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Ricordi Complessi – 1 – Andrea: Il Rimorchiatoio e il manifesto

Pubblicato da piehasen il 25 settembre 2010

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*** “Ricordi Complessi” è una raccolta di racconti che un piccolo editore fa scrivere a quattro vecchi amici rintracciati dopo molti anni (siamo nel 1989 – 1990) per comporre un’opera sugli “anni folli” del Sessantotto. Inframmezzati tra i racconti sono riportati anche i verbali delle riunioni di redazione. ***

IL RIMORCHIATOIO E IL MANIFESTO

Tutto iniziò quando si sfasciò il Rimorchiatoio, ed il suo padrone restò appiedato per più di due settimane. In qualche modo bisognava fare fronte, specie in quel mo­mento in cui tre ragazze del giro avevano dato forfait (per i più svariati motivi), e contemporaneamente tre o quattro facce nuove avevano iniziato a bazzicare la com­pagnia, sbilanciando quell’equilibrio tra i sessi che era il principale fattore d’aggre­gazione di un giro come il nostro.

Io e Alberto, che eravamo investiti (in modo non ufficiale, beninteso, queste cose succedono sempre senza essere dette!) del compito di preservare tale equilibrio, ini­ziammo a preoccuparci: per una volta avremmo dovuto rimboccarci le maniche e darci da fare per conto nostro. Porca Eva, imprecò Alberto per telefono una sera, pro­prio adesso quell’imbecille doveva andare a sbattere con il Rimorchiatoio, ed era tutta colpa di quell’altro pazzo di Paolo! Assentii con un grugnito e cominciai a farmi un po’ di conti.

Per spiegare questa storia del Rimorchiatoio bisogna rifarsi un attimo all’ambiente che si bazzicava in quegli anni. Eravamo tutti più o meno figli di una certa Milano-bene, che non era per nulla quella che si vede nei film o nei romanzetti d’appendice dei vari Robbins, Sheldon e compagnia. Se un siffatto ambiente esisteva, noi ne eravamo ben al di fuori, o per ceto e censo, o per la nostra ancor troppo verde stagione. Dicia­mo che eravamo figli di una buona borghesia, i nostri padri erano per lo più profes­sionisti: medici, avvocati, qualche medio dirigente d’industria.

Eravamo passati attraverso il Sessantotto quasi senza accorgercene, e lo dico senza alcuna vergogna. Come per il Risorgimento e la Resistenza, in cui per anni si é favoleggiato che tutti fossero risp. patrioti e partigiani, anche sui moti del Sessantotto si é esagerato un tantino. A sentire giornalisti e romanzieri che scrivono adesso, sembra che non ci fosse giovane che non partecipasse a dimostrazioni e sit-in, o che non facesse comunque parte di qualche gruppetto d’estrema sinistra.

Anche la lucida e spietata analisi di Umberto Eco nel pendolo di Foucault pecca in fin dei conti nello stesso senso: Belbo vive nel rimpianto di non aver potuto fare il partigiano ad undici anni, e Casaubon vede di mal occhio i poliziotti perché in fin dei conti, nonostante il suo individualismo da accademico, “era sempre uno studente che faceva i cortei”. Chi non sa di cosa sto parlando si (ri)legga il romanzo per più di dieci pagine.

Sarà. Io so che tutti i miei amici che studiavano alla Statale ci andavano solo quando c’era da dare un esame, e se la facoltà era occupata se ne tornavano a casa con un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo e la coscienza a posto per aver comunque fatto il proprio dovere.

Noi del Politecnico, poi, facevamo studi troppo tecnici ed impegnativi (Ingegneria non puoi studiartela a casa: bisogna frequentare, altrimenti sei tagliato fuori imme­diatamente!) per poter perdere tempo appresso a queste frivolezze. Anzi, quando pro­vavano a venire da noi per occupare o sospendere le lezioni, c’era una levata di scudi generale in difesa del diritto allo studio. Trattavamo con vera spocchia i “compagni di Architettura”, a nostro avviso null’altro che scansafatiche e scaldabanchi, troppo impegnati in politica per pensare a qualcosa di serio.

Ci ritornerò magari su un’altra volta: basta dire ora che l’aggregazione di casta universitaria trascendeva le classi sociali, cioè che noi del Poli non ci comportavamo così perché eravamo tutti figli di papà, il che tra l’altro non era affatto vero.

Di che si parlava? Ah sì, dovevo spiegare il fatto del Rimorchiatoio.

Stavo dicendo che non eravamo dei casi letterari o giornalistici, né da un lato, né dall’altro. Eravamo un ambiente di bravi ragazzi senza grilli per la testa, senza preoccupazioni economiche ma senza neanche troppi soldi in tasca, che si preparava al domani con serietà e si divertiva in modo assolutamente innocente ed economico.

