Chris’ Archives

Una raccolta www.storydrawer.org

Il Bar d’Oltremare

Pubblicato da chris84 il 21 novembre 2013

Scarica come ePub

1 Star2 Stars3 Stars4 Stars5 Stars (No Ratings Yet)
Loading ... Loading …

Avevo scoperto l’esistenza di quel caffè durante uno dei miei frequenti vagabondaggi, cui mi dedicavo ogni qualvolta mi sentivo soffocare dalle quattro pareti di casa mia, o quando neanche la vista suggestiva che si godeva dal mio terrazzino riusciva a distrarmi e a farmi sentire in pace con me stesso, o ancora quando la mancanza di ispirazione mi impediva per periodi più o meno prolungati di proseguire il mio lavoro di scrittore. Un giorno, durante una di queste passeggiate, camminando lungo la spiaggia scorsi in lontananza un grosso promontorio sabbioso contornato qua e là da qualche palma, e decisi che quello sarebbe stato il punto d’arrivo della mia piccola escursione. Lentamente, senza alcun pensiero se non quello di godermi la lieve brezza che soffiava da oriente, mi avvicinavo sempre più alla mia meta, e quando finalmente vi giunsi, decisi di arrampicarmi, almeno per un tratto, sulla collinetta di sabbia. Dopo un po’ giunsi sulla cima, e rimasi sorpreso nel vedere che a ridosso di quel piccolo contrafforte di sabbia sorgeva quello che aveva tutta l’aria di essere un bar. Incuriosito, decisi di entrare per prendere qualcosa; l’intera costruzione era di legno, reso lucido dall’azione del tempo e della natura, e il bar appariva discretamente antico, con un vago gusto retrò. In cima all’ingresso, costituito da una porta a vetri romboidali colorati, sorgeva una piccola insegna con su scritto: Il Bar d’Oltremare. Fui ancora una volta colpito dall’aspetto sempre più singolare di quel posto, e senza ulteriori esitazioni spinsi la porta ed entrai.Il mio ingresso fu salutato da uno scampanio vivace. Richiusi la porta alle mie spalle, indugiando un attimo per guardarmi attorno: l’ambiente non era particolarmente spazioso, ma la luce che filtrava abbondante da diverse finestre bilanciava l’effetto leggermente claustrofobico che il locale avrebbe potuto suscitare in qualche animo inquieto; anzi, pensai che in inverno l’ambiente sarebbe stato piuttosto intimo, caldo ed accogliente. Il pavimento era cosparso di sabbia sottile e bianchissima, ed il percorrerne le assi consunte dava l’idea di trovarsi sul ponte di un antico veliero sperduto nel bel mezzo dell’oceano. Il bar era composto di un’unica sala, in cui trovavano posto non più di una decina di tavoli rotondi, disposti con ordine e gusto. Dall’altro lato della sala rispetto all’ingresso sorgeva un bancone di mogano, dietro il quale era possibile scorgere la robusta figura di quello che, mi dissi, poteva essere il barista. Costui era un tipo ben piantato e con le spalle larghe, aveva una zazzera di capelli brizzolati ed incolti che incorniciavano un viso buono e due occhi vispi e dall’aria intelligente. Mi diressi con passo sicuro verso uno degli sgabelli che attorniavano il bancone e mi sedetti; il barista smise di rassettare le varie colonne di bicchieri che vedevo impilati in gran ordine un po’ dappertutto, e rivolgendomi un ampio sorriso mi apostrofò: “Buonasera a voi signore, posso servirvi qualcosa?” Ordinai una birra, che mi venne prontamente servita, e mentre la sorseggiavo mi guardavo intorno, osservando i quadri appesi alle pareti, che ritraevano cavalli al galoppo oppure aggraziate ballerine in tutù, le finestre a bovindo da cui filtrava qualche raggio di sole superstite, le lampade a gas che pendevano da ganci infissi a intervalli regolari lungo le pareti. Mentre contemplavo tutto questo provai la sensazione di essere osservato: