ti leva, finanche il controllo del tuo misero corpo. E quando ti ha levato quello, quando la tua autonomia e indipendenza vengono meno, chissà perché, anche la tua dignità, il tuo essere, la tua appartenenza cessano di esistere.  Forse, non è detto. Perché c’è dignità in quel piccolo corpo consumato, negli occhi che faticano a stare aperti, nelle mani che si muovono in continuazione, nelle labbra che cercano di dare parola ai pensieri. Una grande dignità: basta saper guardare, prestare attenzione, prestare ascolto.


E ad aver saputo guardare, ad averle prestato ascolto e attenzione, la vecchia deve aver sicuramente  replicato a tutti quei:


“ Sei troppo stanca mamma!”


“Non sono stanca, non riesco a stare sveglia.”


E c’è una bella differenza.


Certo le parole non le possono essere uscite così nitide, chiare, perché i pensieri sono veloci nel suo cervello, molto più lente le parole, l’articolarle le costa fatica.


E le è rimasta talmente poca energia..


Purtroppo anche ascoltarla costa fatica, anche ascoltarla richiede energia.


“Mamma? Oh mamma? Sei stanca? Vuoi rientrare?!”


Una domanda alla volta, una alla volta, dalle il tempo santo cielo!


“…..”


“Forse è meglio rientrare, c’è un vento..”


“Guarda i capelli della nonna..”


È la bambina più grande, quella che per tutto il tempo ha cercato di arrampicarsi più in alto sugli alberi. Ha il respiro affannoso e le guance rosse di chi ha tanto corso, due occhi azzurri rotondi, immensi. Quanti anni potrà avere? Cinque? Sei?


Con le piccole mani va vicino alla nonna e le rimette a posto i capelli, usa le ditina come un pettine. La vecchia si lascia fare, parla alla bimba, la bimba risponde e ride, ride anche la vecchia. La bimba di un riso squillante, la vecchia di un riso leggero.


“Lascia stare la nonna, smettila.. Uff, dai vieni qui..”


La riprende la madre, con poca convinzione.


Anche la più piccola raggiunge la sorellina, tra le mani un mazzo di foglie grandi, verdi: foglie di un pioppo.


Arriva anche lei correndo, piena di gioia e di orgoglio: quel che tiene tra le mani è una magnifica, splendida sorpresa. Perché quelle foglie così grandi, dalla forma così particolare sono bellissime! Ha i capelli sulle spalle che ondeggiano nel vento, la fronte sudata, le mani sporche di terra. Non sta ferma un attimo, saltella, sembra un moscerino impazzito. E urla:


“Per la bisnonna, per la bisnonna!”


E gliele porge, gliele appoggia in grembo.


Insieme al fazzoletto e alla piuma: tutti tesori preziosi.


Da tenere tra quelle mani che non posseggono più forza, delicate come un soffio quando toccano qualcosa, anche le mani della bimba.


Tesori preziosi: la piuma, le foglie e le mani della bimba.


Da toccare, da farci passare le dita sopra, da sentirne la struttura, da accarezzare.


“Allora mamma, rientriamo? Dai, che adesso hai la cena, e le medicine da prendere..  Poi le infermiere ti mettono a letto.. Chissà che c’è di buono di cena? Mmm.. dopo leggo il menu e te lo dico.”


Come con i bambini, come con i bambini..


 


Quella che spinge la carrozzina parte per prima: una bimba di fianco a dare la mano alla bisnonna, l’altra appollaiata sui due ferri tra le ruote dietro. Anche la sedia a rotelle può essere una magnifica avventura a quell’età.


Le altre seguono a qualche passo di distanza, bisbigliano tra loro, sottovoce…


“Allora la imboccano le infermiere? Mio Dio, mio Dio, ridursi così..”


“Hai visto? Non capisce più niente.. Mah..”


“Dorme, dorme.. Almeno non soffre.. Certo questa è un’ottima casa per anziani, si occupano loro di tutto, è ben accudita.”


“Ma si, naturalmente, ottima. Hai visto quanto personale? E tutti gentili..E non è messa così male, la mamma. Hai visto alcuni?..”


“Guarda se non fosse perché bisogna venire a trovarla, poveretta..”


Poveretta, se non ci fosse bisogno, ridotta e non è delle peggio messe, c’è chi la imbocca..


