RACCONTI CATANESI

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FIORI D’AUTOSTRADA – (Capitolo I)

Pubblicato da adb il 6 gennaio 2009

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INVIO AGLI AMICI LETTORI DEL SITO IL PRIMO CAPITOLO DEL MIO ROMANZO “FIORI

D’ AUTOSTRADA”

UNA STRUGGENTE STORIA D’AMORE AMBIENTATA IN UNA GRIGIA CATANIA DEGLI ANNI SETTANTA

Fiori d’autostrada

Capitolo I Erano circa le quindici quando uscìi dalla trattoria Gargallo a mare. Il lungomare di Schisò era ancora pullulante di turisti che sdraiati pigramente sulla sabbia si godevano il tiepido sole d’inizio autunno. Nel cielo colorato di un azzurro intenso alcune nuvole con i loro bianchi sbuffi disegnavano delle evanescenti figure geometriche. Con lentezza m’avviai verso la stradina secondaria dove avevo parcheggiato l’automobile. Sulla spiaggia dorata un abbronzatissimo capellone scherzava con una longilinea biondina. Il giovane schizzava ampi getti d’acqua sull’attraente straniera mentre vicinissima a loro una prosperosa signora dai capelli rossi tagliati cortissimi, con indosso un succinto bikini trasparente, usciva mollemente dal mare. Alcuni uomini seduti sul muretto prospiciente la spiaggia lanciavano sguardi vogliosi ed insinuanti verso le due donne. Svoltai l’angolo e m’accostai all’auto: era infuocata. Subito aprii entrambi i finestrini per fare uscire le vampe di calore, quindi collocai la voluminosa autoradio nello scomparto, sintonizzandola sulla trasmissione sportiva Tutto il calcio minuto per minuto. Pensai con rammarico all’incontro di calcio fra Catania e Palermo che in quel momento si stava disputando al Cibali: il biglietto di tribuna C comprato ieri  pomeriggio   giaceva ormai inutilizzato sul fondo del cruscotto come un insignificante foglietto di carta colorata. Dopo circa un’ora di viaggio giunsi in via SS. Trinità. La strada semideserta sembrava quasi addormentata nell’ovattato silenzio del mite pomeriggio ottobrino. Posteggiai l’auto nel garage e con calma salìi la rampa di scale, quindi un po’ intorpidito aprìi la porta d’ingresso. Nella casa persisteva l’odore pungente delle melanzane fritte e del basilico usato per condire la salsa di pomodoro mentre dalla cucina proveniva l’aroma fragrante del caffè espresso. I miei familiari erano ancora seduti a tavola ed ascoltavano assorti mia sorella Fernanda che, con un’eccellente mimica, raccontava un divertente episodio accaduto nel quartiere. Da un angolo della stanza, la televisione trasmetteva delle immagini in bianco e nero. In quel momento  un giovane cantautore romano, con la chitarra in mano, eseguiva un malinconico e struggente motivo. La canzone narrava di un ragazzo di provincia che fissando un poster turistico dentro una stazione della metropolitana, immaginava di andare in posti esotici e lontani. Sulla tavola ancora apparecchiata, oltre alle posate ed ai resti del pranzo da poco consumato, spiccava un vassoio di cartone impiastricciato di cioccolato e crema bianca con sopra gli ultimi superstiti dei dolci domenicali: due cannoli di ricotta, sbocconcellati ed ammaccati.  Mia madre, appena mi vide, si avvicinò contenta verso di me.  “Andrea, già di ritorno?”, domandò con apprensione. “ Non sei andato allo stadio?”“Ho avuto un piacevole contrattempo che mi ha impedito di assistere alla partita”, le risposi con allegra ironia. “Il profumiere Gargallo, dopo l’ordine, ha voluto a tutti i costi offrirmi il pranzo.”  “ Complimenti! Allora, hai fatto una buona commissione?”. “Ottima! Il sig. Gargallo aveva esaurito i miei prodotti e con la commissione d’oggi  ha assortito il suo negozio di Letoianni per la stagione autunnale. Il cliente inoltre è rimasto talmente compiaciuto della mia disponibilità che mi ha segnalato ad una sua collega di Taormina. Ho lavorato di domenica, ho rinunciato allo stadio, però sono veramente soddisfatto.” “Allora, ti meriti una tazzina di caffè!”.“Il caffè lo prepari tu?”. “Certo, lo sai che la domenica il caffè lo faccio sempre io!”.“D’accordo, se le cose stanno così, una tazzina l’accetto volentieri”, proferii, con un allegro sorriso.“Ed in quale ristorante vi siete recati?”, lei  chiese, curiosa.“Siamo stati a Schisò, nella trattoria in riva al mare gestita dal fratello del signor Gargallo. Si mangia veramente bene in quel posto: ci hanno servito numerosi antipasti a base di frutti di mare, una zuppa di pesce deliziosa, delle triglie freschissime e          dell’eccellente vino bianco dei paesi etnei.” “Sono veramente felice per te!”, esclamò soddisfatta. “Adesso vai a riposarti, ti chiamerò appena il caffè sarà pronto”. M’apprestavo a recarmi nella mia stanzetta, quando, vicino al balcone, notai l’insolita presenza di una ragazza di circa vent’anni che, seduta sul divanetto di vimini, guardava concentrata la televisione.  Tentai di scrutarla, ma stranamente non riuscivo a vederne le sembianze: sembrava come avvolta da un’ondeggiante coltre giallognola. Frastornato, distolsi lo sguardo dalla ragazza, soffermandolo sulla Tivù. Il giovane cantautore aveva terminato la sua esibizione e ringraziava il pubblico in sala con rapidi inchini. Dopo di lui apparvero delle ballerine che, canticchiando e muovendosi al ritmo di una canzone molto in voga, annunciarono l’entrata di un complesso musicale. Quattro musicisti sbucarono da dietro un tendaggio e sotto uno scroscio d’applausi, cominciarono ad accordare gli strumenti, quindi dopo  qualche minuto, iniziarono a cantare una bellissima canzone d’amore. Mi dispiace di svegliarti, forse un uomo non sarò…” Il motivo era di uno dei pezzi, di maggior successo del loro nutrito repertorio e la platea mostrava di gradire la loro esibizione. Terminata quella canzone il complesso cominciò ad eseguire il motivo già introdotto dal balletto: “Tu, questa sera stranamente tu, eccitata più che mai…”. A quelle note gli spettatori si alzarono in piedi, dando vita ad   un coro che subito coprì le parole del cantante.   