ALBERO DI NATALE
Pubblicato da adb il 8 dicembre 2007
Ad un tratto, gettando via i tre sassolini con i quali si trastullava, s’alzò in piedi e cominciò a camminare in maniera alquanto svogliata, Di tanto in tanto si soffermava ad osservare le abitazioni a piano terreno dei vicini, e tutto gli sembrava caldo ed accogliente. Dall’ interno, intravedeva le stanze dalle pareti damascate, i tendaggi vaporosi, i mobili massicci, i lampadari in vetro con i pendenti a goccia, i quadri austeri, i tappeti dalle geometriche figurazioni orientali. Su di una consolle chiara stile veneziano sostavano, insieme a delle graziose bamboline in porcellana, un portaritratti d’argento con la foto sbiadita color osso di seppia di un lontano matrimonio ed un vaso satinato da cui fuoriuscivano delle gardenie spampanate. Sopra un’angoliera stava riposta una panciuta pianta di geranio, mentre un vecchio giradischi a grammofono dormicchiava insieme a dei polverosi trentatregiri di celebri opere liriche.
Erano circa le sei del pomeriggio e molti televisori, a quell’ora, erano accesi ed ad attorno ad essi sostavano nugoli di ragazzini che, assorti, vedevano
“Com’era alto quell’albero”, mormorò Antonio nella sua mente.
“E quella punta! Era talmente lunga che quasi sfiorava il tetto. Doveva essere un vero abete, simile a quello raffigurato nel disegno, accanto alla lettera A, che stava attaccato sulla parete dell’aula. Forse l’albero proveniva dalla vicina montagna, oppure da qualche sperduta zona delle lontane Alpi, ed adesso faceva una gran bella figura in quella stanza, ben addobbato di palline argentate e filamenti di strass scintillanti. Dai folti rami, sbaffati di nevischio artificiale, pendevano dei campanellini ricoperti di polvere dorata, alcuni fiocchetti vermigli, diverse sferette concave multicolori e tante piccole luci che si accendevano e spegnevano con ritmica intermittenza. Guardò con più attenzione in direzione dell’abete e s’avvide dei numerosi oggetti, dalle forme più svariate, che, avvolti in carta stagnola coloratissima, da lontano sembravano sorridergli. Spiccavano dei placidi bambolotti di Babbo Natale dai volti rubicondi, dei paffuti guantoni da pugile, dei luccicanti marenghi d’oro, delle allegre bottigliette di spumante color verde pisello, degli strampalati scarponi da sciatore, delle candide mezzelune e dei chiassosi tromboni. Li riconobbe subito: erano i dolci di cioccolato che aveva già visto ben esposti sulla vetrina del droghiere. Com’erano invitanti quei dolciumi, pareva che lo chiamassero. Una mattina, mentre si recava a scuola, si era bloccato davanti all’ingresso della drogheria e, preso dal desiderio di comprarne qualcuno, aveva frugato nelle tasche del grembiule alla ricerca di qualche moneta, ma poi s’era allontanato sconsolato. Ad ogni modo, anche se avesse racimolato i soldi, a cosa gli sarebbero serviti quei deliziosi cioccolatini? A casa sua non c’era alcun albero di Natale: quell’anno nessuno dei suoi familiari si era premurato ad allestirlo ed ogni qualvolta che lui richiedeva delle spiegazioni, la mamma, bruscamente, gli rispondeva che aveva ben altro a cui pensare. Però Antonio sapeva benissimo il motivo che tanto angustiava sua madre e per il quale lei si disinteressasse del Natale; d’altronde anche lui era triste per la stessa ragione: gli mancava il suo papà.
Rammentava ancora quella triste alba della scorsa estate quando degli uomini in divisa irruppero a casa e, dopo aver ispezionato dappertutto, misero degli orrendi ferri attorno ai polsi del suo papà. Richiamava alla mente quel brusco risveglio, quel terribile trambusto, quel frenetico rovistare dentro la sua stanza: buttarono a terra perfino il materassino e la cesta con i giocattoli; e poi lo sguardo di suo padre, la sua espressione incredula, stupita, colma di rabbia e di vergogna, mentre quegli schivi individui, bruscamente, lo caricavano dentro una camionetta scoperta di colore verdino.
