Le Storie del Cinghiale

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Macchie ostinate

Pubblicato da diego il 27 settembre 2008

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La cappella bianca era un punto definitivo. La sua linea spartiacque, in un certo senso.

Mario Rossi, nei suoi voli pindarici da primo mattino, arrivò a pensare che fosse la sua ombra a svegliarlo, l’ombra della cappella bianca. Ma naturalmente non era così. Era solo una piccola cappella che svettava come una vela bianca in mezzo ai campi di mais.

Arrivato a quell’altezza –se partiva in orario la raggiungeva verso le sette meno dieci- il sonno gli scivolava via di dosso come un vecchio vestito sudato, e lui sgusciava fuori dalla pelle notturna e si sentiva d’improvviso sveglio e tonico. E da lì in avanti correre diventava un piacere. Diventava un gioco.

La cappella era tutta bianca, aveva un centinaio d’anni. Era alta e stretta, i muri intonacati di un bel bianco acceso che nelle giornate di sole diventava accecante, e in cima aveva un piccolo campanile con una piccola campana.

Din-din, si sentiva quando un colpo di vento la faceva cantare.

Quella mattina Mario Rossi sfilò davanti alla cappella alle sette meno dieci spaccate. Stava correndo da venti minuti ed era giovedì. In fondo ai campi sorgeva proprio in quel momento un sole color succo d’arancia.

Fu allora che notò quella macchia nell’incavo dell’avambraccio, proprio vicino al punto in cui lo bucavano quando doveva fare le analisi del sangue. Sembrava una macchia di pennarello, una specie di virgola residua di un periodo da cui erano state cancellate tutte le parole. Una brutta macchietta nera. Un minuscolo sopracciglio corrucciato.

Provò a grattarla ma non venne via.

Strofinò, ma la macchia rimase dov’era con sorda impertinenza. Mario Rossi tentò di ricordare quando era stata l’ultima volta che aveva adoperato quella vecchia stilografica che perdeva dalla punta, ed era stato molto tempo prima. Da quell’epoca si era guardato il braccio numerose volte senza notare nessuna macchia. Ne dedusse che la vecchia stilografica non c’entrava niente. Era solo un’idea, dopotutto.

Tentò allora con il Vecchio Sistema dell’Indice Insalivato, infallibile contro le macchie d’inchiostro.

Fallì.

Non era un neo, e comunque lui non aveva mai avuto il problema dei nei, volendo escludere due capocchie di spillo sulla pancia. Non gli faceva male (ma ne avrebbe fatto di lì a poco? Chi poteva dirlo? Le malattie della pelle erano schifosamente imprevedibili). Non gli fece male nemmeno quando vi affondò l’unghia al centro.

Una coppia di corridori provenienti dalla direzione opposta lo incrociarono, e Mario Rossi era così preso dalla sua scoperta che per poco non li travolse. I corridori alzarono la mano per salutare –neanche un fiato, perché il fiato da quelle parti era merce preziosa-, e lo scansarono agilmente.

Mario Rossi era tutto preso dalla sua macchia. La leccò, la morsicò e la grattò di nuovo, arrossando la pelle intorno come marmellata di ribes. Tutto vano.

Non del tutto, anzi: la macchia parve trarre giovamento da quelle attenzioni.

Adesso era grande come una moneta.

-Ma che succede?- domandò Mario Rossi.

I grilli frinivano, gli uccelli cinguettavano, e non gli rispose un cazzo di nessuno. Strofinò con rinnovato vigore, e la macchia se ne stava sempre lì.

Molto più avanti, in prossimità del bivio che segnava la metà del suo percorso, si accorse che la macchia si era un po’ rimpicciolita. Non di molto, ma un pochino sì. E un pochino era già un miglioramento, pensò Mario Rossi. Era uomo di attitudine ottimista.

La macchia sembrava aver fatto tutto da sola, come se la scelta tra contrazioni e dilatazioni fosse di sua esclusiva competenza. La constatazione gli procurò comunque un subitaneo sollievo, e aggrappato a quel filo di speranza terminò la sua corsa e fece ritorno a casa.

Sotto la doccia tuttavia la macchia si aprì di nuovo e prese l’aspetto di una farfalla nera. Mario Rossi, allibito da quell’improvvisa recrudescenza, sgocciolò acqua fino in salotto e si attaccò al telefono. Insisté e minacciò fin quando non riuscì a strappare al medico un appuntamento per quel pomeriggio.

Lo studio si trovava nella zona vecchia del paese.

La saletta d’aspetto era vuota. C’era un carrello per le pulizie parcheggiato di fianco alla porta dello studio.

Il medico gli venne incontro, gli domandò cosa ci fosse di tanto urgente.

-È per via di questa macchia- disse Mario Rossi. –Potrei giurare che ieri non c’era, e stamattina invece era grande così.

Il dottore gli chiese di mostrargli la macchia.

Quando Mario Rossi sollevò la manica, il dottore sibilò.

Adesso era un malefico occhio di bue, grande come un fondo di bicchiere. Si era insediata a metà dell’avambraccio ed era un po’ schiacciata ai poli, come se si apprestasse ad un’ulteriore propagazione. Era costituita da due tonalità differenti di marrone, più scura sui bordi e più chiara al centro. I peli entro la zona contaminata erano ingrigiti.

Mario rossi gridò, e il dottore scattò sull’attenti.

