Stefy

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TEVERE DI SANGUE

Pubblicato da stefy il 2 agosto 2007

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Lei è seduta sul muretto grigio dell’università, quello davanti alla facoltà d’ingegneria e indossa un foulard blu scuro che le copre la testa per metà, quasi lo abbia poggiato casualmente un attimo e se lo sia dimenticato. Mangio il mio panino anti stress, uno di quelli super imbottiti, con mortadella e pancetta che domani mi riempirà il viso di brufoli e aggiungerà grassi tossici. Non la guardo perché non guardo mai le ragazze visto che a mia volta non vengo mai notato o preso in considerazione. Sarà per colpa del mio fisico robusto o per i miei denti storti. Però mi sembra proprio che lei non faccia altro che tornare ad osservarmi ogni volta con occhi sempre più curiosi, quasi a divorare il panino con lo sguardo. Di colpo vorrei trovarmi in un’altra situazione, che so, magari in corsa su una moto, o a leggere, o anche solo a chiacchierare con qualcuno. Il fatto di starmene qui da solo in un angolo a mangiare paciosamente pane e mortadella rovina l’interesse eventuale che lei potrebbe avere per me. Ad un certo punto si alza e viene proprio verso la mia direzione: è magra, quasi consumata all’osso, il foulard le scivola dalla testa, scoprendole i capelli neri e folti.
“Ciao, ma tu sei Manolo?” mi chiede con voce di miele.
“No … Io sono Luca”
“Ah scusami, somigli in modo identico ad un mio amico”.
Ho paura che ritorni al muretto, allora mi alzo e non importa se faccio cadere le molliche sulle sue scarpe. Le tendo la mano:
“Tu come ti chiami?”
“Chiara” risponde sorridendo e il cielo diventa più blu.

La radio esplode rumorosa nella stanza: il silenzio viene rotto così d’improvviso che sbarro gli occhi spaventato e con il cuore in gola. Corro con la mano ad abbassare il volume, sveglio all’ennesima potenza.
“Ed ora gli ultimi aggiornamenti notturni di Radio City”
Sbuffo, pronto a cambiare stazione.
“Ancora nessuna notizia del killer che a Roma in tre settimane ha ucciso quattro giovani facendone ritrovare i cadaveri martoriati lungo la sponda nord del Tevere …”.
Spengo la radio e mi siedo sul letto, la testa che pulsa. Troppo fumo, devo smettere, almeno adesso che ho gli esami. Accendo il cellulare, le tre e un quarto, poi mi ricordo: ho il suo numero, me lo ha dato lei, mordicchiandosi un labbro e tirando su il foulard. Avvio il pc, sfoglio un libro, prendo la birra, la brocca con il caffè e cerco di non pensare. Com’è che si chiama? Chiara, si, mi sembra Chiara. Apro una sprite e il rumore della lattina rimbomba nella stanza vuota. Mi ha detto: chiamami no? Si, ha detto proprio così. Ma adesso è tardi, domattina è meglio. Però posso provare, magari è sveglia. No, devo studiare. Però forse ha il cellulare acceso. No, dormirà. Ma si, solo uno squillo. Faccio lo squillo. Squilla, il cuore prende a battermi rapido. Lascio squillare. Uno, due, tre, sto per attaccare, ma lei risponde, voce di miele:
“Pronto?”
“Ciao … sono Luca, ti ricordi? Ci siamo conosciuti …”
“Ciao!!”
“Ti disturbo? Dormivi?”
“No, no”
“Pensavo di essere l’unico ad essere sveglio”
“E invece siamo in due. Sono una nottambula, da sempre.”
“Che fai in piedi a quest’ora?”
“Leggo. E tu?”
“Io dovrei studiare”
“Ci riesci?”
“In realtà non più di tanto”
“Perché non vieni da me? Ci facciamo compagnia”