Confuso, ripresi ad osservare la ragazza: lei continuava, con espressione rapita, a seguire l’esecuzione del gruppo musicale. Non riuscivo a fissarla bene: i raggi del sole, attraverso uno spiraglio della tenda, mi si riflettevano contro causandomi un accecante luccichio negli occhi. Vicino a lei si trovava un bambino d’età non superiore ai quattro anni il quale  mangiava con gusto un pasticcino. Ad un tratto la ragazza si voltò ed, accortasi che il bambino aveva la bocca impiastricciata di panna e cioccolata, s’ alzò dal divano, estrasse dalla borsetta un fazzolettino color ciclamino ed accostandosi al piccolo cominciò a pulirlo. Spontaneamente mi misi accanto alla giovane: la sua vicinanza mi provocò un’ intensa sensazione di felicità. In quel momento tutto m’appariva bello ed irreale; i colori erano tenui e sfuocati, l’ambiente rilassante e quieto, i suoni morbidi ed ovattati.“Forse sono gli effetti di quel vino bianco dell’Etna, così dolce e frizzantino, bevuto nella trattoria di Schisò a causarmi queste incantevoli sensazioni?”, mi chiesi perplesso. “ Oppure, si tratta di qualcos’altro?”.Come stordito, mi affacciai al balcone per prendere una boccata d’aria. Dall’autoradio di una 850 di colore blu, posteggiata nella strada di basolato lavico, proveniva la radiocronaca, di una partita di calcio. Alle parole del cronista spesso si sovrapponevano le grida concitate d’alcuni uomini che da dentro l’automobile commentavano l’andamento delle varie gare. Afferrai a stento il risultato del Cibali: il derby col Palermo stava per concludersi con la vittoria del Catania per uno a zero. Sempre più confuso, girai lo sguardo in direzione di via Garibaldi. La strada, con i suoi ottocenteschi palazzi, sonnecchiava malinconica nella quiete del pomeriggio domenicale. Di tanto in tanto, il fragoroso passaggio dell’autobus che, semivuoto, scendeva verso piazza Duomo rompeva la monotonia della via. Un manifesto pubblicitario di un film in programmazione al cinema Diana mostrava una giovane donna dagli occhi verdi e dai capelli ondulati che, seduta ai bordi del letto con addosso solo una vestaglietta fiorata aperta sulle gambe,  s’ agganciava con tocco sensuale delle calze nere alla giarrettiera. Ero assorto in dolci e vaghi pensieri quando dall’interno udii la voce di mia madre che mi chiamava. Rientrai nella stanza da pranzo e subito il mio sguardo si fissò  rapito sulla ragazza. Concentrato cercai di ben focalizzare la sua immagine, ma i lineamenti del suo volto si presentavano alla mia vista tuttora ondeggianti e sfuggenti mentre riavvertivo, ancora più intensamente, le meravigliose percezioni di poco prima.Mia madre, avvicinatasi per porgermi la tazzina di caffè, intuì le violente emozioni che stavano scatenandosi nel mio cuore. “E’ veramente bella questa ragazza”, disse scrutandomi con espressione incantata. “M’inspira delle dolci sensazioni.  Andrea, perché non  la sposi?”.  “Mamma, con chi dovrei sposarmi?”, mormorai sorpreso. “Ti vuoi sposare?”, lei chiese perplessa.“Poco fa cosa hai detto?”.   “Niente. Io ti ho portato solo la tazzina di caffè”.“Non hai parlato?”.“No! Ma… dimmi che cosa hai sentito”.“Oh, nulla, mi è parso…che tu dicessi qualcosa. Beh, forse…avrò bevuto qualche bicchiere di troppo.”“Oddio! Andrea, ti senti male?”.“Macché!  Sto benissimo! Ho solo un leggero giramento di testa”.“Fatti vedere da vicino”.   Mia madre m’esaminò con attenzione: “Sei rosso in viso”, sussurrò amorevolmente.  “Sicuro che tutto vada bene?”.“Stai tranquilla!”, esclamai, con tono rassicurante. ”Dammi la tazzina: ho bisogno di prendere un buon caffè!”. Avvertivo però un gran peso sul capo, mentre tutto quello che mi stava attorno cominciava a ruotare sempre più velocemente. A stento riuscii a sorbire il caffè ed ad arrivare nella mia stanza; prontamente mi distesi sul letto e di colpo, m’ addormentai.Mi svegliai dopo un po’ con ancora un lancinante mal di testa. Subito mi venne in mente l’immagine di quella ragazza dai lineamenti offuscati: pensai d’averla sognata, ma non n’ero del tutto sicuro. Frastornato mi recai nella stanza da pranzo per verificare se realmente si trovasse di là. La giovane stava ancora seduta sul divanetto ed ascoltava divertita i discorsi delle mie sorelle. L’osservai felice: non si trattava quindi di una visione fantastica, ma di una misteriosa ragazza insolitamente capitata a casa mia. Stavo avviandomi verso mia madre per chiederle delle informazioni sulla   giovane, quando  Fernanda mi chiamò.“Andrea, ti ricordi, l’episodio capitato la scorsa estate al lido Beautiful a quell’anziano, ex attore    filodrammatico ?”. “Fernanda ”,    risposi confuso, “ mi sono svegliato con un forte mal di testa: in questo momento proprio non rammento la storia a cui ti riferisci”.“Allora, siediti”, disse, indicandomi la poltroncina di velluto scuro, “ed ascolta in silenzio il mio racconto!”