Mario Rossi era convinto che avrebbe preso subito qualcuna delle sue medichesche contromisure. Un medicinale americano. Una pomata miracolosa. Perché la situazione, con ogni evidenza, era davvero gravissima. Invece tutto ciò che il medico fece fu prendere una mascherina bianca da un cassetto e indossarla.

-Dottore!- strepitò Mario Rossi. –Ma che cos’è quest’affare? Ieri non c’era. Non c’era, lo giuro davanti a Dio!

-Sì, bene…- disse il dottore. Si muoveva con cautela lungo il muro dello studio, come se fosse in compagnia di un leone o di un grosso serpente velenoso. –Ecco, non è niente di grave. È un male di stagione.

-Cosa?

-Perché non si accomoda fuori, per cortesia?- Il dottore guardò nervosamente l’orologio. –Ho fatto uno strappo alla regola perché non è orario di visita, ma ecco… adesso dovrei proprio andare via.

-Ma non ha visto questa macchia?

Mario Rossi fece per avvicinarsi con il braccio teso, e il dottore balzò repentinamente all’indietro.

Facendosi un gran coraggio, prese quindi Mario Rossi per il gomito (lo sfiorò solo con la punta delle dita, ed era l’altro braccio, naturalmente, non quello con la macchia) e lo sospinse verso la porta. –Sono di fretta oggi, vede. Mi perdoni, ma devo proprio scappare. Tempus fugit, non conosce questo detto?

-Ma che cosa devo fare con questa macchia?

-La cura migliore è non pensarci troppo. Le fa male, per caso?

-No, ma…

-Ecco, visto? Niente di grave, dunque. Deve solo fare un po’ di moto.

-Io vado a correre tutte le mattine, veramente, anzi è proprio mentre…

-Benissimo! E se non dovesse bastare, ecco- il dottore prese un flacone dal carrello delle pulizie. –Faccia degli impacchi con questa.

-Ammoniaca?

-Niente di meglio per questo genere di problemi.

Nel metterlo alla porta, il dottore ritrovò una certa dose di giovialità.

E fu così che Mario Rossi si ritrovò nella sala d’aspetto con un flacone di ammoniaca in mano –pieno solo per metà- e una macchia marrone sul braccio che continuava a crescere.

 

A casa versò il mezzo flacone di ammoniaca sulla macchia e strofinò vigorosamente dapprima con le dita, poi con uno strofinaccio e infine con una spazzola da bucato, ma a parte una lieve sensazione di fresco, non gli parve di aver cavato il più classico dei ragni dal buco. Allora si bendò il braccio con una fasciatura e si mise in poltrona con l’elenco del telefono in grembo. Trovò tre numeri di dermatologi e li chiamò tutti e tre.

Al primo numero rispose una voce giuliva di segretaria che gli confermò che sarebbe stata lietissima di fissargli un appuntamento con il Professore, non appena questi fosse tornato dal suo giro di conferenze nelle Repubbliche Baltiche. E quando sarebbe rientrato, di grazia? Domandò allora Mario Rossi, e la segretaria con la medesima impagabile gaiezza gli disse tra non molto, di lì a cinque settimane circa. Mario Rossi ringraziò e riappese. Che fosse dannata la sua anima immortale se avrebbe mai permesso a quella macchia orrenda di stazionare sul suo avambraccio per più di un mese. Dopotutto aveva altri due numeri a disposizione. Al secondo però un risponditore automatico lo informò che l’utente aveva cambiato sede e quel numero era stato disattivato, mentre al terzo –a quel punto comincia a credere che esistesse un preciso disegno per quello che gli stava accadendo, sebbene gli sfuggissero i motivi intrinseci- incappò in una segreteria telefonica dove il medico stesso lasciava detto che non sarebbe stato reperibile per i successivi tre giorni, perché si sarebbe recato come ogni anno a Villavecchia, alla Sagra del Vino Novello di cui era un ardente estimatore. I pazienti in cura presso di lui che avessero avuto bisogno di un consulto urgente, in ogni caso, avrebbero senz’altro potuto contattarlo al suo numero privato di cellulare. Grazie e arrivederci.

Mario Rossi allora sbatté il telefono sul tavolino e cominciò a passeggiare avanti e indietro, grattandosi furiosamente la testa.

Cinque minuti più tardi montò in macchina e andò dritto filato all’ospedale pubblico.

Un usciere in divisa blu gli comunicò che l’ufficio prenotazioni avrebbe aperto il mattino seguente alle nove e trenta in punto.

-Insomma- sbottò allora Mario Rossi. –Si può sapere cosa deve fare un onesto cittadino per farsi visitare? Potrei avere qualcosa di grave… di gravissimo! E non c’è un dottore nel raggio di cento chilometri!

L’usciere lo invitò a calmarsi. L’atrio era completamente deserto. Se proprio era una cosa urgente, gli disse, c’era pur sempre il Pronto Soccorso. Però allora avrebbe dovuto pagare il ticket.

-Che cosa vuole che m’importi del ticket? Dov’è questo Pronto Soccorso?

L’usciere gli indicò un lungo corridoio verde come una crema di piselli. Gli chiese se secondo lui la sua malattia era mutuabile.

-E io che cosa ne so?- rispose bruscamente Mario Rossi.

Il termine ‘malattia’ non gli era piaciuto per niente. Perdio, anzi, lo aveva proprio mandato fuori dai gangheri, ecco. Lui non aveva nessuna ‘malattia’, il suo era solo un lieve ‘problema cutaneo’, così si avviò verso il Pronto Soccorso senza curarsi di salutare l’usciere.