voltandomi verso il barista notai che mi guardava di sottecchi, come ad assicurarsi, pur senza essere indiscreto, che l’ambiente fosse di mio gradimento. Sentendomi quasi in dovere di rassicurarlo a mia volta dissi: “È davvero un bel posto qui, solo mi stupisco di non essermi mai accorto prima della sua esistenza.” – “Oh, vi ringrazio! Sono contento che questo posto vi piaccia,” disse il barista, con quello che ai miei occhi sembrava sollievo, “anche se, per quanto riguarda il vostro stupore, vi dico che non avete nulla di cui stupirvi…” mentre diceva questo sorrideva con fare ammiccante, ed io ebbi la sensazione che la luce si abbassasse repentinamente, anche se in una frazione di secondo pensai che probabilmente era colpa del sole, che ormai era tramontato del tutto. “Vedete,” stava continuando a dire il barista, “questo posto lo si può trovare soltanto in determinate situazioni e momenti della vita di ciascuno di noi: questo posto esiste per tutti coloro che cercano qualcosa, per tutti coloro che cercano un senso da dare alla propria esistenza.” Non saprei dire quali pensieri mi attraversassero la mente non appena sentii il barista pronunciare quelle parole, ma di sicuro parecchi di loro riguardavano l’idea che egli non fosse del tutto a posto con la testa. Evidentemente una parte o tutti questi pensieri dovettero trasparire dalla mia espressione, perché il barista abbandonò il suo mezzo sorriso e sporgendo leggermente il busto verso di me, disse: “Anche tu sei alla ricerca di qualcosa…” e strizzò impercettibilmente l’occhio, con quel suo fare sornione. Non so quale istinto guidò le mie azioni in quel frangente, fatto sta che senza dire una parola misi giù il bicchiere ormai vuoto insieme ad una cifra sufficiente a pagare il doppio di quello che avevo consumato, e voltati i tacchi uscii dal locale. Feci la strada a ritroso verso casa seguendo stradine secondarie che si dipartivano dalla spiaggia: non mi sentivo in vena di affrontare le luci e le persone che sicuramente a quell’ora affollavano la passeggiata sul lungomare. Per quanto non volessi ammetterlo a me stesso le parole del barista mi avevano colpito, e se avessi continuato a rimuginarci sopra sapevo che avrei finito per crederle vere. Iniziai così a ripetere tra me e me quello che nei giorni seguenti sarebbe diventato un ritornello fisso, un vero e proprio mantra: “non sono alla ricerca di nulla, non ho nulla da desiderare,” questo dicevo. Arrivato a casa mi spogliai in fretta ed andai subito a letto, sperando che l’indomani tutto questo sarebbe diventato solo un ricordo bizzarro. In un certo senso fu così, perché anche se non riuscii del tutto a disfarmi del ricordo di quella sera, per lo meno riuscii a relegarlo in un angolo buio e poco frequentato della mia mente, dove mi capitava di guardare molto di rado. I giorni si susseguivano uno dopo l’altro, ed io li occupavo dedicandomi a scrivere pagine su pagine, seduto davanti alla finestra aperta della mia camera, da cui era possibile godersi un panorama mozzafiato, ed allietato dalla compagnia della mia fida macchina da scrivere. In effetti era un buon periodo, quello: mi sentivo ispirato e le idee per proseguire con i miei romanzi arrivavano tutte al momento giusto, senza accavallarsi e senza nemmeno farsi attendere; godevo di quell’equilibrio quasi magico di serenità ed aspettative per il futuro, vagamente incerte, ma certamente eccitanti, e fondamentalmente non c’era nulla che turbasse la mia quiete fisica, mentale o artistica che fosse. Fu dopo parecchi giorni che le parole del barista tornarono prepotentemente a galla nella mia memoria, innescando un processo tanto inatteso (o forse