Sua madre, singhiozzando, gli disse che quelle persone erano degli operai ed indossavano gli abiti di una fabbrica di automobili del Nord Italia dove papà aveva trovato lavoro; ed erano così scontrosi perché, dovevano accompagnarlo in quel lungo viaggio. Ma lui aveva capito che quegli uomini non erano operai, ma poliziotti venuti ad arrestarlo. Però non ne capiva il motivo. Suo padre era un onesto lavoratore, un valente meccanico che trascorreva le giornate in officina a riparare i motori delle auto e la sera stava in casa, con la famiglia. Quindi, perché lo portavano via ammanetto come un malfattore?
In quei mesi Antonio, nonostante la sua età, aveva già intuito il motivo della cattura del padre ed, ogni qualvolta che veniva a parlare con la mamma e la nonna quell’antipatico personaggio, che nel quartiere tutti chiamavano l’Avvocaticchio, lui stava ad origliare. Dalla stanza grande aveva udito la parola sbaglio, errore giudiziario, scambio di persona e, da quelle frasi frammentarie, aveva capito che il padre si trovava in prigione a posto di qualcun altro.
“Allora, perché trattenerlo ancora?” si chiedeva nella sua mente.
“Per quale ragione non lo rimettevano in libertà? Per quale motivo gli impedivano di lavorare e di vivere serenamente la propria vita insieme a lui e la mamma ?”.
Finalmente un pomeriggio, subito dopo la festa dei morti, si fece coraggio ed affrontò l’argomento con la madre.
“Mamma!”, esclamò deciso, “non trattarmi più come un bambino: ho già sette anni ed ho capito che papà non è andato a lavorare in una fabbrica del Nord Italia, ma è stato arrestato ed adesso si trova in una prigione dalle parti di Napoli”.
La madre, arrossendo per la vergogna, gli carezzò i capelli e con tono sommesso disse: “Sapevo che prima o dopo avresti inteso il vero motivo dell’assenza di tuo padre ed ho taciuto la verità per non causarti un forte dispiacere. Comunque, di una cosa devi essere certo tuo padre è innocente!”.
“E come mai non lo rilasciano?”, fece Antonio perplesso.
“Perché degli uomini cattivi lo hanno accusato di aver compiuto una rapina in un ufficio postale ed il direttore lo ha riconosciuto per uno dei rapinatori. Però si tratta di un tragico malinteso, di un terribile equivoco, di un tremendo errore di persona, ma fino ad oggi non siamo ancora riusciti a dimostrarlo. Quel maledetto giorno di luglio lui stava in officina a lavorare e non in Campania come affermano quelle persone maligne! Purtroppo le testimonianze mie e della nonna non hanno avuto alcun valore. Adesso l’Avvocaticchio si sta prodigando per fare ascoltare al giudice altre dichiarazioni e per mostrargli delle prove sicure. Ma la giustizia ha i tempi lunghi, specialmente con le persone oneste che non riescono a destreggiarsi con tutti i cavilli dei tribunali; comunque ci hanno garantito che entro questo mese tuo padre sarà libero!”.
Il mese di novembre era trascorso ed anche dicembre stava per passare e si prospettava un triste Natale in casa di Antonio. Purtroppo l’Avvocaticchio aveva dimostrato di meritare quel soprannome, infatti, durante il dibattito preliminare, da consumato principe del foro qual’ era, impostò un’arringa talmente futile quanto capziosa che produsse più danni che benefici. Le sue cosiddette “prove sicure” caddero come un castello di carte al lieve tocco di una mano, inoltre non riuscì a dimostrare l’attendibilità dei testi. Al temine dell’udienza, il giudice, notevolmente indispettito dalle sue saccenti disquisizioni e dai tanti arzigogoli profusi, chiese ancora del tempo per riesaminare le carte ed effettuare ulteriori riscontri. Ed i tempi per chi sta in prigione e per i familiari che aspettano sono lunghi e duri da trascorrere.
