L’ultimo viaggio
Pubblicato da poetto il 16 maggio 2009
E’ vero… non sono stato sincero.
Non ho fatto prigionieri quei cinque austro- ungarici grazie al mio sangue freddo, si sono arresi a me perché erano stanchi di combattere.
Ne ho approfittato…siamo in guerra! Come si dice? In amore e in guerra…
Grazie al mio prodigioso gesto, mi sono “guadagnato” una licenza di una settimana.
Sono in treno, rientro nell’inferno.
Dai finestrini vedo scorrere la campagna, monotona, piatta.
Ci fermiamo di tanto in tanto in piccole stazioni ferroviarie.
Qui, la guerra, sembra un evento lontano, come se non riguardasse la nostra nazione.
Molti dei compagni di viaggio sono dei ragazzini, avranno forse diciotto anni.
Li guardo, mi domando quanti rivedranno le loro case.
La maggior parte di loro sembra tranquilla, pare non si rendano conto di quello che li aspetta, sono i famosi rinforzi.
La campagna continua a scorrere.
L’inverno è alle porte.
C’è un brusio insopportabile, tutti parlano, ridono, scherzano.
Appoggio la testa sul finestrino, non so quante ore di viaggio ancora mi aspettano.
Ascolto il discorso che, due ragazzi davanti a me, fanno.
Uno dei due ha delle mucche, è più preoccupato dei propri animali che di se stesso.
Abitando in città, certe cose non riesco a capirle, lo so, è un mio limite!
L’altro ragazzo si chiede come sarà il nemico, ci scherzano sopra, quando arriveranno al fronte avranno ben poco da scherzare!
Diversi anni prima della guerra era venuto a casa, a trovare mio padre, un signore austro – ungarico, rimasi sorpreso sentendolo parlare in italiano.
Sapevo così poco di quella realtà.
Adesso so qualcosa in più.
I tipi che si sono arresi erano croati, fortunatamente parlavano poco il tedesco e ancora meno l’italiano.
Il nostro capitano, un siciliano simpatico sulla trentina, non conosceva il tedesco, figuriamoci il croato, inoltre…aveva voglia di credermi.
Grazie a questo, la mia versione dei fatti non ha avuto contraddittori.
Ripenso al mio primo viaggio in treno.
Sembra una vita fa.
Rivedo il volto di mio padre quando mi prese la mano per salire.
Ricordo l’emozione nel vedermi dentro quel mostro sbuffante.
Il treno si ferma, mi dicono che ripartirà in tarda serata.
Cosa è successo? Non lo so, non mi preoccupo più di tanto.
Scendo.
La stazione si è colorata con le nostre divise.
Ne approfitto per fare due passi.
Molti pensavano che tutti gli uomini sarebbero finiti al fronte, invece, vedo un bel po’ di giovani, in borghese, a spasso.
Eccoli…guardano incuriositi la massa di ragazzi della loro età in divisa.
Dall’altra parte, molti ragazzi, si domandano perché questi stiano comodamente seduti in un caffè mentre loro sono in viaggio verso l’ignoto.
Un soldatino continua a fissarmi, capisce, forse dalla mia età, forse da altro, che sono un veterano, si avvicina, attacca bottone, mi chiede: com’è la guerra?
Non ho voglia di parlare con lui.
Riesco a liberarmi.
È stato difficile ritornare in questi posti, non avevo scelta.
Purtroppo non è come lasciare un normale posto di lavoro.
Vedo movimento, si risale.
I miei compagni di viaggio sono cambiati.
Penso a casa, agli zii, ai cugini.
I tre cugini che ho, sono piccoli.
Un quarto cugino è morto lo scorso anno, si chiamava Mattia.
Mia zia era convinta che combattessimo nello stesso posto.
Era un giovanotto alto, bruno, pieno di vita.
Prima della guerra aiutava il padre nell’azienda di famiglia.
Aveva fatto mille progetti: il matrimonio, la casa, il lavoro.
Non l’ha ucciso il nemico ma una valanga di neve.
Il suo corpo, assieme a quello di 27 giovani, non è stato mai trovato.
Mi viene in mente il pensiero sciocco che ho fatto quando quei poveri disgraziati si sono arresi: sarei voluto essere al loro posto, questo ho pensato quando mi sono visto quelle figure alzare le mani.
Per loro era tutto finito.
Saranno finiti in qualche campo di prigionia lontano dal fronte.
Incomincia a piovere.
Il sole, pian piano, scompare all’orizzonte.
Dovremmo essere quasi arrivati.
Ora che sono prossimo al fronte, rivedo i volti dei miei commilitoni.
Mi vengono in mente tante cose.
Con un ragazzo, Piero, mi pare si chiamasse così, avevo un contratto debito, gli dovevo dieci sigarette, quelle che aveva trovato in una trincea nemica e che mi aveva prestato nella speranza di vederle indietro.
Non ho mai onorato quel debito…avrei voluto tanto farlo!
Arrivati.
Salgo su un camion, sarà lui, non le mie gambe, che mi farà arrivare a destinazione.
La strada è piena di buche, vengo sballottato da una parte all’altra.
Sono stanco.
La solita domanda continua ad assillarmi: cosa mi aspetta?!
Cerco di pensare ad altro ma lei è lì.
In realtà quella domanda ne nasconde un’altra che non voglio, con tutte le mie forze, farmi: riuscirò a uscirne fuori sano e salvo?!
La paura di non farcela è tanta.
La pioggia continua a scendere, si sente picchiettare il telone che copre il mezzo.
La strada diventa in salita.
Il mezzo arranca, forse c’è sopra troppa gente.
Se non ci fosse questa maledettissima guerra, sarei seduto a tavola a cenare.
In altre circostanze sarei nel mezzo dei preparativi per sposare Chiara, invece eccomi qua.
Anziché pensare all’organizzazione del matrimonio, sto pensando a come evitare di rimanere qui per sempre.
Superiamo una colonna di fanti a piedi, sorrido pensando alla fortuna che ho avuto nel trovare un passaggio.
Superiamo una serie di baracche di legno.
Il camion si ferma, il viaggio è finito.
Rincomincia l’inferno.