Il corridoio color crema di piselli finiva contro una vetrata, e dietro la vetrata si apriva una sala d’aspetto ampia come il salone di un castello. Per terra correvano lunghe corsie segnate col nastro giallo, che finivano tutte sotto due grandi pronte di vetro zigrinato. Sulla porta di sinistra c’era scritto PRONTO e su quella di destra SOCCORSO, e una targhetta attaccata al citofono recitava: SUONARE E ATTENDERE, GRAZIE.

C’era una lunga fila di seggiole arancioni imbullonate al muro, e le ultime due erano occupate da una donna seria e da una bambina. I piedi della bambina non arrivavano a terra, e così a lei non restava altro che dondolarli in silenzio. Al centro della fronte aveva un bernoccolo grosso come una noce, e portava sul viso i segni di un pianto recente.

Ognuno ha i suoi problemi, pensò Mario Rossi, riflettendo che non gli sarebbe affatto dispiaciuto fare a cambio. Si sarebbe preso volentieri il bernoccolo e avrebbe regalato alla bambina un braccio ammuffito. Perché no? Aveva tutta la vita davanti quella piccola strega…

A parte quelle due e Mario Rossi, nella sala d’aspetto non c’era nessun altro.

Pigiò il bottone del citofono, cavandone un lungo richiamo da insetto morente.

Dopo molto tempo, un’ombra lenta comparve dietro il vetro zigrinato e la porta scattò.

-Ho un problema- disse senza preamboli Mario Rossi, meditando se fosse il caso di informare l’infermiera che era un problema grave e preoccupante. Questo lo avrebbe detto di certo al medico che di li a poco lo avrebbe visitato.

-Questo lo immaginavo- disse l’infermiera. Era anziana. Indossava occhiali legati da una catenella di perline azzurre come gli occhi dietro le lenti. Occhi glaciali. Occhi che ne avevano viste tante e forse le avevano viste tutte. Occhi che recitavano: qualunque sia il suo problema, dopo tutti questi anni non sarà certo lei a cavarmi una singola, minuscola goccia di sbalordimento. Anche la punta dei suoi riccioli sembrava emettere tenui bagliori azzurri, ma doveva essere solo un riflesso delle luci fluorescenti, perché alla radice erano indubitabilmente grigi. –E vuole anche dirmi quale genere di problema, oppure devo tirare a indovinare? Bruciatura? Scottatura solare? Puntura d’insetto? Eczema? Lacerazione? Magari un dolorino alla prostata? Guardi che sono in grado di andare avanti per molto tempo.

-Bè- disse Mario Rossi leggermente imbarazzato. –A dire la verità non so cosa sia. Ho una macchia, ecco.

L’infermiera non fece una piega. Disse: -Allora che cosa ne dice di disfare quella benda e lasciarmi dare un’occhiata?

-Ma non c’è un medico che…- Mario Rossi incrociò il suo sguardo (quanto avrebbe voluto evitarlo) e quindi disse: -Oh, certo!

Cominciò a disfare la benda e ad un certo punto l’infermiera gli comunicò che il suo turno sarebbe finito di lì a tre ore. Non avrebbe creduto possibile impiegare tre ore per disfare una benda, ma a quanto pareva era possibile che Mario Rossi fosse in grado di stabilire quel primato.

Quando vide cosa c’era sotto la benda, l’infermiera si strinse le mani sul torace piatto, come se avesse scoperto una falla che era necessario turare immediatamente prima che le cascasse fuori il cuore. La benda cadde a terra. Un lembo finì sulla scarpa di Mario Rossi e l’infermiera si ritirò nel Pronto Soccorso con la rapidità di una murena che rientra nella tana, sussurrando: -Aspetti qui.

La porta si richiuse di scatto.

Qualcuno alle spalle di Mario Rossi mormorò: -Vieni, Marta, sbrigati. Su, andiamo.

-Mamma, ma che cos’è quella roba?

-Non è niente. Vieni via, e smettila di guardare.

Mario Rossi si girò appena in tempo per vedere la donna e la bambina imboccare il corridoio crema di piselli con una certa urgenza.

Al posto di loro due, entrò un soffio di brezza che percorse tutta la sala d’aspetto, gli si avvitò intorno ai piedi e gli spostò la benda dalla scarpa.

Mario Rossi non era un credulone e non era un cialtrone. Aveva solo un problema di macchie. Di macchie che crescevano, come quella che ora gli occupava una buona metà dell’avambraccio.

Si sedette sulla seggiola di plastica dove poco prima era stata seduta la bambina, congiunse le mani in grembo e aspettò.

Trascorse mezz’ora, e nessuno si fece vedere.

Suonò di nuovo il citofono, e nessuno venne ad aprire, e così passarono altri dieci minuti. In quel lasso di tempo la macchia crebbe a dismisura, allungando perfino un tentacolo diabolico verso la spalla. Mario rossi si attaccò al citofono, facendolo berciare come un coleottero infuriato. Tempestò di pugni la porta di vetro zigrinato, e di lì a poco si sarebbe messo a gridare aiuto a squarciagola, cosa che non accadde solo perché qualcuno infine si decise ad aprirgli.