. Fernanda, volse lo sguardo verso gli altri e con tono perentorio ordinò: “Non voglio, che nessuno interrompa la mia narrazione!”. Poi, osservando con un lieve sorriso sulle labbra mia madre, aggiunse: “ Mamma, mi riferisco proprio a te! Non devi   troncare la mia esposizione con le tue battutine, perché mi fai perdere il filo del discorso.” Quindi rivolse nuovamente lo sguardo verso di noi e domandò: “Ci siamo intesi? Posso cominciare?”. L’improvviso silenzio sopraggiunto   nella stanza diede a mia sorella il benestare per iniziare. Mi sistemai nella poltroncina tentando di ascoltare la voce di Fernanda,  ma il mio pensiero vagava altrove mentre con gli occhi cercavo costantemente lo sguardo di quella dolce creatura. Dopo un po’, da un applauso più lungo e fragoroso dei precedenti,   intuii che il racconto di Fernanda fosse giunto alla conclusione. Mia madre subito iniziò a commentare la divertente storiella, mentre la ragazza sembrava allegra e felice. Mi  sollevai dalla poltroncina e m’accostai a mia madre, cercando di parlarle. Ad un tratto, l’orologio a pendolo iniziò a scandire a ritmo cadenzato sei rintocchi. All’udire quei battiti la giovane sobbalzò, quindi si voltò di scatto soffermando per qualche secondo uno sguardo impaurito sulle lancette dell’orologio. Di colpo emise un grido d’angoscia che subito soffocò, portandosi la mano sulla bocca.  Rapidamente, prendendo in braccio il bambino, s’alzò dal divanetto, salutò i miei familiari, quindi s’ avvicinò trafelata verso di me.“Scusami se ti creo qualche disturbo”, disse timidamente, “purtroppo si è fatto tardi. Potresti accompagnarmi a casa con la tua auto?”. “Volentieri!”, esclamai, piacevolmente sorpreso da tale richiesta.”Insieme, scendemmo nel garage a prendere la mia 126 Personal bianca. Arrivati all’auto, subito aprii lo sportello alla ragazza. Lei lestamente sistemò il bambino sul sedile posteriore, quindi si accomodò vicino a me. Nel sedersi la giovane diffuse nell’abitacolo, una gradevole fragranza di muschio bianco.  Confuso, accesi il motore, avviandomi verso l’uscita del garage.  “Scusa, dove dobbiamo andare?” domandai ad un tratto. “Non mi hai ancora detto dove abiti.” Sentivo in maniera poco chiara la sua voce: intuii che la giovane, mi diceva di dirigermi verso un quartiere popolare di Catania. “Hai sempre vissuto ai Cappuccini?”, le chiesi, a conferma delle sue parole.   “No. Prima risiedevo in un’altra zona della città! ”, rispose, con tono flebile. “Andai ad abitare in quel rione, verso la fine di novembre di quattro anni fa. ” Durante il tragitto la misteriosa ombra giallognola che m’impediva di vedere il suo volto cominciò ad ispessirsi fino a diventare un velo opaco mentre il mal di testa continuava, con fitte penetranti, a tormentarmi. Avevo tanta voglia di parlarle, ma non trovavo le frasi giuste per proseguire il discorso: mi sentivo bloccato. Perplesso continuai a guidare in silenzio per le strade del centro storico, ancora   poco trafficate. Alla fine di via Plebiscito, transitai vicino ad un bancone di caldarroste. Una colonna di fumo biancastro si elevava dalla postazione sommergendo un minuscolo uomo che,  accortamente, gettava pugni di sale su di una pentola bucherellata. Il bambino alla vista delle caldarroste esclamò a gran voce: “Le castagne… Voglio le castagne!”. Pensai d’accontentarlo. Accostai l’auto e m’avviai verso l’alta ed odorosa nube di vapore. Appena giunsi al banco, l’uomo, un mingherlino cinquantenne con il volto scavato e la barba lunga di tre giorni, alzò una pentola dove, scoppiettanti, stavano ad arrostire le prime castagne di stagione.  Ne raccolse una e dopo averla masticata emise, mostrando i suoi pochi denti color liquirizia,  un largo ghigno, quindi, con espressione competente,   affermò: “Sono cotte!”.  Subito l’ometto rovesciò la pentola, versando le bollenti castagne in uno scompartimento di legno. Dietro la bancarella sostava una donna dal viso slavato, alta e  pingue, probabilmente la moglie del castagnaro. Era vestita con un variopinto scamiciato che  lasciava abbondantemente scoperte le  flosce braccia. Notai che la donna guardava intensamente in direzione dell’abitacolo della mia auto: attirai la sua attenzione tambureggiando con le dita sul bancone. La castagnara, udendo il ticchettio delle mie dita, si voltò, lanciandomi uno sguardo ambiguo e volpino, quindi svogliatamente disse: “Desidera ?”. Subito le indicai un mucchietto di fumanti caldarroste. La flaccida venditrice, pigramente, prese le castagne con una paletta di legno, le pesò su una bilancia a piatti metallici quindi, con lentezza,  le avvolse in un pacchetto di carta paglia a forma di cartoccio e senza preamboli esclamò: “Mille lire”. Porsi la piccola banconota sul manone della grassa signora e frettolosamente m’avviai verso  la 126. Col caldissimo involto fra le mani m’accostai all’auto, indicando alla ragazza di abbassare la lastra del finestrino. Appena il vetro cominciò a scendere, l’impenetrabile velo opaco che offuscava il suo volto iniziò a diradarsi come un denso banco di nebbia al comparir dei primi raggi di sole. Anche il mal di testa cessò di affliggermi  e finalmente riuscivo ad ammirarla.La giovane aveva un’espressione pulita, da brava ragazza. Delle vaghe lentiggini contornavano le sue asciutte guance mentre degli zigomi aguzzi accentuavano la magrezza del viso. Gli occhi erano splendidi: ampi, luminosi, di color nocciola chiaro ed esprimevano bontà. Dei morbidi