IL CAMICE DELLA FELICITA’
Pubblicato da Domenico De Ferraro il 23 ottobre 2019
IL CAMICE DELLA FELICITA’
La malattia mi prende per mano sulla scia di vecchi ricordi , nati dal senso delle profonde sofferenze , racchiuse nel senso di noi stessi. Cosi crebbi e guarì dal male di un vivere, che ti ruba l’animo lasciandoti divenire un fantasma tra le rovine di una civiltà delirante . Un dolore come l’ora che prende alla gola nella più sciagurata avventura. Mi sono lasciato andare per strade deserte, immaturo nel canto proibito , gobbo nell’ora più buia ,sono tornato ad essere felice. Forse fui gatto, forse fu la fede a cambiarmi nell’ intendere una nuova avventura cercando di sfuggire al caso clinico, solo verso il mio destino in preda a mille rimorsi , rimasi a lungo in silenzio in attesa ogni cosa passare. Non fui grigio, non fui rosso, ne verde come la speranza che spezza l’ anche alle cavalle . Non ebbi l’ ali ne alibi, ne forbici per tagliare questo cordone ombelicale. Fui restio alla forma adottata da molti, immemore nel canto , cavalcai la vergogna ed andai oltre quello che credevo verso un sogno dal sapore di cioccolato , un sogno che indossai più volte come un maglione. Fui me stesso nel peccato commesso, incredulo , turbato dalle mie giovanili passioni.
Fare l’ infermiere per me fu come donare la vita ad un antico Dio . Sorreggere la sorte, stare accanto all’ammalato disteso sul suo letto inerme nel male , emerso dalle ossa, dal sangue ed io con lui rimasi affianco come tante flebo e fili legati al suo male di vivere . La sera rimanevo fino a tardi in ospedale , andavo e venivo , vedevo gli ammalati nei loro letti a castello , rossi e casti come la mela di Adamo . La morte cantava nell’ aria e non mi faceva paura ero così felice sapere che avrebbero , potuto un giorno , guarire. La speranza è un farmaco che scorre nelle vene , ricarica il nervo, fluisce in noi fino alla malattia, una mela spaccata tagliata a pezzi pronta ad essere mangiata. E la morte di un modo di pensare e d’essere , siamo in tanti più di sette miliardi, tutti ordinati nell’ odio, nella sopravvivenza , soldati perduti, incapaci di credere in un destino migliore. Forse passerà mi dissi, intanto lavoravo . Bianco, vestito come un pulcinella qualsiasi , con il mio camice bianco, ed intorno al collo lo stetoscopio a scrutare il battito i rumori mucolitici con i baffi e con il profumo della salvezza , gravida nella storia. Sono nato per essere un infermiere , per assistere per conoscere , per essere vicino a chi soffre. Non ho paura del male che affligge gli uomini , non ho paura di entrare in quel mondo credule , dove vivono , tanti mostri dove la vita si trasforma nella sua genealogia in una forma ingorda di odio. Odo nel mio cuore, la vita e cerco di essere presente in ogni momento accanto all’infermo , povera anima afflitta , di alleviare il dolore altrui . La mia storia vola nel vento con le foglie di autunno anche il mio raccontare finisce in un scemando di note e cruciali commenti elevati alla sillaba fatale poi caduti nell’oblio delle frasi fatte . Sono qui , lavoro, mi do da fare a soccorrere i tanti ammalati , combatto contro la crudele legge della sopravvivenza.
Dai fai presto, portami una siringa piena
Non trovo l’ago
Non sono argomenti leciti questi
La caposala è fuggita via con il suo amante
Andrò a protestare in direzione
Una azione contraria ad ogni ragione incapace di salvare la vita altrui.
La malattia ci assilla, non ci da tregua.
La morte ci è accanto , con il suo conto.
Siamo infermieri
Certo mica spazzini
Vorrei spezzare una lancia in merito
La detta , grossa dottore
Che bella giornata chi sa se qualcuno si salverà
Tra poco il mio turno finisce
Tutto finisce anche il giorno al tramonto.
La morte non ci ama
L’amore è un segno dei tempi
Che filosofia
Puoi dirlo forte, sono laureato anche in quello
Mi fa piacere avere un collega filosofo
Fai finta ?
No, faccio sul serio
Io non ho amici
Dovresti averli, fanno bene alla salute.