Ormai mancavano appena due giorni al Natale e già a scuola erano iniziate le vacanze. La mattina, Antonio, aveva fatto gli auguri alla maestra ed adesso tristemente guardava quell’albero che sfavillava dentro l’accogliente stanza a piano terreno. All’improvviso, alzando gli occhi al cielo, vide una stella luminosa, molto somigliante alla cometa che stava sopra la grotta del presepe allestito in sacrestia. Istantaneamente si fece il segno della croce ed emozionato rivolse una preghiera a Gesù Bambino.
“Gesù, Gesù mio”, sussurrò Antonio, “tu che stai per nascere dentro una mangiatoia nella fredda notte di Betlemme, ti prego fammi rivedere mio padre; fallo tornare a casa, fa che lui trascorra il Natale con noi, in famiglia. Ti prego: liberalo dalla prigione, ed io ti prometto che sarò buono ed ubbidente con la mamma, poi ti garantisco che mi impegnerò ancora di più a scuola ed inoltre non farò altri dispetti alla nonna.”
La stella continuava risplendere in cielo e sembrava non dare ascolto alla supplica di Antonio, ad un tratto l’astro si colorò di un fulgido biancore e, lasciando dietro di sé una fosforescente scia luminosa, con un guizzo scomparve nel profondo del firmamento,
“Chissà se mi avrà udito”, mormorò il bambino visibilmente commosso.
Aveva qualche dubbio, però la sua coscienza gli faceva presagire che al più presto avrebbe rivisto il suo papà. D’altronde Don Filippo, il giovane prete dell’oratorio, gli aveva sempre detto di avere fede e di credere fermamente nella giustizia divina. Ricordava spesso il suo viso pulito, la sua espressione quieta, il suo sorriso così tenero ed accattivante.
“Non bisogna mai abbattersi nei momenti di difficoltà” raccomandava con voce sicura Don Filippo,“non dobbiamo lasciarsi vincere dallo sconforto, anzi dobbiamo reagire ed avere fiducia in Dio, ed invocarlo sempre dal profondo del cuore, perché solo chi prega intensamente verrà ascoltato.”
E la sua preghiera era nata spontanea ed inoltre si era affidato a Gesù Bambino con tutta la convinzione e l’amore di cui era capace.
Alimentando la lieta speranza che avvertiva in fondo all’animo, lestamente s’avviò verso casa; mangiò la minestra che la mamma gli aveva preparato, poi lesse qualche pagina di Topolino, quindi si mise a letto e subito s’addormentò, immergendosi in un dolce sogno.
In un primo momento vide un presepe molto somigliante a quello della parrocchia, però più grande e con tutti i personaggi non di gesso ma reali, persone in carne ed ossa che svolgevano le loro faccende giornaliere; successivamente si ritrovò in mezzo ad un gruppo di pastorelli che si recavano con i loro doni presso la grotta situata in alto al termine di una collinetta. Alcuni portavano attorno al collo degli agnellini, altri tenevano sotto braccio delle fascette di ricotta ed altri ancora delle piccole forme di formaggio. Nel cammino intravide un giovane intento a pescare a ridosso di uno stagno argentato, due fanciulle che portavano delle brocche d’acqua, alcune graziose contadinelle con i cesti colmi d’arance e mandarini. Poi passò sotto la casupola di una vecchietta che filava la lana sul telaio, quindi fiancheggiò la bottega del falegname, dove l’anziano proprietario, con una lunga sega, s’apprestava a tagliare un nodoso tronco d’albero. Subito dopo s’accosto dinanzi ad un piccolo forno, all’interno del quale il robusto panettiere impastava le pagnotte ed infine si fermò nei pressi di una bettola. Dinanzi all’uscio sostava un omino dall’aspetto gioviale che, con un bicchiere di legno in mano, gli offriva da bere. Al banco, la flaccida bottegaia mesceva del vino a due grassoni dal naso arrossato; nel contempo tre avventori seduti attorno ad un desco mangiavano delle uova sode, ed altri, in un differente tavolo, giocavano a dadi. In lontananza, abbarbicato su una rocca si stagliava un fosco castello attorniato da soldati romani armati di lunghe lance. In un balzo fu dentro i sotterranei del maniero dove, in un angolo isolato, spiccava un tetro loculo dalla finestrella a sbarre incrociate. Una tremolante luce di candela rischiarava scarsamente l’interno. Antonio, titubante, s’accostò alla cella quindi, sollevandosi sulle punte dei piedi, vi sbirciò dentro. Dapprima intravide una nuda parete dalle larghe chiazze di umido, subito dopo, abbassando lo sguardo, avvistò, accovacciata sul lurido pavimento, con dei ruvidi ceppi che gli serravano i polsi, una figura smagrita, dai capelli incolti e la barba ispida. Fissò lo sguardo su quella persona incatenata e riconobbe suo padre.