capelli lisci, di colore castano scuro, le scendevano delicatamente sul collo fino a sfiorarle le spalle. Il naso era dritto e perfettamente proporzionato; la bocca larga, le labbra carnose, ben evidenziate da un sapiente tocco di rossetto. Un intenso pallore le traspariva sul volto, facendo affiorare una sorta di malcelato patimento. Il suo collo, snello e flessuoso, mi faceva venire in mente le  esili immagini femminili raffigurate nei quadri di un noto pittore italiano d’inizio Novecento e di cui, in quel momento, non rammentavo il nome. La giovane notò il modo concentrato con cui la osservavo, ed arrossì. Restai incantato da tale immagine  e continuai a contemplarla. Imbarazzata dal mio sguardo, la ragazza cominciò, con le sue dita lunghe ed affusolate, a sistemarsi dei ciuffetti di capelli che si abbassavano sulla sua fronte. Non contenta di aver ben rassettato quelle ciocche così bizzose, raccolse con le mani la chioma e  la collocò, per un attimo, in alto, sopra la  nuca, scoprendo, così le sue piccole orecchie leggermente a sventola, dove, appesi ai lobi, spiccavano dei minuscoli cerchietti d’oro.    Ci guardammo. Fulmineamente annegai nel suo sguardo limpido e sereno mentre, in lontananza, mi sembrava d’udire il suono melodioso delle campane a festa. Ad un tratto cominciai ad avvertire un fitto e doloroso bruciore: erano le castagne che stavano scottandomi le mani. Le porsi bruscamente l’involto e risalii in auto. Finalmente sentivo che stavo riprendendomi dal blocco emotivo.“Ancora non ci siamo presentati: mi chiamo Andrea”, le dissi allungandole la mano. “Ti prego di non stringerla forte, perché dovrebbero esserci delle ustioni.”“Marilisa”, sussurrò la ragazza, porgendomi la mano; quindi con apprensione, domandò:“Ti sei scottato?”.“Sì!”.“E quando ti sei scottato?”.“Appena ti ho vista”, risposi, con immediatezza.Marilisa, lusingata, fece un tenero e compiaciuto sorriso quindi, osservandomi di sottecchi esclamò:“Noi già ci conosciamo!”. “Impossibile!”, replicai convinto. “Un viso come il tuo non l’avrei mai dimenticato!”.  “Ci siamo incontrati quattro anni fa!”.“Dove?”, “Alla festa che Antonella fece in terrazza per festeggiare i suoi quindici anni”.“Il compleanno d’Antonella?”, mormorai, perplesso. “ Antonella…la compagna di classe di mia sorella Natascia?”.“Indovinato!”, lei, proferì, con espressione gioiosa.  “Proprio Antonella la compagna di classe di Natascia, e di… Marilisa”.  “Non capisco?  Tu andavi all’Istituto Magistrale Turrisi e Colonna? ”. “ Proprio così”, sussurrò, con un delizioso sorriso. “ Natascia, ed io eravamo seduti nello stesso banco; è stata proprio lei a farci incontrare durante la festa. Mi parlava spesso di te: ci teneva tanto che ti conoscessi”. “ Strano ”, mormorai dubbioso, “ le compagne di classe che si sono diplomate con Natascia le ho riviste quest’estate a Pedara, nella villa di Federica, in occasione della festa del diploma.  Lì ho incontrato Antonella, Laura, Giusy e tante altre ragazze che non vedevo da diverso tempo”. La guardai ancora, facendo un gesto di diniego con il capo, quindi esclamai: “Tu non c’eri!  Di questo sono sicuro!”.“ Al ricevimento del diploma non c’ero, perché frequentai solo il primo anno”, spiegò rammaricata.“ Sei stata respinta ?”“ No!”, esclamò, con voce accorata. “ Superai l’anno a pieni voti!  Purtroppo durante quell’estate, accadde… un fatto… insomma, interruppi gli studi”.Marilisa abbassò lo sguardo mentre il suo viso si colorava di rosso, evidentemente, qualcosa la intristiva. Pensai che fosse opportuno non continuare su questo discorso.“Ho un ricordo molto vago di quella  festa in terrazza, ” dissi, riprendendo l’altro argomento.Subito la giovane divenne più allegra: “Quella sera abbiamo ballato tante volte insieme”, sussurrò, come per aiutarmi a rammentare.“Addirittura !”, esclamai. “Mettevano sempre, una canzone che mi piaceva tanto ascoltare, era il retro di un quaranta cinque giri dei Pooh ”.  Marilisa, con la sua voce ancora infantile, si mise a canticchiare un tenero, motivo musicale: “Che bello, questo ragazzo, che ogni notte mi è vicino è l’ultimo pensiero … ad un minuto dall’amore…”.“Andrea, come hai potuto dimenticare”, mormorò dolcemente, dopo quella malinconia esecuzione. “Io ripenso spesso a quel ricevimento in terrazza.” Cominciai a ricordare qualcosa, di quella festa di quattro anni fa.Era una limpida sera di primavera. Dalla terrazza del palazzo di via Acque Gasse, si vedeva, in tutta la sua estensione, il golfo di Catania brulicante di mille bagliori.  Uno splendido chiaro di luna, con i suoi riflessi argentati, si specchiava, luccicante, sul calmo mare d’Ognina. Da un sottostante giardino, un albero d’arancio spandeva nell’aria un soave odore di zagara in fiore. C’era quella sera un’atmosfera magica e serena, che inteneriva i cuori e trasmetteva un’intensa gioia di vivere.       Lentamente mi sovvenne l’immagine di una ragazza longilinea, dalle movenze morbide ed ondeggianti, che quando camminava, sventolava disinvoltamente i suoi lisci e lunghi capelli, color castano scuro. Durante la festa volevo invitare a ballare quella giovane che sembrava un’indossatrice, ma c’erano sempre tanti maschi attorno a lei. Appena un disco terminava di suonare, quei ragazzi, più svelti di me, a frotte, si precipitavano da lei, togliendomi così qualsiasi possibilità di avvicinarla.  