Detto fatto. Sono già sul motorino, indirizzo stretto nella tasca del giubbetto di jeanz, aria tersa che mi fa lacrimare gli occhi. Tuttocittà a memoria, cartina sbiadita e spiegazzata. Centro deserto, palazzi muti dalle tapparelle abbassate, rumoreggio indiscretamente fra vie desolate e silenziose. Do gas più che posso, incredulo per l’appuntamento insperato, desiderio di una vita realizzato di colpo senza preavvisi. Rido beato mentre l’aria mi riempie i polmoni e non fa niente se mi viene da tossire e se la notte si fa sempre più buia e se le strade diventano strette e sconosciute e se i lampioni scompaiono all’orizzonte. Rallento un poco, avvolto da nebbia e umidità e cerco di distinguere la via che percorro illuminata solo dal faro opaco del motorino. Alla mia destra il fiume scorre muto, casa di topi e zanzare. Sento il lieve movimento dell’acqua che si infrange gentile contro la spiaggia erbosa. Immagino pescatori imbacuccati e zattere sgangherate sul filo della riva. Raggiungo la strada indicata da Chiara, un sentiero sterrato e ciottoloso, costeggiato da sterpaglie e erba incolta, appoggiato di sbieco sul lato sinistro del Tevere. Parcheggio il motorino accanto ad un masso bianco e mi tolgo il casco: davanti a me un palazzo alto e spoglio, finestre senza serrande, vetri sigillati, nessun’auto in giro, solo silenzio e vuoto. Ha tutta l’aria di essere uno di quei palazzoni adibiti ad ufficio ancora in costruzione. Rintraccio il numero civico e citofono. Il portone si apre. Quinto piano, senza ascensore, corro rapido nel buio labirintico della palazzina e nessun rumore accompagna la mia salita, solo l’eco ambiguo dei miei passi sui gradini. Arrivo al pianerottolo senza fiato, Chiara è in piedi sull’uscio di una porta.
“Ciao” mi saluta, sorridente. Ha i capelli sciolti e lunghi, divisi a metà da una riga perfetta e regolare.
“Ciao” rispondo con voce strozzata. Mi fa entrare e chiude la porta dietro di me: maniglia di metallo, niente blindatura, puro legno, noce leggero.
“Vivi qui da sola?” le chiedo.
“Si”
“E non hai paura? Il palazzo sembra vuoto”
“E’ vuoto. Ma io non ho paura di niente”
Sorrido e mi osservo riflesso nello specchio a forma di luna davanti a me: non mi sono neppure pettinato, ho i capelli arruffati, il naso gigantesco e rosso, gli occhi troppo scuri su questo viso pallido. Distolgo lo sguardo, ma qualcosa mi si è chiuso dentro, una sensazione improvvisa di inadeguatezza, mista a tristezza. Chiara mi prende per mano e mi porta nella sua camera: pochi mobili, stanza vuota e ampia, un letto matrimoniale, un tavolo di legno. Al muro poster di streghe con cappelli lunghi e vellutati, notti stellate e planimetrie geometriche. Chiara spegne la luce e l’ambiente resta illuminato dalla lampada fioca poggiata su una specie di comodino ferroso e rugginoso. Mi appoggio sulla sponda del letto senza sapere bene cosa fare, lei sorride e si siede per terra davanti a me, a gambe incrociate.
“Ti faccio le carte?”
“Come?”
“Ti faccio le carte, dai.”
Si alza di scatto, apre l’armadio e tira fuori un pacchetto scuro avvolto in un panno nero. Torna a sedersi di fronte a me, questa volta in ginocchio. Mi invita a scendere dal letto. Non credo in questo genere di cose, sciocchezze per ragazzine. Ma lei è straordinariamente seria e tesa. Mischia le carte con gli occhi chiusi, il sorriso scompare dal suo volto. Poggia il mazzo per terra e comincia distribuire le carte in senso antiorario. La luce le fascia il collo rigandole le gote in linee verticali, l’ombra del naso le scende sulle labbra e le cambia i lineamenti. Sudo, improvvisamente accaldato nella stanza troppo grande. Non trovo la posizione giusta mentre lei resta in attesa sospesa tra pensieri e parole. Le osservo le mani, dita affusolate e rigide, nocche nodose di vecchia. Distolgo lo sguardo e torno a fissarle gli occhi chiusi in una linea unica e morbida. Poi con un gesto rapido scopre la prima fila di carte: corruga la fronte in mille pieghe vecchie di secoli. Scopre la seconda fila di carte e gli occhi diventano fessure invisibili, il nero delle pupille si mischia nel buio della camera.
“C’è sangue intorno a te”
“In che senso scusa?”
Sfiora con un dito le carte:
“Qui, vedo sangue, è rosso vivo, ti circonda, vedi?” e indica una carta dalle forme indefinite. Continuo a sudare.
“Non capisco” balbetto, incerto, ma lei non mi bada e scopre l’ultima fila di carte: è seria, scura in volto come se un velo fosse piombato dal cielo a coprirle la vita. Disfa le carte, nervosa. La guardo con aria interrogativa:
“Bhè? Che mi dici?”
Si alza e rimette tutto a posto. Mi alzo anch’io. Lei mi viene vicino e sorride, come se nulla fosse stato: la pelle è nuovamente chiara, strati leggeri di lentiggini e nei. Inaspettatamente posa le labbra sulle mie: la accolgo impreparato e sento che non può essere, la sua bellezza contrasta con la mia goffaggine, non ci incastriamo, il suo corpo non si adatta al mio. Cigno contro anatroccolo. La stringo lo stesso e premo le labbra sulle sue, grandi e leggermente dischiuse. Non so per quanto resto così, immobile accanto al suo corpo caldo e bello, covo di sogni e desideri. Lei si stacca e sorride ancora, denti bianchi e perfetti. Mi passo le dita fra i capelli e sono troppi, li sento, me ne ricordo, faccio due passi indietro, spaventato da me e da lei.