dovrei dire da me stesso inconsciamente rimandato), quanto irreversibile. Era un tardo pomeriggio di fine primavera, assolato ma ventoso; ero seduto come sempre al mio tavolo davanti alla finestra, quando ad un tratto sollevai gli occhi dal foglio e decisi di prendermi una breve pausa che avrebbe avuto il duplice scopo di permettermi di rifornirmi del tè ghiacciato di cui non potevo fare a meno quando scrivevo e di dare un minimo di tregua alle mie dita leggermente aggranchite. Andai in cucina, riempii la caraffa e mi versai subito un bicchiere di tè; tornato nello studio decisi che la mia pausa poteva durare ancora qualche minuto, e così lasciai la caraffa col tè sul tavolo e decisi di godermi un po’ il fresco sul terrazzo: con i gomiti appoggiati alla balaustra osservavo gli uomini a bordo dei pescherecci che ultimavano i preparativi per trascorrere la notte al largo, a caccia di pesci, oppure mi perdevo nella contemplazione delle fronde dei pini che crescevano nel boschetto vicino a casa, e che stormivano producendo un suono che si fondeva con quello della risacca, creando un effetto quasi ipnotico; oppure ancora osservavo le poche persone che percorrevano la via, passeggiando senza meta oppure dirette con decisione da qualche parte. Mentre mi godevo quello scorcio di pace, ripetevo piano e senza averne quasi coscienza il mio ormai consueto ritornello: “non sono alla ricerca di nulla, non ho nulla da desiderare… non sono alla ricerca di nulla…” Sprofondavo sempre più nei miei pensieri, ed ero totalmente raccolto in me stesso, come una crisalide dentro il suo bozzolo; i pensieri fluivano senza impedimenti o ostacoli di sorta, e sembravano piccoli pesci argentei che sguazzavano allegramente nelle acque della mia mente. Ad un tratto un pensiero tra tutti gli altri, o almeno io suppongo fosse un mio pensiero, si impose all’attenzione dei miei sensi mezzo irretiti: vedevo una silhouette, inequivocabilmente femminile, che mi si avvicinava sinuosamente, ancheggiando in maniera quasi impercettibile. Veniva sempre più vicina, era a meno di cinque passi, tre passi, due… Quando quasi ci sfioravamo (ma è possibile sfiorare un’ombra?) lei si fermò, ed io potei sentire una sorta di calore emanare da quella figura. Cercavo di immaginare che profumo si sarebbe sprigionato dai suoi capelli e dalla sua pelle se fosse stata una donna vera, quando le sue braccia d’ombra ben tornite si allungarono verso il mio collo, stringendomi in un abbraccio; il calore aumentò, come i battiti del mio cuore che perentorio ritmava le mie emozioni talmente forte che pensai mi avrebbe potuto sentire chiunque nel raggio di chilometri. Quell’abbraccio stava scatenando in me tutta una serie di pensieri, e fino a quel momento non mi ero fermato a considerare che un gesto relativamente semplice quale appunto un abbraccio potesse essere fonte di tante emozioni diverse, ma ero felice di potermene beare, e affondavo il viso nell’ombra. Poi mi sentii toccare il viso con delicatezza e sollevai lo sguardo laddove avrebbe potuto esserci il volto della misteriosa inquilina dei miei pensieri. Il suo viso era sempre più vicino, ed io non riuscivo più ad essere perfettamente lucido, e sentivo uno stillicidio di trepidante attesa, per nulla spiacevole, farsi strada in me. Le nostre labbra si toccarono ed io sentii un tuffo al cuore, come non sentivo più da anni: sono sempre stato una persona molto sensibile ed emotiva, e da piccolo mi capitava spesso di provare sensazioni che si facevano strada in me tanto prepotentemente da far mancare uno o due battiti al mio cuore, cosa che non mi dispiaceva affatto, perché mi faceva sentire vivo e capace di