All’improvviso ebbi come un lampo di memoria e vidi distinta l’immagine di un’altra ragazza. Questa era più giovane dell’altra, quasi un’adolescente. Ricordo che era molto alta e notevolmente  magra: con lei, distrattamente, ballai qualche lento. Aveva degli occhi color nocciola grandi ed ingenui, delle piccole orecchie a sventola e dei sottili boccoli d’oro infilati ai lobi.   Rammentai, inoltre, che la ragazza teneva sui capelli un cerchietto di velluto nero, indossava una vertiginosa minigonna ed ai piedi portava delle scarpe con le zeppe. Ad un tratto mi sovvenne un altro particolare: con lei parlai di un trentatré giri dei Pooh che in quel periodo stava riscotendo un gran successo. La giovane era una fan di quel complesso e mi confidò d’avere la raccolta completa di tutti i loro dischi.”“Andrea, cosa mi racconti?”, sussurrò, Marilisa interrompendo il flusso dei miei ricordi. “ Ti sei diplomato?”. “Scusa cosa hai detto? Mi sono distratto un attimo! ”, bisbigliai confuso. “Andrea, a cosa pensi ?”, lei domandò, curiosa.“ Stavo riflettendo…”.“ Su che cosa?”.“Sulla sciocchezza che feci quella sera di quattro anni fa ”, mormorai rammaricato. “ Ti lasciai andare senza chiederti neanche il numero di telefono.”  Marilisa, per un istante, m’ osservò con uno sguardo colmo di malinconia. “ Vuol dire, che quella sera doveva andare così! ”,  disse  amareggiata.“Possiamo subito recuperare ”, proferii incalzante. “Potresti darmi il numero di telefono?”.Ignorando la mia richiesta ed assorta in chissà quali misteriosi pensieri, lei cominciò a vagare con lo sguardo nel vuoto. “Andrea, ti ho chiesto, se ti sei diplomato?”, domandò dopo qualche minuto  come ridestandosi da un sogno.“Sono Perito Elettrotecnico ”, risposi con immediatezza.“Che fai studi o lavori ?”, continuò interessata.“Dopo il congedo, m’iscrissi alla facoltà di lettere, ma non riuscii a dare nessuna materia”. “Allora, hai abbandonato gli studi ?”, fece, dispiaciuta. “Purtroppo sì. Pensavo di farcela a riprendere a studiare, ma i tredici mesi di vita militare mi avevano fortemente provato: non riuscivo più ad aprire neanche un libro. Ci sono stati inoltre dei problemi economici in famiglia e così decisi di cercarmi un lavoro.   Per un anno svolsi delle attività saltuarie. In quel periodo feci il cameriere, l’autista, il barman ed altro. Da circa sei mesi sto lavorando con più stabilità come rappresentante di una ditta di profumi e cosmetica. Non mi lamento!  Ho ventitré anni, una forte volontà, un fisico prestante e tantissima   voglia di emergere ”.    “Sei un tipo in gamba!”, lei, esclamò, sinceramente convinta. “Sono sicura che andrai avanti nella vita!”.Marilisa sembrava tranquilla. Non notavo più in lei quello strano turbamento che l’aveva quasi indotta a fuggire da casa mia. Dallo specchietto retrovisore osservai il bambino.  Dormiva serenamente, con la testa poggiata sulla spalliera del sedile posteriore, tenendo fra le manine il cartoccio delle castagne ancora chiuso.“Lo sai che il piccolo ti somiglia. ” “E’ vero! Lo dicono in tanti. ”,  sussurrò teneramente.“C’è un ampio stacco d’età tra voi due!”, esclamai, stupito.“Io fra non molto compirò vent’anni, mentre lui ha tre anni e mezzo”, mormorò fissandomi di sbieco, “quindi ci sono… ci sono… quasi sedici anni di differenza”.“ Caspita, sono tanti! E lui è sempre così tranquillo ?”.“Federico ha un carattere taciturno. ”,  disse, con un amaro sorriso. “ A volte è capace di stare anche delle ore senza parlare”.  C’era un po’ di traffico per strada. Cambiai la marcia  e lentamente attraversai la porta del Fortino, immettendomi in piazza Palestro. La città stava rianimandosi e si vedeva molta gente in giro. Diversi crocchi d’uomini sostavano sparpagliati in vari punti della piazza. Tra un gruppo d’anziani emergeva un omone che, gesticolando, lanciava con voce cavernosa delle aspre invettive contro un noto esponente politico locale. Fiancheggiai una stradina alberata. Sul largo marciapiede passeggiavano tranquillamente due attempate coppie. Le signore  gustavano con lentezza  un cono gelato  mentre gli  uomini sbocconcellavano delle caldarroste. In via Acquicella ci sorpassò un pullman targato Palermo. L’automezzo era pieno di tifosi, i quali, dopo aver assistito  al derby col Catania, rientravano mestamente a casa.  Alle vetrate del bus che spedito si dirigeva verso l’autostrada, pendevano flosciamente degli striscioni rosanero. Dall’interno si intravedevano dei giovani che, col capo reclinato sulla spalliera  ed i cappellini a visiera abbassati sulla fronte,  malinconicamente dormicchiavano, forse  sognando l’amara sconfitta della loro squadra del cuore.“Andrea, stai sbagliando strada!”, gridò, ad un tratto, Marilisa.“Io ti ho detto di andare ai Cappuccini, non alla Zia Lisa!”. “Scusami Marilisa, hai ragione: forse, per stare più tempo con te, involontariamente ho allungato il percorso”, risposi confuso.“Andrea, non fare il ragazzino”, m’ammonì, teneramente. “ Cerca uno slargo per fare la manovra e torniamo indietro”.In quel momento ero felice di stare in automobile con Marilisa. Ero contento di parlarle e di ascoltarne la voce. In lei avvertivo quell’affinità di sentimenti e quella spontanea intesa caratteriale che non avevo mai riscontrato con altre ragazze. Pensai che il destino, facendoci incontrare dopo tanto tempo, volesse attuare con noi un suo determinato progetto. Per un attimo immaginai che fossimo una giovane coppia con un bambino in tenera età  e che stessimo andando a trascorrere un tranquillo pomeriggio domenicale in casa d’amici.