VIGILIA DI NATALE
Pubblicato da stefy il 6 ottobre 2006
dicembre 2003
vista e le pupille. Mi rigiro nel letto e sbadiglio rumorosa. Spalanco infine
le palpebre incapace di restare nel buio dei sogni e vedo un muro bianco e
scrostato, il post it giallo che ieri sera Marco ha attaccato controvoglia per
me: Salutare prof in facoltà.
Lancio un’occhiata rapida all’orologio: nove
e un quarto. Mi alzo esausta, come se avessi percorso tragitti chilometrici e
sentissi nelle gambe il peso di millenni di lotte e combattimenti. La finestra
è sigillata, ma il freddo entra lo stesso, spiragli di vento e bora. Scosto la
tendina: il cielo è plumbeo, un’unica nube a ricoprirlo, opacità diffusa e grigiume
di inverno. Mi sciacquo il viso nel lavabo, Marco dorme, ignaro della vita nel
nostro giaciglio di amori e menzogne. L’acqua mi irriga la pelle e le labbra,
penetra strati sconnessi di epidermide e confusione. Apro l’armadio e batto i
denti in modo quasi convulso, stretta nel mio pigiama striminzito. L’anta
scricchiola e Marco si muove, allunga una mano per cercarmi, l’espressione
stordita e di perenne ricerca a corrugargli la fronte. Lo osservo con occhi
acquosi mentre posa lo sguardo su di me.
“Buongiorno” bofonchia con voce
impastata.
“Buongiorno” rispondo e torno a
fissare i jeanz appesi nell’armadio. Sfilo dalla stampella i pantaloni di tutti
i giorni mentre Marco mi osserva. Non lo guardo, non ho voglia di chiacchierare
di futilità, solite frasi mattutine e scontate. Maglione di lana, piumino nero
e attillato, scarponi ai piedi, calzettoni da calciatore, sciarpa e cappello,
guanti in mano, borsa a tracolla, apro la porta con aria ancora assonnata.
“Amore?”
“Si”, mi volto a guardarlo.
“Il regalo”
Resto per un attimo sospesa tra l’uscio e la
stanza. Torno indietro a prendere il pacchetto che Marco ieri sera ha incartato
per me. Passo vicino al letto, Marco mi afferra la mano:
“Un bacio”
Mi chino a baciarlo: odore di vino e sale,
labbra troppo grandi e scure. Zero sentimento, zero amore, zero desiderio. Esco
e sbatto la porta: aria nei polmoni e voglia di correre.
Il gelo mi taglia il fiato: nuvole di vapore
grigio si confondono nell’aria, si formano e scompaiono in pochi secondi, al
ritmo regolare del mio respiro. Attraverso il cortile, scendo i gradini della
stazione e quasi scivolo in una pozzanghera di fango e ghiaccio. In giro solo
cani, abbandonati a se stessi a congelare sotto tettoie e ripari. Barboni
chiusi nei sacchi a pelo ai margini di vetrine addobbate, uccelli silenziosi e
taciturni. Ghirlande a destra, ghirlande a sinistra, colori vivaci misti a
umidità e grigiume, fiori di carta tra smog e desolazione. Aspetto il treno in
silenzio sulla banchina deserta. Case con tapparelle strette e scure, immagino
famiglie che dormono, letti grandi e caldi, amore e felicità, bambini nelle
culle, pacchi regalo sotto l’albero, baci e abbracci, cartoline e dolcezza.
Arriva il treno, il controllore mi lascia
passare, sorridendo con occhi chiari e freddi. Lo guardo ma ho una smorfia sul
viso che non riesco a cancellare: gli osservo quei denti gialli e grandi, semi
nascosti dai baffi bruciacchiati. Non posso ridere, ho le labbra paralizzate,
il cuore stretto nella morsa del freddo. So che il sorriso gli muore in viso,
mentre pensa che sono una maleducata. Mi nascondo nel bavero del piumino,
seppellita da chilometri di capelli lisci come l’olio.
Università vuota, solo Goffredo il custode a
vigilare su tesori nascosti, chiuso nel gabbiotto con l’orecchio appiccicato
alla radiolina e la stufa microscopica a scaldare la celletta. Lo saluto con un
cenno del capo, lui muove le labbra, ma non capisco cosa dice, sento solo il
ronzio soffuso della radio. Salgo le scale, con il cuore che accelera, motore
ingovernabile di emozioni. Il corridoio è buio e lungo, luci spente. Cammino
lentamente, e cerco di riprendere fiato. Gambe pesanti, passo strascicato,
pensieri, vortici di idee e sensazioni, polso che batte, testa che pulsa.