vivere fino in fondo un’emozione. Crescendo, il mio cuore, quasi che col trascorrere del tempo acquisisse una maggiore consapevolezza dell’importanza del suo ruolo, smise di mancare i battiti come faceva quand’ero bambino; mi dicevo che il motivo di tutto ciò era che più si cresce, e meno si dà peso ai sogni, alle emozioni, ed a tutte quelle cose che ti fanno sentire vivo. Quando sentii quindi il mio cuore riprendere la sua vecchia abitudine abbandonata ormai da tanti, troppi anni, fui doppiamente felice, perché mi sentii più vivo di quanto lo fossi stato da anni, ed anche perché capii che forse in fondo qualcosa la stavo cercando anche io, e che il barista non si era sbagliato affatto. Non so se e a quante altre persone sia capitato di essere baciato da un proprio pensiero (badate che ho detto baciate da un pensiero, e non baciate in un pensiero), fatto sta che dopo quel bacio tornai lentamente in me, come un dormiente che si risvegli dopo un sonno lunghissimo. Aprii lentamente gli occhi, e voltai lo sguardo tutt’intorno: avevo l’impressione di stare vedendo tutto ciò che mi circondava con gli occhi di un bambino che vedesse il mondo per la prima volta; era trascorso molto tempo,  e anche se per i miei sensi la “visione” (non saprei come altro definirla) era durata pochi minuti al massimo, in realtà doveva essere passata qualche ora. Il sole ormai era nascosto per metà sotto l’orizzonte, e le prime stelle cominciavano a punteggiare delicatamente il cielo. Decisi che era giunto il momento di tornare a trovare il barista: presi al volo un maglione dal cassetto e mi avviai verso la spiaggia, mentre il blu profondo del cielo diventava man mano sempre più scuro. Impiegai un po’ di tempo a ritrovare il posto, perché col buio facevo fatica ad orientarmi; però fui guidato dai suoni e rumori che provenivano dall’interno del bar, cosicché la serata era ancora agli inizi quando varcai la soglia dell’ingresso, e la luna faceva appena capolino. Come la prima volta, non appena entrai mi diedi un’occhiata intorno: stavolta il locale era decisamente più affollato e rumoroso; alcuni dei tavolini erano occupati da clienti, tre dei quali sedevano assieme in un angolo, giocando a carte e chiacchierando con fare gioviale. Poco distante dal bancone alcuni tavoli erano stati spostati per fare spazio ad un trio di musicanti: un violinista, un chitarrista e un suonatore di fisarmonica. I tre uomini indossavano vestiti pittoreschi, portavano gioielli d’oro al collo e alle dita e sembravano essere zingari. Suonavano i loro strumenti con maestria, traendone ora ballate, ora melodie di una malinconia struggente, che andavano dritte al cuore. Di tanto in tanto, tra un brano e l’altro si fermavano qualche minuto, per sorseggiare vino o per chiacchierare col barista. Quest’ultimo appena mi vide entrare mi rivolse un ampio sorriso e mi fece cenno di accomodarmi al bancone. Con fare leggermente impacciato ed un mezzo sorriso di risposta mi diressi verso uno sgabello. “Mi fa piacere che sia tornato,” disse piano il barista. “Riconoscere il nostro bisogno di qualcosa è il primo passo.” Feci appena in tempo a stupirmi per le implicazioni più o meno palesi di questa affermazione che già i miei pensieri cominciavano a vagare… il primo passo verso cosa? E poi, come mi ripetevo da tempo, io non avevo assolutamente bisogno di nulla; ma soprattutto cosa diavolo ne poteva sapere quel barista, che tra un’ordinazione e l’altra continuava a guardarmi di sottecchi, di dubbi esistenziali e roba simile? Punto sul vivo, decisi di non replicare all’osservazione e mi chiusi in quello che ritenevo essere un dignitoso e condiscendente