Finiamo nel letto e la ascolto chiacchierare e conto i minuti e i secondi e la notte non passa più, secoli di storia si smuovono lentamente ma voglio vedere le stelle e non posso, voglio darle un bacio ma già dorme e di colpo ho sonno anch’io, allora chiudo gli occhi, ma li riapro subito perché mi sembra che la porta si apra. Balzo a sedere rigido e teso e così sudato che non capisco perché. Torno a stendermi, è stata solo un’impressione, tutto è buio e tutto è fermo e tutto è silenzio e il palazzo è vuoto e lo ha detto anche lei, non c’è bisogno di avere paura. Sto per riaddormentarmi ma qualcosa scricchiola nell’ingresso e mi ricordo di colpo che la porta è così leggera, basta un colpo di spalla e la butti giù. E il palazzo è vuoto. Sudo e sudo e non connetto e non vedo, spirali di buio e di vuoto attorno a me, silenzi di tomba che si rincorrono violenti negli atomi dell’aria. Mi giro lentamente e faccio attenzione a non svegliare Chiara, voce di miele, naso diritto ed elegante, labbra grandi e carnose. Ma c’è quel rumore che viene dall’ingresso e non mi convince, non è la mia immaginazione. Adesso si ripete ed è secco, un po’ strusciato: passi, certo sono passi, uno dopo l’altro, e si avvicinano e non è un errore, non è suggestione, e li sento più nitidamente, non c’è dubbio.


Porca miseria Chiara svegliati, vorrei gridare, ma ho paura di essere ridicolo e fare la figura dello scemo. Lei dorme beata, rannicchiata contro di me e non c’è niente che la turbi, eppure non posso muovermi, resto fermo paralizzato in questo letto di spine e umori incatenato a fobie e paure incomprensibili. La porta è aperta perché di colpo fa freddo e si respira meglio, c’è più aria e una brezza fresca mi asciuga il sudore sulla schiena. Riesco a sedermi e vorrei svegliarla ma non posso, ho le mani paralizzate, il corpo irrigidito. Non sono passi, sono macigni che risuonano e rimbombano e sveglierebbero un morto, eppure Chiara è lì che dorme e dorme e non accenna ad aprire gli occhi. La stanza si illumina leggermente e non posso crederci, ma davanti a me, anzi a noi, c’è una forma scomposta grande e grossa, è un uomo, un ladro, un assassino, non lo so, ma mi è davanti, è proteso o chino su di noi e ha un mantello e puzza come un barbone. Allora grido e tiro fuori l’aria di tutto il mio corpo, fuori dai polmoni e non ce la fa a passare tutta dalla bocca, allora esce un po’ anche dalle orecchie e dal naso e dagli occhi e urlo più che posso come mai ho gridato in vita mia. Chiara balza ritta a fianco a me e urla più di me.


L’ombra ci coglie in pieno, enorme e gigantesca, immensa, passa su di noi, afferra Chiara, la trascina per terra strappandole lembi di cuoio capelluto, forte e violentemente, più di quanto la mia mente riesca ad immaginare. Chiara finisce a terra, il suo corpo stride contro il pavimento e l’ombra si schianta su di lei a morsi, denti gialli e spezzati, aguzzi, color avorio di squalo. Sento il fruscio della carne lacerata e voglio intervenire, porca miseria ma non ce la faccio. E penso al sangue che proprio lei ha nominato e vedo il sangue tingere di rosso la luce gialla della stanza e non lo confondo con il nero dell’ombra. Chiara striscia sul pavimento e si incaglia nelle fessure delle mattonelle, sembra liquefatta davanti all’ombra che la sovrasta. Mi alzo non so come e raggiungo un pezzo metallico al mio fianco e lo lancio contro l’ombra e non ci credo neppure io che lo sto facendo, non credo che mi sta succedendo tutto questo. L’oggetto colpisce dritto e forte, finisce contro la nuca dell’intruso, Chiara è un ammasso di sangue a terra, braccia scomposte e dita sfracellate. La guardo e non mi accorgo dell’ombra nera che mi vortica davanti, sento solo un ruggito roboante, grido che spezza la città, distrugge vetri e palazzi, e sento un dolore, una fitta rapida e improvvisa, acuta sotto l’ascella, come un braccio che si spezza, ma è così, è realtà, non c’è più e il mio arto giace a terra, ma non c’è sangue intorno a me. Spalanco gli occhi incredulo, senza dolore vado verso il braccio ma non posso muovermi, tremo e sudo ancora, anche se ho freddo e tira vento. Chiara si accascia in un gemito per terra, definitiva e disordinata, capelli sciolti e strappati, l’ombra la calpesta silenziosa e minacciosa, un calcio, due, tre, grido pieno di orrore e incomprensione, deluso, amareggiato, spinto verso la vita e la salvezza.