Ambrogi: in caratteri rossi sull’etichetta metallica.
Porta socchiusa, voci in sottofondo. Busso e il pugno contro il legno mi fa
quasi male.
“Avanti”, invita una voce calda e
gentile. Spalanco la porta e una bambina con un cappottino rosso, imbacuccata e
sorridente mi viene incontro, traballante su gambe esili e vivaci. Sbatte
contro uno spigolo e il sorriso si trasforma in un’espressione rugosa,
spaventata e triste: urla e piange, improvvisamente scarlatta quasi quanto il
cappotto. Resto immobile e mi sento in colpa, come se avessi causato io quel
piccolo incidente. Una donna alta, elegante in un tailleur nero, si precipita a
recuperare la bimba e la prende in braccio, carezzandole la testa:
“Non è niente, amore. Non è niente”
Ambrogi mi osserva sorpreso. La donna gli
porge la bambina:
“Vero papà che non è niente?”
Ambrogi distoglie lo sguardo e rabbonisce la
piccola con una pacca sulla testa:
“Non è niente” riesce a dire, con
voce strozzata e preoccupata.
Sono tutti e tre così vicini, colti dentro
l’unico raggio di luce che riempie la stanza in penombra, perfetti, uniti a
incastro fra di loro, gomito contro pancia, testa contro spalla, tela senza
cornice di valore estremo.
“Scusi professore, non volevo
disturbarla …”
“Si figuri, signorina”
“Le ho portato gli ultimi appunti per la
tesi”, dico, quasi con le lacrime agli occhi e la mano in borsa per tirare
fuori i fogli spiegazzati.
“Ha fatto bene”
Gli tendo i pezzi di carta, lui li prende, la
bambina guarda i movimenti con occhi grandi e lacrimosi. La donna fa per
uscire.
“Passo dopo, amore. Fai con calma”
Sto per dire no, scusi tanto, sono passata
giusto un attimo per gli auguri di Natale e non volevo essere indiscreta e non
pensavo che avrei trovato la famiglia riunita e non volevo che la bambina
sbattesse la testa, ma non ci riesco, resto muta con l’espressione più idiota
che mi ritrovo. La donna esce e lascia la porta aperta, non so perché non la
chiude, ma sento i passi sui tacchi alti che si allontanano, sento il respiro
incerto della bambina farsi sempre più indistinto.
“Siediti “, mi dice Ambrogi, e di
colpo è di nuovo lui, sicuro e arrogante, con il naso diritto, gli occhiali
dalla montatura bianca e trasparente, i capelli folti e leggermente brizzolati.
Mi siedo, poi mi ricordo del pacco e di quanto tempo Marco ci ha messo ad
incartarlo, allora lo tiro fuori dalla borsa e faccio un sacco di rumore tra la
busta di plastica e la carta spiegazzata che lo avvolge. Glielo porgo, tesa in
avanti, accaldata nel piumino e piena di tristezza improvvisa.
“E’ per lei, un pensiero …”
Lo prende, sorpreso, e quasi mi sfiora le
dita, la cattedra tra di noi, fogli e penne, un computer vecchio e polveroso.
“Non dovevi disturbarti, Serena”
“Non mi sono disturbata”
Lo osservo mentre cerca di scartarlo, la sua
fede giallo oro brilla nella penombra, gli occhiali coprono palpebre mature.
Viene fuori e lo vedo proprio come l’ho visto quella sera con Marco camminando
per il centro, sotto la pioggia: è stupendo, un porta pipe in legno, pura noce,
mi è costato un occhio, ma anche a Marco piaceva.
“Sei sicura che vuoi spendere così
tanto?” mi aveva chiesto guardandomi negli occhi, sorpreso.
“Non è poi così tanto” avevo
risposto, quasi infastidita.
Ambrogi si toglie gli occhiali, è senza
parole, ride e si vede che è felice o compiaciuto o orgoglioso del potere che
ha su di me.
“E’ bellissimo, grazie” e si alza,
fa il giro della cattedra. Allora mi alzo anch’io, il cuore mi batte. Poggia
una mano sulla mia spalla, l’altra su un fianco e mi attira a sé, mi dà un
bacio sulla guancia e me ne dà un altro anche, ma non proprio sulla guancia, un
po’ anche sulle labbra, sento la barba pungermi la pelle, sento il contatto e
il calore del suo corpo e vorrei che questo attimo non finisse più, vorrei
sprofondare nella sua giacca, nel profumo di colonia e restarci eternità di
secondi infiniti. Ma lui è già ad un metro da me, staccato. Resto in piedi,
protesa verso di lui, desiderosa del suo abbraccio.