Era un’altra infermiera, più giovane e più attraente della collega, e a quanto pareva anche notevolmente più arrabbiata. Aveva i capelli fuori posto -bei capelli neri, lisci come seta orientale-, il viso colorito e il rossetto con un impercettibile sbaffo diagonale. La divisa candida sembrava indossata di fretta: il bottone più alto era infilato nell’asola sbagliata.

-Si può sapere che cosa succede? Pensa di essere allo stadio?

-Sto aspettando da mezz’ora!- strillò Mario Rossi. –La sua collega mi aveva detto di aspettare, e io ho aspettato… ma si può sapere che cosa state facendo tutti quanti? Io ho bisogno di aiuto!

-Che cosa le prende? Mi vuol dire che cosa le succede?

Ma prima ancora che Mario Rossi potesse fare alcunché, la giovane e prosperosa infermiera abbassò lo sguardo e lo vide da sé.

-Ah!- esclamò. –È lei…

-Sono io- confermò Mario Rossi. –Allora, che cosa vogliamo fare?

-Aspetti qui un momento.

-Ma io non ho intenzione di…

Per la seconda volta Mario Rossi si prese la porta in faccia e rimase solo.

Aspettò cinque minuti, poi suonò di nuovo. E suonò ancora. E picchiò la porta coi pugni. E suonò. E intanto il tempo passava. Passava. E questa volta gridò. E venne ad aprire una terza donna, che non era anziana e non era giovane.

Non era nemmeno un’infermiera.

Indossava un camice azzurro sottile e molto ordinato e brandiva con una certa autorità un lungo e minaccioso spazzolone di legno. Indossava guanti di gomma verde.

-Lei chi è?- chiesero insieme Mario Rossi e la donna.

-Io sono un paziente.

-Io sono Miriam.

-Bene. Adesso posso vedere questo dottore, finalmente? Devo essere curato.

-Il medico di turno è su in reparto- disse Miriam. Poi si avvicinò e gli confidò: -Da regolamento non potrebbero farlo, sa? Ma la prassi comunque è quella. Lavorano allo studio privato, e poi quando sono di turno in Pronto Soccorso salgono in reparto a farsi una ronfatina. Lo so perché li ho visti con i miei occhi.

-Sì, ho capito, ma…

-Non dovrei dirglielo, ma secondo lei che giustizia c’è al mondo, se io sono qui a parlare con lei con uno spazzolone in mano, e quello che dovrebbe essere qui invece sta di sopra a dormire?

Mario Rossi avrebbe dovuto pensare che in effetti di giustizia al mondo ce n’era ben poca, come aveva già avuto modo di constatare più volte di sua propria mano, e sembrava che ogni agente e ogni effetto fossero invece preda del caos più assoluto. Ma in quel momento era così stralunato da non pensare niente del genere. Tentò di rimanere calmo, operazione che gli riusciva sempre più difficile.

-Vuole essere così cortese da andare a svegliare questo dottore, Miriam, prima che perda del tutto la pazienza?

Miriam allora si ritrasse. –Spero che non mi stia minacciando. Io sono venuta ad aprirle, ma sappia che, da regolamento, non sarei affatto tenuta a farlo. Le sembra che abbia indosso una divisa da infermiera? Anzi, per essere precisi sarebbe una palese violazione del regolamento. Potrebbero farmi una lavata di testa se lo sapessero, e secondo lei che giustizia ci sarebbe?

-Nessuna.

-Infatti. Avevo provato a fare il test di ammissione alla scuola da infermiere, lo sa? Avrei potuto essere qui, dove sono adesso, con una siringa in mano invece dello spazzolone, e il camice bianco invece di quello azzurro, e di certo sarebbero cambiate molte cose. Invece niente. Solo perché mi sono permessa di sbagliare un paio di domandine piccole così. Invece sono solo la donna delle pulizie e spingo tutto il giorno il mio carrello, e se cerco di avere una tresca con un dottore… niente! Pensa che loro mi guardino? Macché, nemmeno di nascosto. Comunque, il dottore non verrà.

-Prego?

-Sempre da regolamento- gli spiegò la donna. –Il medico di turno può intervenire solo su casi di estrema urgenza, una volta passato l’orario. E come dimostra la mia presenza qui, l’orario e appena passato, quindi stia pur sicuro che quello lassù- indicò il soffitto con lo spazzolone. –Muoverà il suo prezioso sederino solo per un caso di estrema urgenza.

Mario Rossi si sentì travolgere da un maremoto.

Mise l’avambraccio macchiato sotto il naso di Miriam. Ormai era quasi completamente marrone. I peli erano diventati grigi e serici come fiocchi di soffione.

-Dica un po’, Miriam, questo non le sembra abbastanza grave, da regolamento?

-Che schifo- disse Miriam. –Mi stia lontano, per cortesia, potrebbe essere contagioso. Non sono io a stabilire le priorità, qui dentro. È l’Amministrazione che le stabilisce. Io pulisco solo i pavimenti, e se vuole saperlo non chiederebbero mai la mia opinione, anche se avrei un paio di suggerimenti su come mandare avanti questa baracca. Ma lo sa che abbiamo gli scarafaggi nelle cucine?

-Non mi frega niente dei suoi scarafaggi! Io voglio un DOT-TO-RE!