“Papà, papà mio!”, urlò Antonio con tutto il fiato che aveva in corpo.
“Cosa ti hanno fatto quegli uomini malvagi?”.
Il carcerato alzò il capo e sorpreso rivolse uno sguardo stanco verso Antonio. Sembrava che volesse articolare qualche frase, ma le parole gli sfuggivano di bocca ed evaporavano in una nuvoletta evanescente. Fece ancora diversi tentativi, ma a stento riuscì a farfugliare qualche incomprensibile monosillabo, dopodiché, sfinito, reclinò il capo il segno di resa.
Antonio, sconsolato, si rivolse a Gesù Bambino pregandolo di fargli attraversare le sbarre in modo da poter parlare col suo papà: pregò così intensamente che in un lampo si ritrovò dentro la cella. Con premura s’ accostò al padre, sussurrandogli delle tenere frasi, quindi con le mani gli sfiorò il volto emaciato. Quella carezza affettuosa rianimò il prigioniero che finalmente iniziò a parlare.
“Antonio”, bisbigliò l’uomo, con voce debole, “ormai sei un ometto e devi farti coraggio, ma principalmente devi confortare tua madre che sta tanto soffrendo per me. Continua ad avere fede, perché le tue e le mie preghiere sono state ascoltate ed il Signore veglia sulla nostra famiglia”.
“Papà, papà mio”, mormorò Antonio con gli occhi colmi di lacrime. “Domani è la vigilia di Natale ed a mezzanotte nasce Gesù Bambino: desidero tanto che Lui ci trovi uniti e felici. Domani tu devi stare con noi… con me e la mamma. Di sera mangeremo la scacciata… il panettone… e dopo… e dopo andremo tutti in chiesa ad ascoltare la Santa Messa.”
Il padre accennò un debole sorriso, quindi, alzando debolmente le braccia incatenate, riuscì con le dita, a lambirgli la guancia. Nel contempo una fitta caligine color nerofumo si frapponeva tra loro offuscando l’immagine paterna fino a farla sparire del tutto.
Come per incanto il bambino si ritrovò solo nella prigione e, smarrito, si prostrò sul sudicio terreno, in preda al più cupo sconforto.
“Gesù, Gesù mio, perché mi hai abbandonato?”, gridò disperato. “Perché non hai esaudito le mie suppliche?”.