silenzio, dedicandomi ad osservare tutto ciò che avveniva all’interno del locale. La prima cosa che notai fu che c’era qualcuno che serviva ai tavoli: in effetti si trattava di una figura tanto affascinante e singolare che mi stupii di non essermi immediatamente accorto della sua presenza. Si trattava di una ragazza giovane e carina, che si muoveva con grazia facendo la spola tra i tavoli e il bancone; la sua figura era snella e ben tornita, ed era piacevole starla a guardare mentre serviva i vari avventori, muovendosi quasi a passo di danza, al suono delle note del trio di zingari. Ad una seconda occhiata mi apparve come una zingara anch’essa: la sua carnagione era scura, ripetutamente baciata dal sole; alle braccia e alle caviglie portava dei braccialetti d’oro e d’argento, che tintinnavano sommessamente, e gli abiti semplici che aveva indosso – una gonna rosso carminio, una camicetta bianca di mussola, generosamente scollata, e sulle spalle un leggero scialle dello stesso colore della gonna – insieme all’acconciatura vaporosa ed ai piedi scalzi che percorrevano le assi dell’impiantito, ai miei occhi le davano un’aria romanticamente piratesca. Rimasi rapito a contemplarla per diversi minuti, finché l’oggetto della mia attenzione non fu cosciente del mio sguardo: allora la ragazza mi rivolse un accenno di sorriso, e mi fece cenno affinché mi sedessi presso uno dei tavoli liberi, in un angolo vicino all’entrata. Incuriosito e affascinato, lasciai il mio sgabello presso il bancone e andai a sedermi dove la ragazza mi aveva indicato; sembrava incredibile, e all’inizio pensai solo che fosse un capriccio della mia immaginazione, ma la sagoma della ragazza era del tutto identica alla silhouette che aveva abitato i miei pensieri poche ore prima. Stetti ad osservare il suo andirivieni aggraziato per ancora qualche minuto, quando finalmente lei si avvicinò al mio tavolo. Mentre la osservavo avevo distrattamente afferrato uno dei piccoli menù che stavano disposti su ciascun tavolo, dedicando ad esso niente più di una rapida occhiata noncurante; la ragazza si chinò leggermente verso di me, ed io sentii il profumo che emanava dal suo corpo: era appena percettibile, ma non appena lo captai nella mia mente cominciarono a formarsi all’istante immagini di spiagge, languidi tramonti rossi e distese sterminate di onde spumeggianti. “Desideri qualcosa?” la voce della ragazza, leggera ma in qualche modo vibrante come il rintocco di una campana, interruppe il flusso di immagini che scorrevano davanti all’occhio della mia mente, facendole scoppiare come tante bolle di sapone. A tutta prima restai interdetto e non risposi alla sua domanda: mi aveva chiesto se volevo ordinare, oppure mi aveva posto la domanda in maniera volutamente ambigua, alludendo in realtà a qualcos’altro? Questo pensiero mi attraversò come un lampo, ma già l’istante successivo stavo dandomi mentalmente dell’idiota per aver anche solo pensato che la ragazza potesse alludere a qualcosa di diverso che ad un’ordinazione, e quindi dirottai il mio sguardo sul piccolo menù di carta plastificata che tenevo ancora in mano, ma la ragazza trasse a sé la sedia di fronte alla mia e si sedette. Ancora più interdetto ed imbarazzato di prima allontanai la mano dal menù e per qualche minuto io e la zingara ci osservammo senza parlare;  ad un tratto tutta la mia attenzione fu assorbita dalla contemplazione del suo volto, e del suo sguardo. Era una sensazione davvero strana: anche se ora avevo la certezza di essere stato baciato dalla sua ombra (o cos’altro?) quel pomeriggio sul terrazzo, ora, mentre osservavo i contorni del suo viso, tutto parve scivolare lontano, verso uno