-Le interesserebbe eccome se lei fosse ricoverato qui e fosse costretto a mangiare il cibo della mensa. Allora vorrei vedere come mi risponderebbe. Le dirò una cosa, caro mio, è proprio questo genere di menefreghismo che manda tutto a rotoli. Per tornare a noi, i casi urgenti arrivano sempre in ambulanza, e io qui non vedo nessuna ambulanza. Pertanto anche una misera donna delle pulizie come me è in grado di capire che lei non è un caso urgente. Il dottore mostra il suo bel musetto solo per le ambulanze. A meno che non sia appartato con un’infermiera. In quel caso non si muoverebbe nemmeno per un’intera carovana di ambulanze a sirene spiegate e con una scorta di pagliacci in carrozza che suonano grancasse e contrabbassi.

-Ma che sta dicendo!

-Manderebbe giù il dottorando.

-Allora c’è qualcuno!

-Nemmeno per sogno. E adesso dovrei tornare ai miei pavimenti, se mi permette.

-Aspetti, Miriam, la prego… io ho bisogno di aiuto, non vede come sono combinato?

-Faccia come dico io- disse Miriam. –Ci metta sopra un bell’impacco di ammoniaca. Mia nonna ci risolveva quasi tutto, sa, calli, allergie da fieno… I vecchi sistemi di solito sono i più efficaci. Oh, e non dimentichi di fare del moto.

-Cosa?

-Mi scusi, mi scusi…

Miriam accostò la porta e sparì.

Invece di abbandonarsi ad un pianto disperato, atteggiamento che avrebbe esecrato, lui, pratico com’era, si lanciò a passo di corsa lungo il corridoio crema di piselli e fece ritorno alla guardiola.

Piazzò le mani sul banco della ricezione e schiacciò il naso contro il vetro.

L’usciere, che stava tentando con scarso successo di completare uno schema di parole crociate, alzò lo sguardo su di lui.

-Lei adesso fa venire un medico- intimò Mario Rossi. –O quanto è vero che mi chiamo Mario Rossi faccio venire i Carabinieri e vi faccio arrestare tutti, voi e le vostre tresche. Vedremo quanta voglia avrete di scherzare con loro, ah-ah.

Senza dire nulla, l’usciere mollò la biro che impugnava e si attaccò alla cornetta. Parlò a bassa voce. Annuì, ringraziò, e infine riagganciò.

-Il dottore è uscito un minuto fa. Ha detto che aveva una visita urgente nel suo studio.

-Ci sarà qualcun altro!

L’usciere scosse la testa. –Dovrebbe tornare domani mattina. A quest’ora sono rimaste poche infermiere e i pazienti. Abbiamo il personale ridotto per via dei tagli al bilancio, capisce? Vuole che le chiami un’infermiera o un paziente?

-Io voglio un dottore! Io pago le tasse!

-E cosa vorrebbe dire con questo? Che forse noialtri non le paghiamo? Siamo tutti persone oneste, compreso qualche medico. Allora, se proprio vuole un dottore, ed è in grado di correre veloce, può raggiungerlo nel parcheggio interno. Ha una grossa macchina nera. Ha capito?

-Grossa macchina nera. Si!

-Da quella parte- gli indicò l’usciere. –Si sbrighi, si sbrighi.

Mario Rossi partì al galoppo.

Intorno all’ospedale c’era un giardino fiorito molto ampio e ben curato, pieno di aiuole e piante ornamentali. C’era perfino una fontanella che funzionava nei mesi estivi e restava asciutta in quelli invernali. Il parcheggio interno si trovava a poca distanza dal corpo centrale dell’edificio, su un’altura soleggiata circondata da venticinque aceri giapponesi. In mezzo alle auto si aggirava una figura un po’ gobba che reggeva nella destra un’inconfondibile borsa panciuta.

-Aspetti, aspetti! Per carità!

Il dottore lo vide e aumentò l’andatura. Si stava dirigendo verso una grossa macchina nera. S’infilò dentro e avviò il motore. Mario Rossi piombò sull’auto come una frana di massi, si aggrappò allo specchietto ed era in procinto di arrampicarsi sul cofano, quando il finestrino si abbassò.

Il medico era un vecchietto. Aveva il viso tutto raggrinzito e per niente contento.

-Ma si può sapere che cosa vuole? Chi è lei?

-Sono un paziente- gridò Mario Rossi. –Sono gravissimo, ho bisogno di aiuto.

-Ho finito il turno- protestò il medico. –Ho finito il turno, devo passare allo studio e poi devo andare a pescare. Ne ho abbastanza per oggi. Torni domani e vedrà che andrà tutto bene.

-Sto male dottore, sto malissimo. Ecco, guardi il mio braccio!

Mario Rossi notò una scintilla di sgomento dardeggiare nelle sue pupille.

Il finestrino prese a risalire.

-Mi aiuti dottore, che cosa mi succede?

-Niente di grave- disse il medico. Però sulla fronte gli era comparso un velo di sudore. Il vetro del finestrino continuava a salire inesorabile, implacabile, chiudendo, tagliando, dividendo e separando. –Niente che qualche impacco di ammoniaca non possa risolvere, di sicuro.

-Ma li ho fatti! Ho fatto gli impacchi, dottore, lo giuro su mia madre!

-Allora deve fare del moto.

Poi il vetro lo sigillò dentro la sua grossa macchina nera. Partì bruscamente, sollevando polvere e pietrisco, e Mario Rossi si ritrovò avvolto in quella nube sotto una tremula pioggia di foglie di acero. Rosse come sangue. Rosse come le cose andate via.