Anche il nostro parco macchine rifletteva quest’andazzo: io andavo in giro sul vecchio maggiolino di mio padre, finché per i ventun anni il genitore mi regalò la macchina nuova ed io optai per una centoventisette; Alberto aveva una cinquecento su cui, come unico optional, aveva fatto montare un clacson potentissimo (ma non bitonale!); Alessio una vecchia Giulietta con il cambio non sincronizzato che grattava in continuazione; Paolo la Fulvia del genitore, ed erano sempre battaglie all’ultimo sangue per avere le chiavi.

L’unico che stonava nel coro era Maurizio, cui il padre, intenerito da una lunga malattia che aveva tenuto il ragazzo inchiodato a letto per dei mesi, aveva di sua ini­ziativa regalato una porsche novecentoundici targa di color blu ministeriale. A parte l’infelicità del colore, Maurizio era l’ultima persona che avrei visto al volante di un’auto da corsa, semplicemente perché non sapeva guidare. E poi la usava di rado, un po’ perché appunto gli faceva paura, un po’ perché costava una barca di quattrini in benzina.

Maurizio sembrava un Lord inglese quanto a distacco e disincanto: nessuno pote­va dire di averlo mai visto seriamente arrabbiato per qualcosa. Questa splendida dote caratteriale aveva il suo contrappeso nel fatto che il ragazzo era straordinariamente propenso a subire la vita piuttosto che ad affrontarne i problemi, dalla scelta dell’auto allo stare con una ragazza alle problematiche sul proprio futuro.

Era scritto nelle stelle che sarebbe diventato un medico come suo padre, e che in quanto figlio unico ne avrebbe tra qualche anno ereditato lo studio e gli agganci pro­fessionali: che a lui piacesse o no era secondario. Simona, che prima di avere una breve e burrascosa storia con me era stata con lui per più di sei mesi, mi aveva confi­dato di averlo mollato senza che lui neanche se ne accorgesse. E la porsche targa ve­niva trattata con la stessa sufficienza, come qualcosa che gli era cascata nel piatto. Diceva che gli serviva soprattutto per rimorchiare le ragazze, ed era stato lui stesso ad affibbiarle quel buffo soprannome di Rimorchiatoio, nomignolo azzeccato e calzante.

Qui bisogna intendersi su un altro fatto e tirar via ancora un po’ di mitologia. A parte che in quegli anni il femminismo stava emettendo i primi vagiti, non c’é barba di ideologia che possa sradicare gli istinti primordiali dal subconscio degli Umani, maschi o femmine che siano. É questione di simboli: al giorno d’oggi, in cui l’auto non fa il monaco e le macchine da corsa se le comprano i bottegai, una porsche attira solo le pernacchie, altro che ragazze, ma allora era un altro paio di maniche. Met­tiamoci pure il fatto che anche tra le donne la stupidità faceva (e ancora fa) numero sull’intelligenza, ed il quadro mi sembra completo.

Fatto sta che, tra un bassetto mingherlino in rayban e porsche targa ed un sosia di Robert Redford in motorino, il novanta per cento delle ragazze che uscivano all’una dalle varie scuole di Milano sciamavano attorno al primo. Esattamente come una racchiona nasuta e occhialuta, ma in minigonna o hot pants, attirava molti più mosco­ni di una sventola vestita da suora. Alberto era il primo che aveva preso atto di questo elementare fatto della vita, e vi si era adeguato mascherandosi all’occorrenza da play­boy e facendo un sacco di scena. Mancavano ancora dieci anni al momento in cui Carlo Verdone avrebbe immortalato un personaggio del genere in “Borotalco”, ma chi ha visto il film può farsi un’idea della cosa – purché sposti il tutto da Roma a Mi­lano.

Visto che il trucco funzionava, i più dotati di faccia tosta ci avevano provato… e naturalmente la maggior parte aveva fatto un buco nell’acqua. Ci vuole un certo ta­lento per risultare credibili con poco, come faceva Alberto.

Per Maurizio invece la vita era più facile da quando aveva il Rimorchiatoio. Arri­vava alla scuola mezz’ora prima dell’uscita in modo da posteggiare proprio davanti, e al momento giusto si appollaiava sul cofano (da seduto mascherava anche la sua bassa statura) ed aspettava che uscisse qualche sua amica. Ciao Marzia, oh, Mauri­zio, come stai, che ci fai qui, e intanto si avvicinavano le compagne di classe per ve­dere chi era quel ficaccio con cui Marzia stava parlando. Se il climax arrivava al punto giusto, Maurizio era capace di rimediare da una missione del genere anche una dozzina di numeri telefonici, e di solito la Marzia di turno conosceva (o sgamava) il trucco e vi si prestava volentieri, perché sapeva che Maurizio era pieno di amici mi­gliori di lui.