“Prego”, riesco a rispondere,
sudata e triste, il cuore gonfio di parole non dette. Poi entra la moglie, e la
bambina corre verso il padre, ma non sbatte da nessuna parte. Lui la prende in
braccio e le dà un bacio sulle labbra. La moglie mi sorride, sembra dirmi – Hai
finito? -. Si ho finito, mi stringo nel piumino, anche se in realtà vorrei
togliermelo e spogliarmi nuda del mio dolore e del mio calore. Mi sistemo la
borsa e mi avvicino alla porta.
“Buon Natale professore” sussurro
con un filo di voce, ma lui è distratto da strati di amore per la figlia.
“Auguri anche a lei signorina – mi dice
guardandomi con fare distratto – Correggerò i suoi appunti. Ci vediamo a
febbraio”
“Si”
“Buon Natale” mi dice la moglie
sorridendo con occhi straboccanti di felicità e pacchi regalo.
“Buon Natale, signora” rispondo.
Esco e chiudo la porta e intorno a me è di nuovo tutto buio, solo che adesso la
borsa pesa di meno e fuori piove. Passo davanti a Goffredo, sempre appiccicato
alla sua radiolina.
“Buon Natale” gli dico, ma non mi
sente e non risponde, cieco ai rumori e alle persone.
Mi fermo un attimo prima di uscire
all’aperto: pioviggina, acqua fine e fastidiosa che si appiccica agli abiti e
ai capelli. Cammino in silenzio sotto la pioggia, attraverso la strada senza
traffico, senza gente e senza bancarelle. Sotto la metro strizzo il piumino e
tiro giù il cappuccio fradicio, libero i capelli umidi e già sporchi. Sui vetri
della cabina di controllo cartelli colorati e scritte rosse di auguri e buon
natale. Davanti a me un signore grasso chiuso in un impermeabile marrone si
asciuga la testa calva e tiene in mano un bustone pieno di doni. A destra un bambino
mi fissa con occhi giganti e scuri. Quando mi fermo ad osservarlo, distoglie lo
sguardo e si nasconde dietro la madre. Sulla banchina una zingara mi chiede dei
soldi ma neppure la vedo, la sfioro indifferente. Salgo sulla metro e mi sembra
di trascinare ad ogni passo tonnellate di pesi, mobili bagnati di acqua e
sofferenze. Mi siedo e aspetto la fermata e ripenso a quella volta che Ambrogi
mi ha accompagnata sotto casa perché era arrivato in ritardo al ricevimento ed
io ero rimasta ad aspettarlo nonostante fosse pieno inverno e dopo le cinque
era già buio pesto.
“Ti accompagno, ti accompagno” aveva
insistito in un modo tale che non avevo potuto e non avrei voluto rifiutare.
Scendo dalla metro e un vagabondo suona una canzone natalizia in mio onore, mi strizza
un occhio e mi sorride, ma ha le mani sporche e forse stasera non porterà doni
ai propri figli. Passo oltre e mi torna in mente il bacio che Ambrogi mi ha
dato una volta all’uscita della biblioteca comunale: io ero rimasta di sasso
perché proprio non me l’aspettavo. Arriva il treno e lo prendo e non c’è nessun
capostazione ad augurarmi buon Natale. Dentro il vagone ho caldo, mi sbottono
il piumino e penso a quando Ambrogi mi ha portato a cena fuori in quel
ristorantino sul lago, a tutta la roba che abbiamo mangiato e a quanta fame
avevo e a come non mi importasse niente della dieta in quel momento. Ricordo
quella sensazione di felicità che pensavo non potesse esistere in nessun cuore
e in nessun angolo del mondo e in nessuna parte della terra o dello spazio o
dell’universo. Guardo il paesaggio che scorre rapido al mio fianco e la pioggia
che solca il vetro del finestrino appannandolo in tanti puntini irregolari e
opachi. Scendo dal treno e il freddo mi riporta sulla strada, l’asfalto è
bagnato e piove forte ora. Tiro su il cappuccio e cammino veloce verso casa, il
mio palazzo è pieno di luci e festoni e presepi e scritte colorate. Apro il
portone e Marco sta preparando la valigia, ha messo fuori anche i miei
maglioni. Mi viene incontro.
“Sei tutta bagnata”
“Piove”
“Gli è piaciuto?”
“Si”
Mi da un bacio e mi sorride a un centimetro
di distanza e penso al bacio di Ambrogi a mezza bocca e ho gli occhi pieni di
lacrime.
“Che c’è?”, mi dice Marco.