 

Il mattino seguente Mario Rossi si alzò di buon’ora e andò a correre. Sfilando davanti alla cappella bianca diede una sbirciata timorosa al suo braccio destro, terrorizzato da ciò che avrebbe potuto vedere… e scoprì che la macchia si era ritirata. E non di poco, ma quasi completamente. Era tornata alle dimensioni di un piattino da caffè. Estendeva la sua ributtante ampiezza solo all’incavo del gomito, pressappoco nei dintorni del punto in cui si era originata. Lo pervase un sollievo caldo e benefico, che gli sollevò in alto il cuore come un tappeto magico.

Ma non era solo una sua impressione, no?

La sera precedente, quando era riuscito a mettersi a letto avvolto da un terrificante olezzo di ammoniaca, la macchia si estendeva come un terreno bruciato dalla spalla fin quasi al polso, tanto che pensava che qualcuno di quei brutti viticci marroni sarebbe rimasto visibile anche se avesse indossato la camicia a maniche lunghe. Appena sveglio non aveva avuto nemmeno il coraggio di guardare.

Invece scoprì che la macchia malefica stava battendo in ritirata e disse: -AH!

E lo disse così forte che se non fosse stato solo in mezzo a quei campi di granoturco avrebbe fatto zompare qualcuno dallo spavento. Ma laggiù era solo. La coppia di corridori più prossima lo avrebbe incrociato solo di lì a dieci minuti.

-Finalmente!- esclamò, roso da un’incontenibile attacco di buonumore. Si sentiva proprio bene. Si sentiva gagliardo. Si sentiva così fottutamente fortunato che se da quelle parti ci fosse stata una tabaccheria avrebbe acquistato immediatamente un biglietto della lotteria –uno solo- sicuro che avrebbe vinto.

Dunque quella storia dell’ammoniaca dopotutto non era campata per aria. Anzi, si era dimostrata eccellente. Gli impacchi avevano solo bisogno di un po’ di tempo per agire. Perché mai aveva continuato a nutrire tutti quei dubbi? La cura che gli avevano dato era efficace, e se non lo avevano visitato… bè, che importanza poteva mai avere?

Nessuna.

La sola cosa importante era che stava guarendo. Indubbiamente. Avanti di quel passo, prima di sera la macchia sarebbe ritornata alle dimensioni di una nocciolina tostata, e per domenica avrebbe avuto indietro il suo braccio nuovo di zecca, ripulito e profumato.

All’orizzonte, dove il sentiero diventava sottile e una fila di pioppi si muoveva al vento dell’alba come una criniera verde, comparve la coppia di corridori. Mario Rossi allungò il passo. La scoperta lo aveva rifornito di nuove energie, gli aveva immesso nei polmoni litri di ossigeno fragrante e corroborante.

Divorò la strada che lo separava dagli altri due.

Attraversò il ponte delle chiuse di irrigazione e disse: -Buongiorno, buongiorno!

I due corridori lo salutarono. Erano persone di mezza età. Mario Rossi, al fianco loro, si sentiva arzillo come un tredicenne. Mentre loro sbuffavano e correvano, e sudavano moltissimo, lui avrebbe potuto continuare a correre anche fino a mezzogiorno. O anche a mezzanotte, se solo qualcuno lo avesse sfidato a farlo.

I due corridoi lo guardavano di sbieco, con  un certo timore gli parve, come se fosse giunto alla loro corte cavalcando un ippogrifo di fuoco, invece che su un paio di comuni scarpe da ginnastica.

Mario Rossi faceva di tutto per tenere bene in vista il braccio destro. Voleva che notassero lo straordinario miglioramento operato dagli impacchi di ammoniaca.

-E come andiamo?

-Andiamo bene- rispose l’uomo.

Mario Rossi agitava le braccia come un gabbiano in bilico su uno scoglio, fingendo di respirare profondamente quando invece non ne sentiva affatto il bisogno.

-È proprio una gran bella giornata, non è vero?

-Proprio bella- commentò la donna. Guardava Mario Rossi di sottecchi, come se sotto la lingua celasse una domanda imbarazzante che scalpitava per venire alla luce. Infatti poco dopo gli chiese: -Che cos’ha fatto al collo?

Mario Rossi era così preso da quella bella giornata che sulle prime non comprese il significato di quelle parole.

Cosa gli aveva chiesto?

Quando ha fatto quel gran volo?

Ha mangiato il suo bel pollo?

No.

Gli aveva chiesto cos’aveva sul collo.

Una domanda priva di senso, visto sul suo collo non c’era proprio niente.

O no?

La donna gli stava indicando con l’indice un punto che lui non riusciva a vedere. Si toccò, e confermò: -Non ho niente sul collo.

-Certo che ha qualcosa- disse la donna. –Il bel volto di Gesù mi illumini se so cos’è, ma ha qualcosa di sicuro. Dev’essere una di quelle malattie della pelle.

-Mi prende in giro?

Forse la donna lo prendeva in giro e forse no, ma il ribrezzo disegnato nei suoi occhi grigi sembrava genuino. E poi lei e suo marito si stavano allontanando: a piccoli passi, passetti impercettibili, un centimetro alla volta, come due placche tettoniche sospinte dal ribollire di una faglia oceanica. Come due metà di una mela spaccata, mentre in mezzo restava… cosa restava

Un torsolo guasto.

Mario Rossi, in altre parole.

-Che cosa sta dicendo? Cosa avrei sul collo, di grazia?