“Andrea! Fermati!”, urlò di colpo, Marilisa. “Il semaforo è rosso!”.La brusca frenata, mi riportò alla realtà.“Tutto bene?”, domandai.“Sì… Solo un po’ di  paura”, proferì, angosciata. “Andrea, a cosa pensi? Sei così distratto. Sbagli le strade, non vedi i semafori.” “Non ti preoccupare: sto sognando”.Marilisa mi guardò intensamente, come per scandagliare in profondità il mio animo, quindi volgendo la testa, si chiuse in un impenetrabile silenzio. Mentre lei si girava, intravidi ancora una volta nei suoi occhi un velo di cupa tristezza.    Cominciai a domandarmi: “Come mai  Marilisa  si trovava a  casa mia? Da dove era venuta? Chi l’aveva invitata?”.Improvvisamente la risposta m’apparve ovvia. “Toglimi una curiosità: ti ha chiesto Natascia di venire da noi.”“Sì. Ci siamo incontrate stamattina, nel piazzale della Villa  Bellini”, sussurrò, con espressione malinconica.“ Stavo seduta su di una panchina, intenta a controllare il bambino che nello spiazzo, si divertiva a pedalare un’automobilina, quando mi sentii chiamare; mi voltai e vidi Natascia. Aveva oltre quattro anni che non ci vedevamo, ci abbracciammo e subito ci raccontammo le nostre vicissitudini. E’ stata tanta la voglia di stare insieme che parlammo per oltre un’ora. Verso mezzogiorno ci salutammo, con la promessa di rincontrarci più spesso. Stavo avviandomi verso casa quando, all’altezza  del Gran Bar, tua sorella, mi raggiunse di corsa proponendomi di pranzare a casa sua. Dapprima rifiutai: non volevo disturbare; ma lei insistette tanto che non seppi dirle di No. Volevo comprare delle paste al Gran Bar, ma Natascia, non volle. ‘I dolci, la domenica, li porta sempre mio padre ’, lei affermò con orgoglio.” “Che cosa  hai pensato quando non mi hai visto tavola?”, domandai ad un tratto.“Tua madre” disse Marilisa, “mi riferì che ti trovavi a Letoianni. Lei non sapeva se tu tornavi nel pomeriggio; anzi supponeva che dopo aver fatto la commissione, saresti andato allo stadio a vedere la partita del Catania”.“Marilisa, ti ripeto la domanda: Che cosa hai provato quando non mi hai trovato a casa ?”.“Nulla! Cosa dovevo provare ?”.“Veramente, non hai provato niente?”.“Andrea, non  riesco a capire il motivo di questa tua  strana domanda. Potresti spiegarti meglio”, fece Marilisa  con un sorrisetto malizioso.“Il motivo lo hai già capito!”, esclamai. Lei arrossì e dopo una leggera pausa, lentamente sussurrò:“Ho avvertito una forte delusione, quando non ti ho trovato a casa. Subito dopo il pranzo volevo andarmene, ma Natascia mi trattenne. Fortunatamente, sono rimasta e dopo un po’ tu sei arrivato.” “Allora… Ci tenevi a rivedermi?”, chiesi felice.“ Si, Andrea, tantissimo…”, rispose con dolcezza.Giunti nei pressi di un’ampia piazza alberata, Marilisa, ad un tratto, mi fece segno di posteggiare: “Sono arrivata!”, esclamò  decisa. Non vedendo nessuna palazzina nelle vicinanze, pensai che volesse continuare il discorso stando un po’ appartati. Entusiasta accostai la macchina nei pressi di un florido platano, spensi il motore e mi voltai verso di lei. Subito Marilisa svegliò il bambino e con gesti rapidi aprì lo sportello: “Abito proprio dietro l’angolo”, disse, allontanandosi “Grazie del passaggio ed arrivederci”. Intuendo qualcosa d’insolito nel suo comportamento e deciso a non perderla, repentinamente m’avviai verso di lei. “Non vuoi che ti accompagni sotto casa?”, domandai affiancandola.   “No. Preferisco che ci salutiamo qua!  ”. “Possiamo fare almeno due passi insieme?”, replicai, timoroso.  Marilisa mi guardò in modo insolito: “D’accordo, accompagnami! Però, quando ti dico di andartene, vattene senza fare tante storie. Capito?”, disse bruscamente.“Va bene! Ma perché stai alzando la voce?”. “Sai com’è, in questo quartiere la gente parla a sproposito ed inventa storie per il gusto di dire maldicenze sulle persone: se qualcuno mi vede con te, può anche costruirci sopra.” “Stai tranquilla, quando tu dici di andarmene, mi volto e vado via!”, esclamai, entusiasta di stare ancora con lei.“Marilisa doveva avere paura d’incontrare il padre”, pensai. “Solo così si poteva spiegare il suo atteggiamento, cauto e guardingo. Oppure aveva il timore d’incrociare dei parenti o dei conoscenti linguacciuti che potessero riferire a casa.  Probabilmente il padre era un uomo all’antica e di vedute ristrette e se l’avesse vista  passeggiare nel rione insieme con un ragazzo, sicuramente l’avrebbe rimproverata, magari inscenato una stomachevole sceneggiata napoletana.”Imboccammo un breve viale alberato cosparso di numerose foglie gialle,  scricchiolanti al nostro passaggio. Marilisa indossava una camicetta rosa con sottili quadretti bianchi e dei pantaloni   di velluto scuro a coste, molto aderenti. Sulle spalle,  annodato per le maniche, teneva un leggero pullover marrone, mentre a tracolla portava una piccola borsetta di color beige abbinata a dei mocassini dai tacchi bassi, d’ugual colore. Il sole lentamente tramontava facendo apparire le prime ombre della sera. La fresca e gradevole temperatura autunnale invitava a passeggiare. A bordo strada, addossato ad una colorata motoape, un omino vestito di bianco, sbatacchiando convulsamente una campanella di bronzo, incitava i passanti ad assaggiare i suoi gustosi gelati. “Prendiamo un cono?”, le chiesi contento di poterle offrire qualcosa.“Ti ringrazio, ma proprio non ne ho voglia”, lei rispose con un cortese sorriso.