LA MIA LUCE
Pubblicato da suddenhush il 27 febbraio 2008
- Lo sai che sei proprio una maialina?
Annie rideva. Non aveva smesso di ridere un secondo, da quando l’avevo conosciuta. Una risata da oca vampira, con quel curioso canino appuntito che si ritrovava appeso alle gengive. Era proprio in prima fila, sotto il palco, con una t – shirt così consunta che non avevo certo faticato a indovinare il maculato del suo reggiseno. Figuriamoci. Il pensiero di slacciargli quel paracadute di pizzo, di far precipitare nelle mie mani quelle boe di plastica, mi aveva puntellato i nervi per buona parte del concerto.
Sold out. Anche stavolta.
Cazzo.
Fino a cinque anni fa avrei spedito a calci in culo la mia esistenza di latta lontano dal mio spirito, che ho sempre saputo di un altro mondo. E poi… il miracolo. Gli “Shut up, Brain!” primi in classifica, grazie ad un pulcioso spot, che seminava nelle case dell’intera nazione il nostro spasmo musicale. Ripescato il singolo, fu riscoperto anche “I said three”, il nostro album d’esordio, pubblicato tre anni prima e bellamente ignorato da tutti, compreso mio padre. Boom. Non c’era show, talk o spettacolino della domenica che non ci chiedesse l’onore di portare lì il nostro delirio.
Così, dall’oggi al domani.
Ci spedivano negli hotel più schifosamente principeschi, di quelli che gli manca solo la tavoletta del cesso di diamanti.
Non sapevo se Annie fosse attratta più da me o dal frontman dei S.U.B, anche se avrei propeso per la seconda ipotesi, esattamente come io ignoravo se mi eccitasse di più il pensiero di portarmi a letto una fan o di aggiungere “centoquarantuno” alla mia lista di vittime.
- Ma che hai da ridere, cretinetta? Pensi alle facce che faranno le tue amiche?
- Sei così sexy, Dave… E adoro i tuoi occhi…sono quasi viola!
- Basta stronzate, fammi vedere il reggiseno, che sono tre ore che me lo sogno.
Zazzera biondo platino, gambe un po’ corte, la faccia da collegiale nonostante i ventitré anni suonati. Quel dente acuminato mi disturbava, specialmente se abbinato al suono isterico della risata, ma dopo un po’ cessai di farci caso, troppo impegnato su altri fronti.
Quando ebbi finito, la gallinella dalle uovone di plastica si abbandonò tutta soddisfatta sul piumone color crema, spalancando gli occhi al soffitto, verso il lampadario di Swarovski, così pesante che ci avrebbe fracassato la testa, se si fosse staccato.
- Dovresti andare a lavarti, Annie. Puzzi peggio di una capra.
Ghiacciò. Si girò lentamente verso di me, sbarrando gli occhi, alla ricerca di un minimo cenno di scherzo o pentimento da parte mia. Nulla. Io ero impassibile, comodissimo nella mia screanzata posizione.
Lo dicevo a tutte. Avevo studiato ogni singola parola, previsto l’inserimento del nome della ragazza (con le sillabe sottilmente distaccate, per dargli più enfasi), e mi ero esercitato fino a raggiungere la perfezione nel tono di voce, mescolando disprezzo, saccenza e compatimento in un amalgama umiliante al punto giusto.
Sottolineare il suo cattivo odore è grave motivo d’offesa per una ragazza e pertanto rappresenta il sistema più sicuro, sebbene non infallibile (se trovi una donna autoironica devi ricorrere ad altri sistemi) per liberartene. Quand’ero pivello ero più facile all’inganno e poteva finire che, al termine della serata, la ragazza lasciasse la suite col mio numero nella borsa di Prada o nella tasca dei jeans. Ma adesso non volevo illudere nessuna, tanto più che quelle papere m’erano solo d’impiccio.
Meglio che lo sappiano: io amo. Io sono pazzamente e totalmente innamorato di un’altra persona. Una persona che nulla ha a che fare con loro. Una persona che tradisco continuamente, lo so, ma perché il mio corpo fa quello che gli pare, senza che il cervello gli firmi permessi.
Ho lottato.
Ho lottato per evitare che accadesse. Farla soffrire è l’ultima cosa al mondo che permetterei. Ma la mia Luce mi ama allo stesso mio modo e mi perdona ogni cosa. Quando rientro in casa, lascio tutto alle spalle, nella vacuità senza ritorno del passato e mi dedico solo e soltanto ad amarla.
Nella luce fumogena e sanguigna dei locali, mentre porto alle labbra la mia Guiness, lancio lo sguardo oltre i corpi intrecciati degli uomini e delle donne e m’immagino che quel vetro satinato, freddo e caldo insieme, sia la sua bocca, schiusa e dolce come un giardino d’acqua. E sento il suo odore abbracciarmi, infilarsi tra le dita, penetrare la mia aura ed attaccarsi a me.
