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12 febbraio 2004

Questo scritto riporta un episodio che è stato raccontato una ventina di anni fa nel gruppetto che si riuniva fuori da Pepp’ o’ ‘ciore. E’ il ridordo di un evento accaduto intorno agli anni 80. Il quartiere (Scampia) era agli inizi della sua costituzione, non c’era il tessuto sociale che c’è adesso, non c’erano farmacie, piazze, bar… non c’era niente, neanche il prefabbricato della chiesa. Forse una leggenda metropolitana inventata per gioco, vincere al gioco di  chi la spara più grossa oppure un fatto realmente accaduto e raccontato proprio per liberare la propria anima da un’angoscia che per decenni ha pervaso il ricordo di una evidente e riconosciuta brutalità.

Come per chiedere scusa per essersi trovati a dover vivere ed esercitare una cosa giudicata così violenta e devastante anche per chi la propone, in una società che uniforma nella paura e nell’ignoranza, violenza richiesta e in-consapevolmente premiata.

Una volta era Totonn’ o’ chiappariello, ora una persona bellissima, impiegato, sposato, con una figlia. Nel tempo del branco senza coscienza, lui con altri, decisero di ospitare per una sera un omosessuale coetaneo di un altro quartiere che non sapeva come tornare a casa. Prima si mostrarono amici e si offrirono di aiutarlo, poi così per gioco, senza rendersene conto… Una cosa tira l’altra, la banda si da forza, la derisione dell’escluso, il sentirsi grandi, il diverso che conferma il proprio genere e così… La parte più animale di loro venne fuori nella peggiore delle forme. La notte stessa lo accompagnarono fuori un ospedale, non perdeva sangue ma il suo essere era stato devastato da un infinito tradimento.

Come per chiedere scusa, racconto richiesta di aiuto mai avuta in passato, aperta al gruppo, carica di una sofferenza profonda, per costituire uno stare insieme più aperto, compreso migranti, psichiatrici, omosessuali, devianti, comunisti e benpensanti, che non crei fratture indelebili o traumi insanabili. Uno stare insieme per crescere in pace i propri figli.

Qualche anno prima di ascoltare questo racconto, mentre aspettavo il notturno alla Sanità, mezzo di trasporto pubblico più frequente e sicuro degli autobus giornalieri per raggiungere la 167, sento un ragazzo piangere rannicchiato in un angolo; non posso fare a meno di andargli vicino e chiedergli che cosa avesse. Mi racconta che la sera prima dei ragazzi si offrono di accompagnarlo a casa e una volta saliti in auto, gli chiedono di aggregarsi alla comitiva… Cenarono insieme, poi però rifiutò le avances giudicandole non sincere e denigratorie… Ne ricavò insulti e schiaffi. Degenerata la situazione gli fu chiesto di andarsene. Da quel momento comincia a piangere e implora quelle persone di non lasciarlo andare via da solo, ma di accompagnarlo da un’altra parte. Ora quel quartiere nuovo pieno solo di palazzi deserti faceva più paura degli schiaffi già ricevuti in casa dai suoi cosiddetti amici…. Nel frattempo arriva il notturno ed anche quella notte torno a casa.

Non avrei mai immaginato dieci anni dopo di ascoltare il racconto dello stesso evento, di dover soccorrere anche l’aggressore per lo sgomento che il solo ricordo causava e di dover accettare che queste cose accadessero non solo nei racconti metropolitani ma anche nella realtà della scala di fronte alla mia.

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