“Ti prego. Mi farebbe un immenso piacere se tu accettassi.”“Perché ti farebbe piacere?”.“Perché il solo pensiero di consumare con te un gelato, una granita, un caffè, una pizza, o qualsiasi altra cosa,  mi rende l’uomo più felice del mondo”.Marilisa sorrise lusingata: “Mah, se proprio ci tieni tanto, allora per me un gelato al pistacchio e per Federico una coppetta al cioccolato.”“Due coni al pistacchio ed una coppetta al cioccolato!”, ordinai entusiasta.“Anche tu preferisci il pistacchio?”, fece Marilisa, vagamente sorpresa.“Sì. Si vede che abbiamo gli stessi gusti”.“Che strana coincidenza”.“ Perché strana? Quando un uomo e una donna hanno gli stessi gusti significa che sono destinati a vivere per sempre insieme”.“Ma va’ là, non raccontare scemenze!”.“Non sono scemenze: è la pura verità. Noi due siamo destinati a sposarci.”  Proseguimmo felici lungo il marciapiede assaporando con gusto il delizioso cono al pistacchio. In fondo al viale si vedevano dei giovani con i capelli lunghi, che, attorniati da un nugolo di bandiere rosse, manifestavano contro l’America e la guerra in Vietnam. Seduti su di una panchina, una coppia d’innamorati si scambiava delle tenereeffusioni. Da una siepe vidi che sporgevano dei gelsomini profumati, ne raccolsi tre boccioli e li donai a Marilisa. Lei, commossa ed emozionata per il gentile pensiero, mi ringraziò con un luminoso sorriso. Compiaciuto, continuai a scrutare Marilisa. Era alta e slanciata, aveva una vita sottile ed un bacino ben proporzionato. Camminava in modo veloce: i lunghi passi evidenziavano attraverso i vestiti le sue forme asciutte e ben disegnate. Il suo incedere flessuoso emanava un’involontaria e naturale carica di sensualità. Due giovani dalla barba lunga e folta che camminavano con dei giornali in mano discutendo ad alta voce di politica, si girarono a guardarla. Avvertii, con un pizzico di vanita maschile, l’orgogliosa sensazione d’essere oggetto d’invidia da parte di quegli uomini per avere al mio fianco una ragazza bellissima e seducente come Marilisa. M’accorsi che lei somigliava ad un’attrice americana degli anni cinquanta, famosa per aver interpretato vari film di successo con Gregory Peck ed Humprey Bogart. Avevano ambedue l’identica figura snella, gli stessi modi gentili e pratici di porgersi e la medesima aria sbarazzina. In quel momento Marilisa mi guardò con i suoi occhioni sognanti: aveva un’espressione del viso, così dolce ed ingenua, che sembrava una cerbiatta. Quella visione mi lasciò per qualche minuto senza fiato.“Non possiamo passeggiare fino a domattina?”, le domandai raggiante.“Andrea, non dire sciocchezze e cammina più veloce, perchè siamo quasi arrivati ”, rispose con un sorriso cristallino.Alla fine del viale svoltammo per un vicolo stretto, dove dei panciuti uomini parlottavano tra loro appoggiati di sbilenco su delle motoapi posteggiate sopra il marciapiede. Al nostro passaggio quegli uomini interruppero i loro discorsi ecominciarono a scrutarci con espressione sospettosa. Dopo alcuni passi ci fermammo davanti ad un antico e malandato palazzo. Marilisa, col dito, m’indicò un balcone dalle persiane di legno color verde, abbellito da fiori e piante rampicanti: “Io abito lì! Al secondo piano!”, esclamò con gioiosa semplicità.Attraversammo un portone spalancato e c’immettemmo in un ampio androne, dove stagnava un persistente tanfo di muffa e di broccoli bolliti. Vidi che i muri dell’androne erano per molti tratti screpolati e pezzi d’intonaco, staccati dalle pareti, sembravano sul punto di cadere. Il tetto presentava delle appariscenti crepe, con ampie macchie d’umidità sparse un po’ dovunque, mentre una sola nuda lampadina emetteva una fiocaluce. L’androne sfociava in un largo cortile di forma circolare, disseminato di balconi   a ringhiera dove, stesi ad asciugare, stavano   numerosi lenzuoli logori ed ingialliti. Sui davanzali delle finestre, attaccati a sottili fili di ferro, spiccavano altri capi di biancheria di tipo economico e dozzinale, probabilmente provenienti dalle bancarelle di Piazza Carlo Alberto. A ridosso di un muretto stavano, confusamente ammonticchiati dei sacchi neri pieni d’immondizia. Una torma di gatti girava attorno alla spazzatura.  Alcuni di loro, dopo aver aperto, graffiando con le unghie, le buste e sparso lì intorno dei rifiuti, rovistavano famelici, alla ricerca di resti di cibo. Alla fine del cortile, c’erano degli ingressi, piccoli ed oscuri. Al loro interno, s’intravedevano delle strette e tortuose rampe di scale, con delle sottili passatoie arrugginite. Aleggiava un cupo squallore e solo la presenza della ragazza e del bambino illuminava il misero e degradato ambiente nel quale  ci trovavamo.Prima di entrare nel cortile, Marilisa impallidì e, come ricordando qualcosa d’inquietante che aveva completamente dimenticato, si bloccò impaurita. Io, notando la sua improvvisa ansia, ebbi un vago ed oscuro presentimento e percependo la presenza di un misterioso ostacolo mi posi davanti a lei, come per proteggerla.  “Dobbiamo lasciarci!”, esclamò nervosamente. A sentire quelle parole, restai rigido come un pezzo di ghiaccio.Dovevo avere un aspetto sconvolto, perché Marilisa mi guardò con una tenerezza infinita e non sapendo cosa dirmi per congedarsi, mi fece cenno con la mano di attendere. Lei s’ accostò al muro e sbirciò attentamente all’esterno dell’atrio.  