“Niente” e lo abbraccio stretto e lui anche,
più forte del solito. Poi tiriamo fuori le buste con i regali, li contiamo
ancora una volta, prepariamo i bigliettini d’auguri: per papà, per mamma, per
Luigi, per Francesca, per nonna, per Marco, per Serena … Riempiamo buste e
valigie, borse e zaini e lasciamo tutto vicino alla porta. Marco cucina un po’
di pasta con panna e piselli e
festeggiamo da soli la nostra vigilia. Lo ascolto chiacchierare mentre mastica
e lancia occhiate curiose alla televisione accesa. Non ho fame e non ho sete. E
non ho voglia di partire e di rivedere mia madre e mio padre e di scartare i
regali e di fare finta che mi piacciano e dire è bellissimo grazie tanto. E non
voglio stare davanti al caminetto a giocare a tombola con tutti e andare alla
messa di mezzanotte e pregare ancora per essere felice. Marco parla e
sparecchia e lava i piatti e prepara i biglietti del treno e alla fine tutto è
pronto, anche noi con il cappotto e l’ombrello. Mano nella mano, persi tra la
folla, appesantiti dai bagagli camminiamo, chiusi nei soprabiti e nei pensieri.
Arriviamo a Napoli che è notte, papà ci aspetta al binario, sorride ed è felice
di rivedermi, gli do un bacio e il cuore mi si riempie di non so cosa, misto a
dolcezza tristezza. Papà chiacchiera e
ci racconta che mamma ha preparato antipasto di pesce e pasta al pesce e
fritture di pesce e aperitivi alcolici. Marco ride insieme a papà e gli
brillano gli occhi per la fame. Fa meno freddo che a Roma e l’aria è più
pulita. A casa mamma mi stringe e profuma di aglio e rosmarino. La abbraccio e
mi si riempiono gli occhi di lacrime.
“E che fai piangi?”, mi dice mentre Luigi e
Francesca mi prendono in giro, anche se sono felici perché sono arrivata in
tempo per il cenone e perché il treno non ha fatto ritardi. Luigi si appiccica
a Marco e gli fa mille domande sul pc nuovo che gli hanno regalato. Marco
risponde, ma lo so che è stanco per il viaggio e preferirebbe rilassarsi.
Arrivano gli altri, nonna e zia Cristina con zio Mauro e i cugini. Mi sorridono
come se non mi vedessero da secoli. L’albero di Natale mamma quest’anno l’ha
comprato vero ed è bellissimo, grande ed alto, riempie il salotto e profuma di
verde e natura. Fuori è buio, il cielo è nero come la pece, ma qui ci sono luci
accecanti e tutti mangiano, chiacchierano e ridono.
Poi squilla il cellulare e sul display leggo
Ambrogi, allora mi sbrigo a mandare giù l’ultimo boccone e vado di corsa in
cucina a rispondere.
“Pronto”
“Ciao. Volevo darti i miei auguri, scusami
per oggi, sono stato un po’ freddo”
“No, non è vero …”
“Allora divertiti, e mangia”
“Anche lei, tanti auguri”
“Ciao Serena”
“Ciao, grazie”
Attacco e mi resta questo telefono in mano e
mi sembra così piccolo, chiuso nel palmo tremante. Torno a tavola, ho fame e il
cuore caldo e non lo so perché, ma mi viene da ridere e sorridere e mi piace il
Natale e questa cena e queste persone. E ho voglia di chiacchierare e di
scartare i regali. Sorprendo Marco a guardarmi, serio, come incantato. E’
chinato leggermente in avanti e ha
l’ombra del naso su una guancia quando si gira a darmi un bacio.
7 ottobre 2006 alle 10:35 am
Grazie Stefy. E’ bellissima…
7 ottobre 2006 alle 2:49 pm
Ciao Stefy, leggere il tuo racconto è stato divertente…la storia ha del triste.
9 ottobre 2006 alle 1:53 pm
Emozionante. Si respira ag ogni rigo il dolore della protagonista per questo amore sul quale non ha alcun diritto. E riesce a mettere in evidenza in maniera chiarissima uno dei bisogni primari dell’uomo: amare ed essere amati.
10 ottobre 2006 alle 7:27 am
Amore è quando manca, amore è quando c’è e non lo vedi, amore è sentirlo dentro in ogni momento. E’ bellissima Stefy …….
10 ottobre 2006 alle 4:05 pm
Interessanti i personaggi e bello il dettaglio del personaggio di Serena. Un racconto davvero molto ben fatto e coinvolgente.
13 ottobre 2007 alle 7:26 am
hai una maniera di esprimerti che mi giunge famiilare…..mi piace