sfondo non meglio precisato; i clienti col loro vociare, il trio di zingari con le loro musiche velate di malinconia, il barista al bancone che faceva tintinnare i bicchieri e i deboli rumori provenienti dall’esterno divennero qualcosa di talmente remoto da sfiorare l’impercettibilità; ebbi come l’impressione di essere sott’acqua. In questo frangente di stimoli soffici ed ovattati il volto, e soprattutto lo sguardo della ragazza esplosero in tutta la loro caratteristica bellezza, ed io sentii di essere in procinto di smarrirmi nelle profondità di quegli occhi: ero incapace di distogliere il mio sguardo dal suo, così magnetico da farmi pensare alle occhiate ipnotiche dei serpenti che immobilizzano le proprie vittime prima di ucciderle. Probabilmente fu per questi motivi che non mi accorsi subito che la zingara aveva estratto un mazzo di tarocchi da una tasca sul davanti della gonna, e li stava rimescolando con movimenti lenti e misurati. Ci fu un frangente in cui gli occhi della ragazza smisero di fissare i miei, per spostarsi sul mazzo di carte dagli angoli usurati, ed in quell’esatto momento mi affiorarono alla mente pensieri di scetticismo e condiscendenza nei confronti della zingara e del suo mazzetto di tarocchi, ma subito li sentii sparire quando lei sollevò nuovamente lo sguardo verso di me, soffocati come la sabbia che soffoca e spegne un fuoco. Al limite del mio campo visivo vidi le sue mani pescare dal mazzo una carta dopo l’altra, e disporle a piramide sulla ruvida superficie del tavolo. “Il veliero,” disse in un sussurro ben udibile, “indica l’irrequietezza del tuo animo, e la sete di emozioni che alberga in te; il faro, insegui una luce che guidi il tuo cammino; il viandante, un viaggio ti attende, persegui una meta…” mentre la ragazza continuava a leggere le carte per me, anche se in realtà non le guardava affatto, il legame che teneva avvinti i nostri due sguardi si allentò quel tanto che mi permise di abbassare lo sguardo sulle figure dai colori vivaci disegnate sui tarocchi. Cominciai ad osservarle dalla cima della piramide che la ragazza stava formando via via che continuava a pescare dal mazzo, e quindi la prima immagine che vidi fu quella del veliero; l’artista che l’aveva rappresentato lo aveva posto nel bel mezzo di una tempesta: il cielo era denso di nubi scure, e lampi rossastri balenavano pericolosamente vicini agli alberi e al sartiame che reggeva le vele, illuminando a giorno il firmamento. Il mare ruggiva come una belva ferita (mi sembrava quasi di sentirlo), e le onde spazzavano la tolda, trascinandosi dietro uomini, animali e grossi frammenti di imbarcazione. Osservavo il disegno con un’attenzione quasi febbrile, esultando dentro di me ad ogni nuovo dettaglio che riuscivo a cogliere, quando improvvisamente mi accorsi che uno dei marinai aveva un volto del tutto simile al mio. Restai sconvolto, assolutamente incapace di reagire o di pensare ad alcunché, ma questa sensazione di sbigottimento durò soltanto un attimo: credo che quello sia stato il momento della mia vita in cui più mi sono avvicinato all’essenza dell’Universo, ed a comprendere che tutto è una sola cosa, e che siamo (o dovremmo essere) ingranaggi che lavorano in perfetta armonia tra loro. Superati questi primi attimi di stupore, continuai ad attardarmi sulle altre carte quel tanto che mi fu sufficiente a capire che la mia storia, la mia più intima essenza, i miei segreti, le mie paure e le mie speranze erano tutti lì, disegnati con maestria su quei tarocchi: in ciascuna delle altre carte infatti riconobbi il mio volto, camuffato sotto molteplici sembianze, ma perfettamente riconoscibile, almeno ai miei