Grido e urlo e mi dibatto e apro gli occhi ed è di nuovo buio e sono sdraiato e Chiara è davanti a me che mi fissa con occhi stanchi e assonnati. Mi siedo e mi tocco il braccio, non c’è odore di sangue, fa caldo e sono sudato fradicio e sono io che puzzo, e Chiara è viva.
“Che hai?” mi dice con voce infastidita.
Mi tocco i capelli appiccicati alla fronte.
“Scusa, non volevo. Un incubo”
Si sdraia di nuovo, scocciata:
“Mi hai fatto prendere un colpo”
Respiro, immetto aria nei polmoni. Lei si muove sbadata al mio fianco, cerca i miei piedi, li trova. Mi giro a guardarla: nel buio i suoi occhi brillano come stelle, troppo vicini ai miei. Percepisco il calore del suo fiato su di me, è sveglia e presente. Si accoccola di lato e mi sfiora i capelli con le dita: sorride serena. Le tocco le spalle e sento dolcezza sulla sua pelle, sale e amore. Ci abbracciamo e dimentico fantasmi e spettri, sento solo il calore del suo corpo contro il mio. Mi bacia e tocca appena con un braccio il mio petto, sento le sue gambe sulle mie. Perdo per un attimo l’equilibrio, investito da labbra e labbra, cado nel vortice di sensazioni estreme, quasi dimentico del mio essere. Non so per quanto tempo resto sotto di lei, ammaliato dal suo profumo, perso dentro a chilometri di capelli neri, mascella contro mascella. Deglutisco e sorrido e annuisco e tocco il cielo con un dito e respiro piano per non fare rumore e non disturbare non so chi. Ci addormentiamo abbracciati e vicini.

Quando apro gli occhi è ancora buio, ma sento l’odore dell’alba nell’aria. Mi alzo e mi infilo le scarpe, cercando di non svegliare Chiara. Cerco il mio giubbetto, trovo le chiavi del motorino. Chiara si muove, angelo bianco nel letto disfatto. In punta di piedi raggiungo l’ingresso, ma davanti allo specchio mi sembra di intravedere macchie rosse sui vestiti e sui capelli, impronte indelebili di sofferenza. Torno indietro a specchiarmi con il cuore in rapida accelerazione, ma sono sempre io, Luca de Agostini, capelli folti e arruffati, brufoli di troppo, naso indecente e inopportuno. Scendo le scale lentamente, cercando di tenere gli occhi aperti anche se casco dal sonno. I miei passi riecheggiano sinistri nel palazzo vuoto. Raggiungo il motorino in pochi attimi, è ancora lì, tristemente parcheggiato accanto al masso argenteo. Umidità nell’aria, atomi che si appiccicano ai vestiti e all’anima, pulviscolo di acqua dolce evaporata e cristallizzata. Infilo la chiave nella toppa e do gas: il rumore del motore mi riporta alla realtà. Guardo l’asfalto e il suo colore mi riempie di familiarità. Giro e torno indietro, percorro la strada sterrata a venti all’ora, mentre il vento sulla pelle mi sveglia poco a poco. E’ bella, incredibilmente bella, penso accecato dal buio. Raggiungo una via asfaltata, un lampione ogni duecento metri, sempre meglio di niente. Cerco di ricordare a memoria la strada, ma ho la mente annebbiata, i pensieri si attorcigliano confusi intorno al mio cervello, strati di polvere e caos misti a immagini sfocate. Accipicchia se è bella. E mi sembra incredibile averla baciata, impossibile averle parlato, averla sfiorata.