All’improvviso il tetto del carcere si dilatò fino squarciarsi e dall’alto apparve un calmo cielo notturno, sfavillante di tante piccole stelle radiose. Dalla fenditura, simile a un bianco destriero imbizzarrito, si catapultò la stella cometa, dalla lunga coda fosforescente, vista nel pomeriggio. L’astro effettuò due nervose piroette quindi, chinandosi, fece montare a cavalcioni sul proprio dorso il ragazzino; dopodiché spiccò un rapido volo verso il firmamento illuminato. Da principio imboccò un tunnel fitto di polvere argentata, poi incrociò delle meteorite che passeggiavano nello spazio, subito dopo costeggiò il faccione gioioso della luna, successivamente s’affiancò ad un pianeta attorniato da diversi anelli rotanti, quindi circumnavigò un globo incandescente. Di colpo, con una brusca virata, la cometa ritornò giù sulla terra dirigendosi verso il bianco pennacchio dell’Etna, poi, con un’ ulteriore sterzata, s’indirizzò sulla placida spiaggia della Plaia ed infine, decisa, s’avviò sul campanile della chiesa dove planò. Dall’alto, Antonio, riconobbe il suo quartiere addormentato in attesa dell’alba di vigila; rivide le strade dal nero selciato lavico, le abitazioni a piano terreno dove spesso sostava per assistere ai programmi televisivi pomeridiani, la breve scalinata della scuola, la solitaria fontana gocciolante, la saracinesca annerita del maniscalco, le scheletriche gabbiette in legno accatastate a ridosso della bottega del fruttivendolo, l’altarino di S. Agata con il vasetto di fiori accanto, il modesto campetto di calcio della parrocchia, la scalcinata motoape dell’arrotino posteggiata di sbilenco sopra il marciapiede ed in ultimo, in fondo alla via, distinse la sua casa. Attraverso la finestra illuminata vide sua madre seduta sulla poltrona di vimini. Era assorta nella lettura di una lettera e sembrava alquanto preoccupata. Ad un tratto, come ridestata da un rumore, s’alzo di scatto e si diresse verso la porta d’ingresso. L’aprì e quasi svenne per l’emozione. Davanti all’uscio stava suo padre, smagrito e con la barba lunga di tre giorni. I due s’abbracciarono e subito s’avviarono verso la sua stanzetta. Lì si rivide avvolto nella coperta azzurrina mentre dormiva serenamente. Il papà gli carezzò i capelli, poi gli sussurrò qualcosa all’orecchio, quindi, poggiò sul comodino un insolito oggetto che, da lassù, lui non riusciva a distinguere; dopodiché, spense la lampada e, abbracciato alla mamma, s’allontanò dalla cameretta.
Antonio, dall’alto, nel tentativo di focalizzare l’oggetto, si sporse dal campanile e, allungandosi a dismisura come Tiramolla il personaggio dei fumetti da lui preferito, riuscì a giungere con le mani fino al vetro della finestra. Stava già per aprire le imposte, quando, all’improvviso, il cielo cominciò a rischiararsi ed il sole apparve fulgido e luminoso. All’istante divenne sfolgorante e subito dopo ancora più sfolgorante ed abbagliante, ma talmente abbagliante da esplodere in centinaia di dardi scoppiettanti.
Di colpo si risvegliò nel buio della sua cameretta.
“E’ stato un sogno?”, mormorò confuso, tentando di raccapezzarsi.
Con la mano cerco la peretta della lampada, l’accese e rimase incantato a guardare. Sul comodino stava poggiato un minuscolo albero di Natale da cui pendevano, avvolti nella carta stagnola, alcuni dolcetti di cioccolato. Si stropicciò gli occhi per accertarsi che non stesse tuttora sognando, ma l’alberello era ancora lì. Poi si diede un forte pizzicotto sul polpaccio, ma il piccolo abete sintetico, con i minuti cioccolatini attaccati ai rametti, restava sempre al suo posto. Allora, col cuore che gli scoppiava dalla gioia, si sollevò dal letto, uscì dalla stanzetta e, correndo, si diresse verso la cucina illuminata, dove, seduto a tavola che cenava insieme alla mamma, vide suo padre.
Il giorno prima un malfattore, appena catturato in una bisca clandestina, spinto da un tremendo rimorso di coscienza, spontaneamente aveva dichiarato di essere uno dei rapinatori dell’ufficio postale campano, scagionando così il papà di Antonio e regalando al bambino il più bel Natale della sua vita.
Aci S. Filippo, dicembre 2006
9 dicembre 2007 alle 10:54 am
Grazie Angelo per questa bella storia di Natale. Ogni tanto ce ne vuole una
9 dicembre 2007 alle 5:23 pm
Ti ringrazio Andrea di aver letto il mio racconto, mi riprometto di leggere subito qualcosa dei tuoi scritti e di inviarti un mio commento
29 dicembre 2008 alle 4:21 pm
Racconto che commuove ,tenero come il sogno d’antonio .Ciao .Auguri!!!!
1 gennaio 2009 alle 10:56 pm
Bello, molto delicato! E soprattutto un po’ di bene ci vuole, nella vita…