La mia storia è simile all’ammalato che assistiamo
Tutto è cosi dolce , sa di fragole di bosco
Ho girato tutti gli ospedali della penisola
Accidenti sei un veterano
La morte non mi fa più paura
L’ aspetto in maniche di camicia
L’aspetti studiando la loro sorte
Presto diventerò santo
Lo spero
Chi sa quanti lo hanno pensato
Tutto può succedere, anche divenire santi
Certo la santità è una condizione spirituale
Una predisposizione innata
La logica m’impedisce di seguire il tuo filo del discorso
Sei ancora molto immaturo
La maturità è una malattia
Certo anche la deficienza è un aspetto dell’ignoranza,
non per questo uno si può dire sapiente in tale materia
Sono d’accordo con te
Facciamo il giro visite
C’è da servire il vitto agli ammalati
Non moriranno ,se non mangiano in orario
Si ma se non lo facciamo in orario il capo sala lo va dire al primario.
Hai ragione non c’è primario più crudele di un primario infermiere
Ora andiamo d’accordo
Hai puliti i ferri del mestiere?
Ho lavato i piedi alla signora del letto quattro
Quella simpatica ?
Quella che tira calci
Che spasso quando sorride
La malattia ci rende diversa la vita
Il mio primo lavoro come infermiere fu in una clinica privata avevo da poco preso la laurea in scienze infermieristiche. Ero contento più contento di tanti altri , che avevano preso il bocca laurea in informatica o in scienze politiche . Mi sentivo come se fossi un novello Archimede come Pitagora ed i numeri ,Euclide e le sue tragedie . Già mi vedevo in camice, pronto a divenire Ferrista di sala operatoria, assistente di chi sa quale grande chirurgo. Pronto in tutte le ore a soccorrere chi malconcio giace nel male di un tempo trascorso. Mi prodigavo per ogni uomo , bambino , donna di questa città , prendevo a cuore la sua sofferenza, il male che era in lui simile ad un drago che sputa fuoco, frutto di un amore senza confini circoscritto in un sesso sfrenato. Saporito come una sfogliatella calda, ricca di essenze , mangi ti guarisce da ogni male, da ogni tristezza . Essere infermiere per me , era una missione anche mio nonno era stato infermiere, buon anima l’aveva fatto al lazzaretto poi all’ospedale degli infermi sito nella mia città. Era un grande infermiere mio nonno , sapeva , fare meravigliose iniezioni e lavaggi ed aveva avuto decine di amanti. Chi sa perché gli infermieri la maggior parte sono molto focosi , mio nonno ad esempio si era sposato due volte ed aveva avuto due famiglie . Con la prima moglie aveva avuto tre figli con la seconda la madre di mio padre altri quattro. lo ricordo mio nonno , era un don Giovanni , bello come Giove capitolino con occhi verdi è tanta tenerezza.
Ricordo bambino quando l’andavamo a trovare nella sua casa di campagna. Egli era sempre ben vestito come un signore d’altri tempi sembrava un conte, un principe di stirpe semitica. Sorrideva nel suo tempo tra le sue rughe , segnate dal caso e da una strana malattia chiamata amore . Passioni fiorite , fugaci dilemmi , animato da una forza di volontà senza pari , disperato tra tante malattie e tanta sofferenza. Era conosciuto da tutta la città, poiché era stato capo sala del pronto soccorso cittadino. Era bello nonno, simpatico assai ed io gli volevo molto bene.
Giovanni non tirare la coda al gatto
Nonno non è un gatto, ma un topo
Gli animali sono amici nostri
Si ma questo è un topo di chiavica
La vita caro mio, t’insegnerà ad essere rispettoso di chiunque se non vuoi fare la stessa fine del topo che tu ora tieni per la coda.
Certo, che filosofia
Sono miti sentimenti del saper vivere
Sono assai impressionato
Non dire cosi mi fai arrossire
Sono stupito
Non tirare troppo la corda
Per ora tiro la coda al topo
Che birbante, sei proprio un buon guaglione,
come tuo padre del resto.
Ho lo stesso tuo nome e cognome nonno.
Se per questo anche tuo cugino Giovanni e tua cugina Giovanna
Siamo contenti di averti per nonno
Quando giungerà la mia fine ti faccio un regalo
Che regalo nonno ?
Non so, forse ti lascio il mio camice
Il tuo camice di lavoro ?
Ti piace l’idea ?
Certo come te, io, Giovanni Perfetto, infermiere professionale
Lo diventerai vedrai
Ne sono certo, studio per questo ed avrò mille donne come te.