Se solo sapessi quanto ti amo.
Vorrei correre a casa e dirtelo, leccarti il viso, far correre le mani nella tua bella chioma corvina, massaggiare i lobi di velluto delle tue orecchie minute, punteggiate dai brillanti dei tuoi piccoli orecchini. Ma non mi segui mai. Rimani ad aspettarmi, in silenzio.
La musica è assordante, persino per me che dovrei esserci abituato. È il locale più in del momento, qui a Londra. I cadaveri deambulanti delle modelle spuntano spesso e volentieri da queste parti, così come le facce gonfie e assonnate (ma non si chiama sonno) di qualche cantante in crollo o in ascensione. Non conosco nessuno ma saluto tutti. Passo il mio tempo con gli altri del gruppo: Colin, chitarrista, portatore sano di orecchio assoluto, Fred, detto Fried, bassista con la fissazione del tantra e Stewie, batterista, che si rifiuta di parlare da quando sua sorella ne ha perso la facoltà, dopo un cancro alla gola.
Il mio è un delirio in un corpo sano. Tarchiate, longilinee, prorompenti, acciughine, solari, inespressive, le donne mi piacciono tutte, troppo. Intravedere le loro gambe attraverso gonne di satin, percorrere con lo sguardo le forme che germogliano o s’inabissano lungo il loro corpo, mi fa impazzire.
Ma nessuna, nessuna si sarebbe intagliata in me un posto eterno; ero legno massello per tutte, che nessuna provasse a sostituire il suo ardore con quello del mio amore, il suo corpo con quello del mio amore, il suo amore con quello del mio amore.
La mia Luce, altro che queste disgraziate monotono, ha un timbro che mi entusiasma, mi eccita, mi fa brillare, esplodendomi dentro come un maestoso fuoco d’artificio, che sfumando oltre i grattacieli e le colline, mi lascia addosso la polvere di un desiderio incontrollabile… e allora la tocco, invadendo con i miei polpastrelli ogni porzione della sua pelle d’ambra e castagne, tremante e insaziabile come un amante ritrovatosi cieco. E ci amiamo, ci amiamo la notte intera, nel ghiaccio ruvido delle lenzuola albine, bevendo i riflessi d’argento di cui la luna ci macchia, filtrando, cerchio perfetto, attraverso i vetri.
Stasera è il turno di Samantha. È leggermente strabica, ma ha qualcosa che mi piace. Mi è venuta incontro con passo felino, strizzata in un costoso abitino bianco e ha cominciato a farmi le fusa, offrendomi il suo cocktail alla fragola dall’unica cannuccia e chiedendomi se fosse vera la voce che avessi avuto una relazione con Jessica Alba. Gli dico che non me lo ricordo e lei scoppia a ridere, scoprendo denti appena sbiancati, dal fievole riverbero azzurrino. Mi offre una sigaretta, le dico che di solito non fumo per non giocarmi la voce, ma l’accetto.
Mi guarda.
Mi piace essere guardato così.
Nel giro di un paio d’ore scarse, siamo nel letto di casa mia.
Mi rendo conto troppo tardi di non avere affatto voglia di lei. È strano. Non mi capita spesso.
Direi mai.
- Dave… che ti prende? Non sarai frocio?
Provo ad eccitarmi pensando alla mia Luce, ma è proprio la sua immagine a paralizzare il corpo di chi la sta tradendo. È inutile. Mi sopraffà senza pietà, mi svuota come una scatoletta, mi rincoglionisce come la matematica fa coi nerds.
- Il tuo odore. Non mi piace. – invento. Cazzo, non ricordo nemmeno la formuletta magica.
- Fottiti, cafone.
Con la fronte arricciata dall’indignazione, Samantha raccoglie il Dolce & Gabbana accartocciato sul fondo del letto, lo indossa in fretta, saltellando sul piede e, dopo avermi omaggiato di un dito medio, sbatte la porta della camera, con tutta la rabbia che ha in corpo.
Finalmente soli, Luce della mia vita.
Mi sollevo dal letto in fretta, in preda al desiderio di guardarti.
Mio Dio, la tua pelle d’ambra e castagne, le tue iridi quasi viola…
- Ti amo, Dave.
Copyright ©2007 Caterina Saracino
7 marzo 2008 alle 3:41 pm
Ciao suddenhush. Grazie per questo racconto. Inquietante il protagonista, viene quasi da compatirlo piu’ che odiarlo. Un paio di espressioni sono semplicemente splendide (tipo: “ghiaccio ruvido delle lenzuola albine, bevendo i riflessi d’argento di cui la luna ci macchia”).
9 marzo 2008 alle 1:57 am
molto originale e intrigante.
Complimenti
11 marzo 2008 alle 6:33 am
Mr. VINCI needed a bad credit auto loan with simplicity at http://www.nfsautoloan.com