Nella sua voce erano affiorati nervosismo e panico, grossomodo in pari dosi.

-Se fossi in lei mi farei visitare- disse l’uomo. –Circolano certe malattie proprio brutte, ma se sono prese in tempo si limitano i danni. Credo che dovrebbe provare con degli impacchi di ammoniaca, o qualcosa di simile. Ma un dottore le darebbe qualche buon consiglio, di sicuro.

Detto questo fece un cenno alla moglie e i due fecero dietro-front, ordinati come un plotoncino avvezzo a quel genere di manovra. Si allontanarono nella direzione opposta. Mario Rossi li inseguì per un breve tratto, ma quelli accelerarono il passo. Erano molto ben allenati. Molto più di quanto sembrava a prima vista.

-Aspettatemi! Che cosa ho sul collo? Oh, mio Dio, volete dirmi cosa ho sul collo?

Ma i due si allontanavano sempre più in fretta.

Tornato a casa, Mario rossi vide finalmente cos’aveva sul collo: una macchia di dimensioni straordinarie, spessa e soffice. Sembrava che avesse indossato una sciarpa di velluto marrone. E la macchia si spostava –si allargava per la verità- in movimenti liquidi e sinuosi.

Si schiaffeggiò con una certa violenza, ma la pelle marrone non arrossì. Rimase marrone.

La macchia dunque non se n’era andata, si era solo spostata.

E non era tutto, perché, adesso anche la macchia sul braccia aveva riacquistato vitalità, riconquistando buona parte dei territori perduti durante la notte. Divorava la pelle rosa centimetro dopo centimetro.

Mentre le macchie avanzavano inesorabili, Mario Rossi scoppiò in un pianto dirotto davanti allo specchio. Uscì sul pianerottolo e si attaccò al campanello dell’alloggio dirimpetto.

-Chi è?- domandò una voce soffocata.

-Sono io- disse Mario Rossi tra i singhiozzi. –Sono Mario Rossi dell’alloggio di fronte. Ho bisogno di aiuto! Aiuto!

Scattarono un numero imprecisato di chiavistelli e comparve sulla soglia una donna dall’aria preoccupata.

-Che cosa…- ma le parole le morirono in bocca non appena si trovò di fronte lo spettacolo di quell’uomo divorato dalle macchie.

-Mi aiuti- disse Mario Rossi, e così dicendo allungò verso di lei un specie di brutto tentacolo marrone che una volta, non molto tempo addietro (a dire il vero pochi minuti prima), era stato un braccio destro. La signora strillò, e fra lei e Mario Rossi si frapposero con un gran boato cinque centimetri di massiccio noce nazionale.

-Sono solo macchie- piagnucolò Mario Rossi, accasciandosi davanti all’uscio sprangato. –Sono solo macchie, non abbia paura. Solo che… solo che…

Incespicò giù per le scale. Ora le sentiva anche, quelle macchie orrende, come un brulicare di insetti che gli correvano sulla pelle, incrostandola e nascondendola. E sprofondando. Gettavano radici e cominciavano a succhiare, adesso.

Mario Rossi le sentiva.

Scese in strada, dove un sole abbagliante illuminava un asfalto gremito di gente a passeggio. Era una bella giornata estiva. Un giorno di gelati, e ombre nitide, e belle chiacchiere sotto il tempo clemente. Mario Rossi abbrancò il primo sconosciuto che gli capitò a tiro. Era un signore con il giornale sottobraccio e un barboncino nero al guinzaglio. Del viso di Mario Rossi ormai non erano più visibili che gli occhi, rimasti del loro vecchio azzurro brillante. Facevano impressione, in mezzo a quella pozza di verdi e marroni mutevoli.

-Mi aiuti- lo pregò. Gli tirò la manica della camicia con le dita marroni.

-Giovanotto, gliel’anno detto che carnevale è passato da un pezzo, e quella festa americana con le zucche invece deve ancora arrivare? Credo proprio che abbia sbagliato stagione, sa? Mi lasci andare la camicia, su.

Il barboncino si avvicinò, annusò i piedi di Mario Rossi e gli elargì una breve pisciatina sulla scarpa sinistra. Mario Rossi l’accettò con preoccupante noncuranza.

-Scusi tanto- disse il padrone del barboncino. –Comincia ad avere i suoi anni e soffre un po’ di prostata, e così non riesce a trattenerla molto a lungo. E poi ad essere sinceri è il cane di mia moglie, non il mio. Io lo porto a passeggio quando scendo a prendere il giornale. Se fosse per me ne farei anche a meno, solo che poi la fa in casa.

-Mi aiuti, la prego!

-Lei ha bisogno di aiuto, giovanotto, e questo birbantello di certo non ha migliorato la situazione. Ma per prima cosa, mi permetta, dovrebbe togliersi quella cosa di dosso. Quella… maschera. Non le sembra una giornata un po’ calda per andarsene in giro travestito? Bene, adesso devo proprio andare.

L’uomo s’incamminò seguito dal barboncino incontinente, e Mario Rossi si gettò su qualcun altro.

Ma la gente lo scansava, e lui ad ogni passo si sentiva più debole, come se tutte quelle macchie, oltre a fornirgli un’inconsueta colorazione a corteccia di abete, avessero acquistato peso. Lo ricoprivano come le scaglie di un pesce.