Questo è un argomento delicato devi crescere prima.
Io sono alto un metro e ottanta
Non in quel senso dico, devi ancora crescere in esperienza
Mitico, nonno
Vedrai adorerai il tuo lavoro che guarisce e ti fa essere un buon infermiere
Certo la notte è lunga da passare.
Non lo dire a me non sai quante ne ho passate la al pronto soccorso
Hai visto tante brutte cose , tanti morti , tanti feriti. ?
Eh si la morte con il tempo s’impara a conoscerla e ad amarla ti assicuro è solo l’altra faccia della vita
Nonno sei un filosofo nato
Grazie Giovanni
Indossai il mio camice tre mesi dopo essere giunto al sospirato diploma di laurea. Ero contento, il mio primo lavoro fu in una clinica a Piacenza. Bella Piacenza m’armai di tanta pazienza e m’avvicinai ai tanti pazienti . Salutai i miei e mio nonno che poi non rivedi più al mio ritorno. Poiché si spense, una sera qualunque di un incerto anno, andò incontro alla sua amica morte che aveva conosciuto nel lungo tragitto fatto in ospedale come capo sala . La morte tanta amata se lo venne a prendere una notte scura e tempestosa . Lo trovarono nel letto della vicina di casa mentre cercava di soccorrerla. Era amore il nonno o una malattia . Era abnegazione, generosità, senso del dovere . Chiunque soffrisse, era per lui , l’occasione per aiutarlo. Non si tirava mai indietro . Vedere soffrire una donna poi lo mandava su tutte le furie. Una donna soleva dire va sempre amata , ella è madre prima di tutto.
Partii in un bel mattino con il camice di mio nonno nella borsa. Scucito un po’ sporco , ma il camice di mio nonno era il vestito della mia ideale missione , era la veste del dotto. Come avrei non potuto portare con me il camice del nonno che rappresentava l’essenza stessa dell’infermiere. Anche se l’abito non fa il monaco, il camice del nonno era la mia divisa morale , la veste del mio essere. Era un paio di ali per volare dove la vita nasce, dove tramonta la morte. E nell’ore più cupe durante il mio viaggio, ripensai alla mia famiglia a mio padre a cui l’infermiere non era mai piaciuto fare. Ed odiava entrare negli ospedali. Odiava le medicine , per chi sa quale grave disgrazia aveva maturato in lui l’idea d’essere figlio dell’infermiere più conosciuto della città come se fosse una malattia stessa. Figlio di Giovanni Perfetto caposala del pronto soccorso. La malattia era una condanna . La salute una cotoletta arrostita sulla griglia. Cotta al sangue. Ogni medicina una goccia che faceva traboccare il vaso. Ed i ricordi di cosa fummo , di cosa egli diventò . Forse si sentiva tradito, solo, per non aver mai avuto quell’amore filiale di cui ogni padre elargisce al figlio copiosamente nello scorrere dei giorni. Il nonno si divideva da una famiglia , all’altra una domenica con una e l’altra con la sua. Di figli sette , tanti come le dita delle mani. L’infermiere una ragione per vivere felice. Aiutare il prossimo , conoscere tante donne. Conoscere i mali peggiori , fare l’amore in ogni modo ed in tutti modi . La malattia è un amore che ti distrugge, ti rode dentro. La malattia una maniacale perversione spirituale che condividi con gli altri, il travaglio ed il parto di una nuova vita.
Questa la mia condanna essere stato come mio nonno buon anima aver voluto ad ogni costo essere come lui ed oggi che sono infermiere anch’io provo una immensa compassione per me stesso. Non biasimo il mio passato ciò che avrei potuto fare di buono nella vita. Andare in missione nei paesi del terzo mondo in africa o in Guatemala in india a soccorre gli indigenti chi non ha nulla da mangiare. Ma questa vita l’avevo scelto io ed io ero il frutto della mia perversione . Il verso felice , il soffio di una salvezza che lambisce il creato mi stupisce ogni volta che entro in una sala operatoria o in una terapia intensiva. Credo, vorrei tanto ritornare a credere in un dio buono. In qualcosa che mi renda santo libero dal male dalla crudeltà altrui. Vorrei imparare a volare e cantare ad essere felice come il camice che indosso , andare oltre questa insana vita , essere amico della morte come mio nonno vorrei continuare ad aiutare i bisognosi essere la guarigione stessa , la stessa salvezza fiorita dentro il corpo infermo.