Naturalmente non bisognava ripetere il trucco troppo spesso davanti alla stessa scuola: dopo un paio di volte veniva a mancare l’effetto novità, e lo spazio intorno al Rimorchiatoio andava deserto. Qui entravamo in scena io e Alberto, che avevamo af­finato la tecnica da veri professionisti. Elenco alcune delle varianti fondamentali che avevamo introdotto:

I. Arrivare al momento giusto. Sviliva un po’ tutta la faccenda il fatto di arri­vare lì mezz’ora prima con l’aria degli sfaccendati, sembrava che si stesse a mendi­care compagnia; d’altronde non bisognava nemmeno giungere troppo tardi e trovare la piazza deserta. In tal caso ci voleva un palo, uno fuori dal giro (e che doveva restarci) che si acquattava in un angolo di fronte ed al momento giusto faceva un segnale al Rimorchiatoio nascosto due traverse più in là, che faceva così il suo ingresso trion­fale.

II. Accompagnare Maurizio. Una faccia nuova sul Rimorchiatoio rinfocolava l’interesse, ed Alberto ed io ci prestavamo volentieri alla corvè. Dopo un po’ conosce­vano anche noi, ma le uscite con il Rimorchiatoio non si facevano mica tutti i giorni.

III. Aiutare i bisognosi. Quando uno del giro (o meglio ancora, uno non del gi­ro) voleva farsi una nuova ragazza ed andava a prenderla a scuola nella fase del cor­teggiamento, bastava capitare là per caso con il Rimorchiatoio rombante: ciao, come va, meno male che ti vedo, dovevo chiederti una cosa. Seguivano presentazioni etc. come da copione. Di solito il soggetto ne risultava rivalutato (dimmi con chi vai e ti dirò chi sei); se accadeva il contrario, cioè che la ragazza si attaccava ai Rimorchia­toisti e lasciava perdere il malcapitato, bé, erano i rischi del mestiere. Se il tipo era del giro, sapeva già a cosa andava incontro, se non era del giro, tante scuse e non é colpa nostra, prenditela con quella scema.

Un momento: non vorrei che si pensasse che mi sto vantando di essere stato un gran “tombeur de femmes” negli anni ruggenti. La realtà era ben diversa: a dispetto di tutte le nostre teorie e strategie, che funzionavano benissimo per i casi altrui, io e Alberto eravamo i classici calzolai con le scarpe rotte che non riuscivano mai a rime­diare uno straccio di ragazza. Probabilmente giocava il fatto che ci stavamo troppo a pensare e perdevamo tutte le occasioni.

Ma torniamo al giorno disgraziato in cui per la prima volta Maurizio mollò a Paolo le chiavi del Rimorchiatoio per una giterella a casa di Alberto sul lago di Co­mo. Arrivarono su in quaranta minuti (tempo normale: un’ora e mezza), Paolo esalta­tissimo, Maurizio bianco come un cencio, e il Rimorchiatoio tutto contento di essersi fatto per una volta una bella galoppata. La giornata passò normalmente, ma al mo­mento del ritorno Maurizio fu irremovibile: con quel pazzo al volante non ci torno, la macchina é mia e se mi devo schiantare voglio farlo di persona.

Fu di parola: poco più giù di Lecco finirono contro il guardrail. Non si fecero nulla perché andavano a settanta o giù di lì, ma il Rimorchiatoio fu lui ad essere per una volta rimorchiato fino a Milano, con prognosi di venti giorni salvo complica­zioni.

E proprio adesso, naturalmente, arrivava un esse-o-esse per mancanza di femmi­nucce. Pazienza, faremo qualcosa senza quel bidone, dissi ad Alberto. In fondo non ci occorrono più di quattro figliole per sabato, e poi si arrangino un po’ anche loro!

Facile a dirsi, rispondeva lui. Mettiamo un annuncio sul giornale?

Poteva essere un’idea. Tra me ed Alberto era di solito lui ad avere la proverbiale lampadina accesa, ed io a renderla praticabile e fruttifera. Il giornale non andava be­ne, perché nessuno lo leggeva (anche i giornali studenteschi erano un’utopia sessan­tottifera andata già in putrefazione), ma ai tatzebao gli davamo un’occhiata persino noi, quando ci passavamo davanti

Sul giornale no, risposi, ma che ne dici del muro fuori dalle Orsoline?