Dapprima scrutò lentamente in alto, verso i balconi, e poi rapidamente giù nel cortile; quindi, non vedendo nessuno in giro, si tranquillizzò e, con languida ed invitante rilassatezza, si avvicinò per salutarmi con un abbraccio. “Ricordati che hai promesso di andartene senza fare tante storie”, mormorò Marilisa, stringendosi a me. Avvertivo il calore delle sue guance sulle mie; percepivo il suo respiro affannoso sulle mie orecchie; ascoltavo il suo cuore che  batteva all’impazzata contro il mio petto. Dire che ero felice è ben poca cosa. La cinsi ai fianchi cogliendo l’intensa  sensualità del suo corpo che, tremante, si abbandonava mollemente fra le mie braccia.Teneramente le diedi dei leggeri baci sulle orecchie, sul collo e voluttuosamente mi avvicinai alla sua bocca. Marilisa tentò una non convinta resistenza serrando le labbra e ponendo le mani sul mio petto nel debole tentativo di respingermi, ma subito desistette e, stringendosi forte a me, con trasporto, mi baciò. Sentii le sue umide labbra che docilmente si schiudevano sulle mie, facendomi assaporare il gradevole gusto di menta fresca della sua bocca. Carezzai, fremente, i suoi morbidi capelli freschi di shampoo e  respirai intensamente il dolce   profumo di muschio bianco della sua pelle. Ad un tratto, mentre con passione continuavo a baciarla, avvertii, lungo la schiena, un soffio di vento gelido. Sbirciai, verso il cortile e vidi il cielo gonfio di minacciose nuvole scure; quindi un lampo, seguito da un potente tuono, ci fece entrambi trasalire. Marilisa, ebbe un brivido di freddo e come riavutasi da uno stordimento, con un’energica spinta si liberò dalla stretta delle mie braccia, lasciandomi gelato dallo stupore. Trafelata, percorse rapidamente, insieme al bambino, il cortile; attraversò un buio ed angusto ingresso e cominciò a salire con foga su per una sconnessa rampa   di scale. Il bambino, non riuscendo a seguirla nella frettolosa salita, inciampò su un gradino e cadde con le braccia in avanti. Marilisa, angosciata, si fermò e, vedendo il bambino disteso lungo la scala, lanciò un urlo di terrore. Di corsa, li raggiunsi: presi in braccio il bambino, gli tastai ansiosamente la testa e le gambe, controllando se avesse riportato dei traumi. Accertatomi che la caduta aveva procurato al bambino solo una leggera escoriazione al ginocchio, tranquillizzai   la giovane, la quale, tremante, lo prese   in braccio, lo scrutò per sincerarsi delle sue condizioni; quindi, piangendo, se lo strinse, cullandolo nel petto.Appena lei si calmò, le domandai il motivo della sua improvvisa fuga.Marilisa, accaldata in viso, meravigliata per l’inaspettata cedevolezza avuta e turbata dalle intense   emozioni, rispose con parole generiche ed evasive.Non riuscendo a capacitarmi sul suo repentino cambiamento, insistetti ancora, fino a quando, lei visibilmente infastidita dal mio pressante interrogatorio, bruscamente sbottò:“Ma tu chi sei?”, fece, con espressione irritata. “Perché ti devo dare conto delle mie cose? Cerca di andartene da dove sei venuto!”.Marilisa, subito, s’accorse del dolore, provocatomi dalle sue parole, e impietosita mi prese le mani e dolcemente sussurrò: “ Mi dispiace per quello che ho detto… Ti giuro che non volevo offenderti…Vorrei tanto rimanere ancora con te, ma comprendimi…”Quindi, decisa, esclamò: “Andrea, devi rassegnarti!”. “Rassegnarmi?  Dovrei rassegnarmi a perderti? ”, le chiesi sbigottito. Marilisa, non rispondendo alla mia domanda, abbassò lo sguardo. Rimase per qualche minuto in assoluto silenzio, quindi, sbiancando in viso, con tono fermo, disse:“Fammi andare via! Può essere pericoloso per entrambi, restare ancora a discutere!”.Frettolosamente, mi salutò baciandomi sulle guance.  Consapevole che stavo per perderla, con disperazione la bloccai, afferrandola per un braccio:“Che cosa può essere pericoloso?”, le chiesi con ansia. “Che cosa ti terrorizza?”.Per la seconda volta, lei non  diede nessuna risposta alle mie domande.“Ti prego, Marilisa, fammi capire qualcosa…” mormorai in tono supplichevole.Ancora una volta rimase muta alla mia implorazione. Di fronte al suo risoluto silenzio, dovetti arrendermi.“Addio Marilisa”, le sussurrai, con animo affranto, liberandole il braccio.Lei dapprima abbassò gli occhi, quindi rivolse il suo sguardo verso il bambino, gli rassettò con delicatezza i capelli, poi con piglio deciso si girò ed a capo chino riprese a risalire gli scalini. Dopo aver fatto pochi gradini, si voltò,  fissandomi teneramente con i suoi meravigliosi occhi nocciola. La mia gioia, in quell’attimo, esplose fino in cielo, ma durò solo qualche secondo: subito lessi nell’espressione del suo viso un senso di rassegnata impotenza. Marilisa lentamente discese i gradini e s’avvicinò a me.  Baciò le sue affusolate dita e le  poggiò sulle mie labbra quindi, guardandomi intensamente,  con amarezza esclamò: “Convivo con un uomo, ed il bambino è mio figlio !”. Copyright ©2009 Angelo Di Bernardo” .

Un commento a “FIORI D’AUTOSTRADA – (Capitolo I)”

  1. caterina dice:

    bello e scritto molto ma molto bene.
    entra nei particolari e nei dettagli e a me piace molissimo questo stile. invita il lettore fin dentro le stanze dell’io narrante.
    le atmosfere , piene anche di musica, sono affascinanti.
    ti prego di continuare.
    l’unico problema e’ che i caratteri son troppo piccoli.
    nn si puo’ ingrandire un pochino?
    baci
    caterina cecata :)

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