Bisbigliano, sottovoce..


“Mi fa orrore!”


Orrore? E sì che fa orrore, paura, a tutti. Si cerca di non pensarci, di dirsi che manca tanto tempo, in fondo.. E poi, magari, Dio ce la manda buona. Addormentarsi nel proprio letto, tranquilli, sereni, col sorriso sulle labbra.


“Sì, è terribile. Povera mamma..”


E questa è pietà. Ma la pietà, rivolta a qualcuno che si ama lascia l’amaro in bocca. Più dell’essere divorati dalla malattia, più del degrado del proprio corpo, molto di più. Un amaro che fa stortare la bocca in una smorfia, che prende lo stomaco. Lascia il cuore freddo, lascia il gelo nelle vene. Per chi si ama la pietà non va bene.


 


Ecco, sono sparite. Tutte e quattro. Non le vedo più. Sono rientrate. Me le immagino chiamare l’ascensore, percorrere uno dei lunghi corridoi. Ci sono tante, infinite parrebbe,  identiche porte, ad ogni piano. Si affacciano su lunghissimi corridoi, tutti uguali anche quelli: pavimenti di linoleum azzurro e muri bianchissimi. Unico segno di distinzione un numero, scritto in piccolo su una targhetta, di fianco ad ogni porta. E il nome? Dietro ogn’una di quelle porte c’è una piccola stanzetta, un letto, un tavolo, il bagno, un balconcino; c’è in giro qualche oggetto personale, qualche foto alle pareti, quel qualche cosa che la dovrebbe far assomigliare a una casa. Ci abita qualcuno dietro quella porta.. Il nome? Mi hanno detto che se voglio lo posso mettere anch’io. Ma io non voglio. Proprio no. L’ho detto, niente nome, io sono “l’ospite numero 465”.


E tra poco mi verranno a cercare..


L’infermiera, quella carina, giovane giovane: una pelle bianchissima, due occhi chiarissimi truccati pesantemente di nero.  Sono davvero tutti gentilissimi! Ed è davvero un’ottima casa per anziani. Certo, hanno ragione le due sorelle.


Mi verranno a cercare..


Il vento soffia, forte. Spinge le nuvole nel cielo, lo splendido cielo di questo pomeriggio d’ agosto. E io me ne sto qui, seduto sulla panca di sasso: un po’ guardo le pitture scrostate sulla volta, un po’ la gente che passa. Osservo. Osservo e scrivo quel che vedo. Un quadernetto pieno di piccole storie, di impressioni, di mie fantasticherie sui personaggi che in questi 50 metri si fermano, chiacchierano, o semplicemente passano veloci. Me lo porto sempre dietro, il mio quadernetto.


Le infermiere mi chiedono: “Ancora a scrivere? E non ci fa leggere niente?” e intanto ridono, perché io scuoto la testa, faccio “no” col capo. Sono storie mie, mie soltanto. Glielo dico, e questo le fa tanto divertire.


“Abbiamo uno scrittore, nella camera 465..”


Che sia ridicolo un vecchio con le gambe malferme, la parola impastata, sorpreso a riempire pagine e pagine quadrettate? Forse è ridicolo, forse. Questa è un’ottima casa per anziani, certo. Ma rimane un parcheggio. Ci sono parcheggi più belli di altri, ma sempre parcheggi rimangono. Questo è luminoso, pieno di luce, con persone gentili che lo gestiscono. Ma, insomma, io quest’attesa senza scopo la devo pur riempire! E allora la riempio, con la vita degli altri. Mi hanno messo qui, parcheggiato: come faccio a vivere la mia vita? E non lo dico come un giudizio, sia chiaro. Io non giudico nessuno, non mi permetterei mai.  È solo quello che sento io, è come mi sento io. Per me questo non è vivere, è strisciare lungo le giornate, le settimane, i mesi. Sono io a sentirmi parcheggiato, inutile. Buono solo ad aspettare. 


 


 


 


 

Un commento a “L’ospite numero “465″”

  1. Andrea dice:

    Ciao Miriam. Non so proprio che dirti. Anche questo e’ bellissimo. La figura della vecchietta che accarezza la piuma e’ molto evocativa, e resta impressa ancora di piu’ per il fatto che non sappiamo cos’abbia di speciale quella piuma…

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