L’Istituto delle Suore Orsoline era forse il più austero della città, e andare ad at­taccare un manifesto proprio lì richiedeva un certo coraggio anche in quegli anni. Soprattutto perché le Reverende Madri avevano, a quanto pareva, un servizio di spio­naggio molto efficiente, e non si facevano scrupolo di rendere la vita difficile alle al­lieve cadute in disgrazia o sospettate di frequentare cattive compagnie: c’era il rischio di inguaiare le nostre amiche in quella scuola, se una siffatta bravata avesse ricevuto nome e cognome. Ma proprio per questo le Orsoline di via Lanzone erano una riserva di caccia incontaminata, e la tentazione era troppo forte. Per di più non ci si era mai potuti andare col Rimorchiatoio, perché la via – una delle vecchie stradette del centro di Milano dietro S. Ambrogio – era troppo stretta, quindi l’occasione si presentava propizia.

Avevamo alcuni conoscenti impegnati in politica, e non fu difficile reperire il ma­teriale: cartone, scotch da pacchi, pennarelli. Il vero quiz era il contenuto del manife­sto: cosa diavolo saremmo andati a scriverci?

Facemmo una piccola inchiesta tra gli intimissimi, ed il parere migliore ci sembrò quello di Paolo, che non era spericolato soltanto al volante e certe volte faceva como­do con i suoi pareri balzani. Meglio che siate sinceri, ci disse, dite le cose come stan­no. E proponete qualcosa di carino, per esempio una festa.

COMPAGNIA SIMPATICA MA A CORTO DI RAGAZZE

CERCA NON-IMPEGNATE PER SABATO 20 ORE 16

PER RIUNIONE CONVIVIALE CON FESTA

A CASA DI ALBERTO.

 

ESCLUSE PERDITEMPO ED IMBUCATE

TELEFONARE PER PRENOTAZIONE

Seguivano nomi e numeri di telefono di Alberto, miei e di un’altra amica, che avevo scongiurato di prestarsi al gioco.

Dopo aver ricevuto qualcosa come venticinque telefonate – e non ci fu neanche uno scherzo di cattivo gusto – ci chiedemmo cosa avesse fatto funzionare la faccenda così bene. Innanzitutto la semplicità: poche righe schiette e sincere. Poi il fatto di aver messo una ragazza nel comitato, che riduceva al massimo la possibilità che la cosa fosse una di quelle burle pesanti tipo “sono sola cerco uomini telefonate al …” scritto sulle pareti del métro. Infine la frase – devo darne merito ad Alberto – “Escluse perditempo ed imbucate”: il fatto di avercela messa sottintendeva che noi credevamo le ragazze delle Orsoline capaci di prendere la cornetta e fare uno scherzo, o presen­tarsi in cinquanta non invitate. Ne furono incuriosite e lusingate, più che se avessimo scritto che erano tutte belle e intelligenti.

Naturalmente la festa fu un successo, anche perché ci avevamo messo l’anima per farla riuscire. E quando il Rimorchiatoio fu di nuovo in giro, non se ne sentì per nulla la mancanza, per lo meno alle Orsoline.

11 Commenti a “Ricordi Complessi – 1 – Andrea: Il Rimorchiatoio e il manifesto”

  1. andrea dice:

    Ciao piehasen.

    Inizio col darti il benvenuto sul sito!

    Prometto che nei prossimi giorni mi leggo tutti i tuoi, ma nel frattempo inizio da questo attirato, lo ammetto, dal mio nome nel titolo :)

    Non riesco a trovare molto da criticare qui. Il tono della narrazione è delizioso, amichevole, colloquiale, sembra di stare seduti davanti ad una birra e sentirti raccontare, piuttosto che leggere da un monitor.

    Anche la storia è molto carina. Un fatto semplice diventa la scusa per mettere su una descrizione di tutta una società.

    Grazie per avercelo fatto leggere :)

    Andrea.

  2. piehasen dice:

    Caro Andrea,

    credo che tu abbia capito lo spirito di questo lavoro: un gruppo di scrittori non professionisti che racconta storie del proprio passato. Se vai avanti con ordine, troverai magari le stesse storie viste da diversi punti di vista, come un puzzle che si costruisce pian piano, anche attraverso i verbali delle riunioni.

    Comunque grazie per i complimenti!

    Pietro

  3. andrea dice:

    Ciao, dimenticavo di dirti che se mi fai avere gli estremi del libro, ti mettiamo assieme agli altri nella nostra vetrina:

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  4. piehasen dice:

    Ehm… non è finito… sono alla puntata n. 21 e me ne manca… volevo intanto “saggiare” la fattibilità del progetto… comunque adesso che ho trovato per lo meno un ammiratore mi darò da fare con più lena!

    Grazie comunque
    Pietro

  5. andrea dice:

    Mah guarda secondo me è fattibilissimo. Ho speso soldi in libreria per cose di gran lunga peggiori.

    Poi purtroppo ci sono un sacco di considerazioni, a lato del valore intrinseco, che decidono se un libro viene pubblicato oppure no, e se ha successo.

    A.

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