occhi. La ragazza aveva appena voltato l’ultima carta del mazzo, una rosa rossa i cui petali erano umidi di rugiada, quando smise di parlare e catturò di nuovo il mio sguardo col suo. Fu come vedere partire una pellicola nella mia mente: vidi me stesso stagliato contro il sole al tramonto in scenari esotici, mi vidi scalare montagne, guadare fiumi, discutere con mercanti ed azzuffarmi con marinai ubriaconi all’interno di locande dalla mobilia povera e dai nomi bizzarri, mi vidi comandare, obbedire, amare e soffrire, vidi il futuro (o forse il passato) che giaceva lì, a portata della mia mano, ed iniziai a tremare; mi sentivo la febbre addosso, ero insieme sconvolto ed eccitato, come un bambino che vede per la prima volta il mondo, e nella mia mente prendevano forma pensieri intraducibili con parole, visioni e sogni diventavano concreti, mentre la vita reale sbiadiva fino a diventare meno di un ricordo. Giorni, mesi, anni, scorrevano fluidamente davanti allo schermo della mia mente, veloci come lampi eppure nitidi e definiti come attimi di vita vissuta, ed io mi sentivo travolto dalla tempesta che scuoteva il mio cuore, eccitato e timoroso della furia delle sensazioni che mi si agitavano dentro. Tutto questo, che dentro di me ero convinto fosse durato ore, in realtà non doveva essere durato più di qualche minuto, perché quando finalmente tornai indietro dalle inesplorate regioni della mia mente mi ritrovai ancora seduto all’interno del bar, con il trio di zingari che continuava a suonare e col barista che continuava a governare le stoviglie ed a servire i vari avventori che entravano ed uscivano; la zingara aveva ricomposto il mazzo dei tarocchi e lo stava riponendo in tasca. Fatto ciò mi rivolse un altro sguardo, che però non mi catturò come gli altri, e mentre si alzava per  tornare ad occuparsi dei clienti, sentii perfettamente e con chiarezza la sua voce, anche se non vidi schiudersi le sue labbra: “Ti ho mostrato quello che si nascondeva nel tuo cuore, quello che in fondo hai sempre saputo risiedere nel profondo del tuo animo, quello che forse hai sempre tentato di soffocare. Adesso sta a te seguirlo, oppure lasciare che i sogni naufraghino e tornino alla loro dimensione di irrealtà.” Ancora tremante e leggermente malfermo sulle gambe poggiai delle monete a caso sul tavolo ed uscii. Appena fuori, nella notte, mi guardai  intorno e scorsi in lontananza alla mia sinistra un vecchio molo, e decisi di dirigermi lì per tentare di riflettere sugli eventi a dir poco singolari della serata. Mentre camminavo a passi malfermi respiravo profondamente l’aria notturna, fresca e piacevolmente salmastra, nella speranza che fosse sufficiente a schiarirmi le idee. Arrivato all’inizio del molo mi tolsi calze e scarpe, e poggiai i piedi nudi sulle assi di legno vecchie e corrose dall’umidità; mi sedetti e lasciai vagare il mio sguardo assente sulle onde orlate di spuma fosforescente, che si infrangevano pigramente sulla spiaggia nel loro eterno andirivieni. Per la prima volta ero seriamente e profondamente incerto su quello che volevo e su ciò che avrei dovuto fare: mi ero sempre considerato un sognatore, ma nonostante questo ben cosciente dei confini che dividono il sogno dalla realtà e quindi perfettamente in grado di gestire al meglio le due cose; adesso scoprivo di starmi sbagliando, che la dimensione fantastica ed irreale del sogno è tale solo perché noi vogliamo che lo sia, e viceversa per quanto riguardava la cosiddetta realtà. Tutto si riduceva ad essere una mera espressione della nostra volontà. Ma allora, mi dissi, basta il solo volere per tradurre un sogno, una fantasia, alla realtà? No, fu l’immediata