Sbandò a destra e sbandò a sinistra, mentre le parole gli gorgogliavano fuori di bocca ed erano ciascuna più incomprensibile della precedente. La gente lo evitava, e lo guardava con intenso ribrezzo, con occhi lampeggianti che dichiaravano: mai e poi mai, per nessuna ragione e nemmeno per tutto l’oro del mondo si sarebbero avvicinati a meno di dieci metri da quell’orribile mucchio marcescente. E poi perché gli addetto della nettezza urbana non si occupavano di liberare il suolo pubblico da certa immondizia? Erano forse di nuovo in sciopero? Avevano trovato il modo di guastare ai bravi cittadini la loro bella, pulita, ordinata domenica a passeggio?

Non c’erano risposte.

E non erano comunque necessarie, perché a quanto sembrava, con buona pace di tutti i bravi, buoni e ordinati cittadini, il cumulo marrone si spostava da sé.

Ecco l’immondizia perfetta, pensò qualcuno, quella che si toglie dai piedi da sola!

Il cumulo si avviò nella direzione in cui i caseggiati si diradavano, sostituiti da campi di granoturco, e lunghe file di pioppi, e imponenti alberi di gelso. Dove c’erano i sentieri su cui i cittadini con tanto impegno correvano per mantenersi in forma. Scappava giù di là, il cumulo marrone, con una curiosa andatura da armadillo.

Nessuno lo seguiva.

Forse aveva bisogno di fare del moto.

 

Giorni più tardi due cinquantenni correvano lungo un bel sentiero verde, sotto i tiepidi raggi del sole. La brezza del primo mattino era fresca. Erano entrambi grati che il lieve cambiamento di percorso che si erano studiati gli avesse consentito –fino a quel momento, s’intendeva- di evitare incontri indesiderati con certuni strani individui. Adesso correvano abbastanza lontano dai percorsi abituali.

Giunsero ad un certo punto dove a lato del sentiero giaceva un vecchio tronco abbattuto, di un orrendo color marrone, pieno di bozzi e di bitorzoli. La corteccia era lucida in certi punti, come se fosse stata strofinata a lungo.

-Potrei giurare che ieri quel tronco non c’era- disse la donna, fermandosi ad osservarlo.

-Sembra anche a me- disse l’uomo. –Lo avrà buttato giù il temporale.

-Forse sì. Però non c’è stato nessun temporale. E sono abbastanza sicura che non c’era nemmeno un albero, da questo lato del sentiero.

-Già, è vero. Allora lo avrà tirato via un contadino e lo avrà abbandonato qui.

-In riva al fosso?

-E perché no?

-Il legno sembra asciutto. A parte lì, vedi? Dove è tutto marcio. Vicino… alla testa.

Il marito rise forte. –Che razza di idea.

Comunque sì, doveva convenire con sua moglie, senz’altro dotata di più immaginazione di quanta il buon Dio avesse concesso a lui, che quell’abbozzo rotondo in cima sembrava proprio una testa… e volendo quei rami secchi di fianco sembravano braccia.

-Abbiamo ancora legna per il caminetto?- chiese la donna.

-Poca. Potrei venire nel pomeriggio con la macchina e la motosega. In fondo se lo hanno buttato qui, nessuno lo verrà a reclamare.

-Non credo proprio. E poi è mezzo marcio.

Parlavano così, e un attimo dopo riprendevano a correre e pensavano ad altro. A cosa avrebbero messo in tavola a mezzogiorno, per esempio.

La campana della piccola cappella bianca a quel punto fece din-din.

Din-din.

4 Commenti a “Macchie ostinate”

  1. bernardodaleppo dice:

    Insomma…
    qualcosa non convince

  2. emmaus2007 dice:

    Non sono d’accordo con Bernardo.
    A mio parere, tu sei uno dei migliori scrittori del sito. La tua prosa è sempre scorrevolissima, d’un piacere assoluto nel leggerla. Magari questo scritto non sarà una delle tue migliori opere, comunque è sempre d’alto spessore. Da parte mia, 5 stelline ci sono tutte, altrochè!
    Ciao Diego! Mi raccomando, non sparire ancora nel nulla per qualche mese!!

  3. caterina dice:

    Caro Diego!
    bentornato!
    pensa che ho letto questo tuo ieri sul terrazzo, prendendo quel poco sole che c’era, a mezzo del blackberry.
    parole piccolissime, con il collegamento che andava e veniva, eppure ho fatto di tutto per arrivare alla fine e oggi nn vedevo l’ora di venire a postare un commento.
    questo racconto ha un incedere cosi’ accattivante, cosi’ intrigante, cosi’ battente che ti acchiappa fino alla fine senza mollarti un attimo.
    bravissimo.
    ci ho visto dentro l’indifferenza, il vero male dei nostri giorni, unita al poco amore nello svolgere il rporpio lavoro quotidiano, insieme alla codardia della gente che quando vede che sei in difficolta’, si gira dall’altra parte.
    quante volte la macchia scura mi cammina qua e la’ e nessuno mi viene in soccorso?
    e uin quante occasioni vedo macchie spugnose e mi giro dlall’altra parte?
    mi hai fatto pensare.

    five stars.
    :)

  4. andrea dice:

    Splendido.
    Ecco perché si notava tanto la tua latitanza dal sito :)
    L’ironia che invece di mascherare accentua la durezza del tema trattato. Fa venire in mente quella scena dei turisti i spiaggia che prendono il sole accanto ai cadaveri dei piccoli zingari…

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