Seguo il fiume alla mia destra, do gas e do gas, il percorso è interminabile, chilometri su chilometri, millenni di strada e la notte che non finisce ma torna implacabile, sole che non vuole sorgere, alba maledetta. Cerco di destreggiarmi tra i viottoli bui, ma non mi oriento, accelero impaziente e desideroso di sonno. Il silenzio si fa assordante, mi trafigge le orecchie. Non riconosco alberi né palazzi, intorno a me tutto è straniero. Respiro piano, cerco di controllare il mio battito, ma invano. Resto in equilibrio precario sul motorino e brividi mi percorrono la spina dorsale. Poi, di colpo, quel freddo, quella brezza gelida torna a raffreddarmi il corpo e l’anima, lava via il respiro in nuvole di vapore congelato. Resto teso e rigido sul motorino, mantenendo a malapena il controllo del mezzo. La nebbia mi avvolge improvvisa, bianca e fitta. Mi fermo, incapace di distinguere nulla davanti a me. Mi giro inquieto e mi sembra di intravedere nella foschia opaca un’ombra più scura, immensa, che avanza lentamente, eppure sempre più rapida finché incombe minacciosa e gigante prossima a raggiungermi. Cerco di mettere a fuoco ma non distinguo, non vedo, gli occhi accecati dall’invisibilità della notte. Calma, mi dico e so che è tutto assurdo e impossibile. Calma, mi ripeto, ma ho già perso il controllo: il motorino scivola di lato e finisco sull’asfalto che mi grattugia la guancia. Mi rialzo frettoloso e tremante e mi sporco il bavero del giubbetto con il sangue dei graffi sulla gota.


Intorno a me silenzio, il nulla più totale, desolazione e buio. Rimetto in piedi il motorino, ma è andato, la ruota divelta, e non capisco come è potuto accadere. Poi intravedo la buca, cratere nella strada. Mi incammino a piedi, ma ho freddo, allora corro, ma qualcosa mi afferra per le spalle. Finisco a terra, ossa contro pavimento, duro e aguzzo. La carne si sgretola contro i ciottoli. Mi rialzo ma sono sempre per terra, inerte, senza forze. L’ombra è su di me, come nell’incubo, mi è dietro, ad un passo, sopra, mi avvolge, mi sovrasta, pesante e calda, fauci gialle come il fuoco, fiamme di dolore che penetrano carne e sentimenti. La luna esce dalle nubi e l’ombra assume contorni umani, braccia e gambe, viso e occhi. Coperta da un mantello pesante e invernale trasuda fatica e terrore, e trascina una lama dentata arrugginita e sporca. Tiro calci e sberle, ma non centro l’obiettivo, i lineamenti sono sfocati, il volto semi nascosto, quasi sfigurato e deformato da anni di dolore. L’ombra mi colpisce alla coscia, sicura e diretta, senza esitazioni. Punta poi alla gola, e mi ferisce la giugulare, pochi attimi e sono in un lago di sangue, il mio collo sorgente zampillante di liquido rosso vivo. Premo un dito sul taglio, ma non ho forze, mi stendo su un lato. Davanti a me il nero della notte, il barlume lontano di un lampione solitario. Non ho sensazioni quando la lama si avventa senza pietà sulle gambe e taglia, taglia, stridii di ossa e nervi, sangue e cellule spezzate in due. Non sento nulla quando chiudo gli occhi e scorgo l’ombra che se ne va, soddisfatta e sazia, senza sete e senza fame.

Fili di luce grigia si posano opachi sull’acqua, piccole onde si increspano mute e fluiscono gentili lungo gli argini. Il sole sorge lento sopra i tetti, primi raggi spenti e vivaci a illuminare strati di smog e polvere. Una brezza mattutina carezza dita scomposte, l’acqua del fiume lava ferite e strappi, sangue rappreso tra foglie e rovi. Sorvolo invisibile il Tevere e mi vedo nudo e spezzato, pelle avorio, occhi vitrei, collo senza polpa. Pendo a testa in giù, i capelli in acqua scapigliati più del giusto. Mi osservo dall’alto, immobile nel cielo, e aspetto che la luce porti verità e conoscenza. Lascio che una lacrima cada sulla terra ad asciugare pozzanghere di cristalli, fiumi di erbe e immondizie.

2 Commenti a “TEVERE DI SANGUE”

  1. fabio dice:

    I racconti Horror sono tra i miei preferiti. :) L’inseguimento è veramente angosciante… complimenti Stefy, mi hai fatto venire il fiatone! O_o

  2. Andrea dice:

    Ciao Stefy. E’ un piacere rileggerti :)
    Molto bella la storia. C’e’ giusto un “gota” che mi e’ parso un po’ forzato (un banale “guancia” forse era piu’ credibile). L’ultima frase e’ semplicemente splendida.
    Grazie per avercelo fatto leggere.

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