risposta, fornitami dalla parte più razionale che albergava in me. Solo grazie a sacrifici, e comunque non sempre è possibile rendere reali i nostri sogni, anzi spesso i sogni sono e devono restare tali, servono solo ad appagare quelli che si potrebbero definire capricci dell’immaginazione, ma la vita vera è qualcosa di diverso. Mi dibattevo, sempre più confuso ed incerto, tra questi due estremi di fiducia nell’illusione e di disillusione verso ciò che non poteva essere reale, e mi sentivo come un pesce preso tra le maglie della rete: un attimo prima contemplavo visioni magnifiche di scenari tanto possibili quanto fantasmagorici, un attimo dopo mi rifugiavo tra le braccia conosciute e confortanti della mia vita attuale. Le ore scorrevano lente, frangendosi come onde contro le rive del Tempo, le stelle andavano sbiadendo, ed io andavo sempre più convincendomi che la zingara aveva solo fatto un po’ di scena, forse sperando in qualche spicciolo di mancia; tutte le strane coincidenze, la silhouette, i tarocchi, il barista, non erano altro che frutti di un’immaginazione fervida e suggestionabile quale in fondo era la mia. All’alba, infreddolito e stanco, ma finalmente risoluto, tornai sui miei passi; nel passare a qualche metro dal bar non riuscii a resistere all’impulso di entrare, magari per prendere qualcosa di caldo, e forse per indirizzare qualche sorriso di condiscendenza alla zingara, se l’avessi trovata ancora lì, dall’alto delle mie ormai riconsolidate certezze. Il solito scampanellio accolse il mio ingresso, ma fu l’unico suono che udii: nessuno sedeva ai tavoli, nessuna musica vibrava nell’aria e nessuno si dava da fare dietro il bancone. Pensai che forse era ancora troppo presto, e che tutti stessero ancora dormendo, stupendomi soltanto di aver trovato la porta d’ingresso aperta. Decisi di sedermi presso un tavolo e di aspettare, perché la voglia di tornare a casa ed andare a letto era stata sostituita da quella di una tazza di caffè caldo e forse, di quattro chiacchiere col barista. Mi accomodai dunque su uno degli alti sgabelli davanti al bancone ed aspettai, ingannando l’attesa con l’osservazione dei bicchieri e delle altre stoviglie impilate con cura e riposte sugli scaffali di mogano. I minuti si rincorrevano scorrendomi addosso, mentre cominciavo a sentirmi vagamente inquieto. Nessuno, né clienti di passaggio, né baristi, né zingari mise piede nel bar ed io, perso nuovamente nei miei pensieri arrivai a pensare di trovarmi all’interno di un sogno ad occhi aperti, e di essermi immaginato tutti i personaggi che avevano popolato la mia visione. Gli unici suoni erano il ticchettio delle lancette dell’orologio a parete, il suono del mio respiro e, in lontananza, il fragore della risacca. Non riuscivo a capire, l’intera faccenda mi appariva priva di senso, e mi sentivo come bloccato all’interno di un fotogramma, incapace di allargare la prospettiva in modo da vedere come sarebbe andata a finire la storia. Fu solo diverse ore dopo, quando il sole stava nuovamente per tuffarsi tra le onde cremisi del mare, che capii quale occasione mi fossi lasciato sfuggire e quale sarebbe stato il mio ruolo da quel momento in avanti. Mi afferrai la testa con le mani, cercando di non farmi sfuggire nemmeno un briciolo della consapevolezza che avevo acquisito in quel momento: il dolore per la mia scelta si sarebbe attenuato solo col passare del tempo e forse con gli sguardi grati di coloro che sarei riuscito ad aiutare in futuro. Lentamente e in silenzio mi alzai, mi misi dietro al bancone ed attesi…

Lascia un commento

XHTML: Puoi usare questi tags: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>