Lo giuro
Pubblicato da giangia il 29 gennaio 2009
Sono l’ottava di undici figli.
Mio padre, sicuro che la sua sarebbe stata una famiglia numerosa, per non sbagliarsi, ci ha numerati. Dal matrimonio con mia madre sono nati Primo, Seconda, Terzio, Quarto, Quintilio, Sisto, Settimio, Ottavia, Novena, Decimo e Ultimo; Ultimo si chiama cosi perché mia madre morì alla sua nascita.
La mia famiglia è povera; mio padre è pescivendolo, come suo padre e suo nonno, così da generazioni; mia madre, oltre a crescere i figli, allevava pochi animali da cortile e badava al piccolo orto dietro casa.
Già, la casa, non possiamo lamentarci della nostra casa. Nell’unica stanza al piano terra ci sono il camino di pietra, il secchiaio, anch’esso di pietra e il lungo tavolo; in un angolo la madia, che, quando viene aperta, cigola la sua disperazione perché è quasi sempre vuota. Sopra ci sono le camere: una piccola, dove dormono i genitori, una piccolissima per le femmine, la grande è dedicata ai numerosi maschi; alcuni comodini, un armadio, un cassettone e una vecchia cassapanca intagliata accolgono i vestiti, le coperte e le lenzuola per tredici persone. Nel cortile, oltre al capanno per i bisogni, c’è una grande vasca, sempre piena d’acqua, dove mio padre trasferisce il pesce che periodicamente va a comprare al mercato di Chioggia.
Dopo la morte di mia madre, mia sorella Onda ha preso il suo posto: si cura di papà, dei fratelli, delle galline e dell’orto; è chiaro, Onda non si sposerà mai.
Io e mia sorella Ena siamo invece andate a vivere in collegio, due bocche in meno da sfamare; le suore mi hanno insegnato a ricamare, dalle mie mani sono passati i corredi delle giovani donne più ricche della mia città: sono una ricamatrice molto abile!
Da poco sono tornata nella casa paterna perchè ho sedici anni e sono stata richiesta in moglie.
Non conosco il mio pretendente, mi è stata data una sua foto sbiadita, sembra un bell’uomo, ma, anche fosse brutto, lo sposerei comunque, non spetta a me decidere.
Lui vive nella campagna di una città vicina. Tutti dicono che sono fortunata perché lui è benestante: ha lavorato parecchi anni (adesso ne ha trentuno) nelle miniere del Belgio, da poco è tornato nella sua città, ha comprato qualche campo, ha costruito una casa e ora è tempo per lui di prendere moglie.
Ci siamo sposati stamattina presto e, dopo aver salutato la mia famiglia, siamo saliti sul carro e ora stiamo andando verso casa, la mia nuova casa.
E’ sera, lui è in stalla e governa i buoi, che ha appena staccato dal carro; io entro in casa: è molto simile a quella di mio padre. Accendo il fuoco nel camino. Ci sediamo a tavola e ceniamo con una grossa e fumante scodella piena di pane e latte.
Andiamo a letto…sono molto a disagio.
Al buio sto cercando di fissare gli avvenimenti della giornata quando lui mi si fa vicino e…ma cosa vuole? Oddio, mi alza la camicia da notte e…oh no, non posso raccontarlo! Non riesco a divincolarmi, ad allontanarlo, sono una statua, un pezzo di ghiaccio, chiudo gli occhi perché non voglio vedere nulla, neanche il buio intorno.
Lui mi lascia, io mi faccio piccola nell’angolo più lontano del letto, sono terrorizzata. Dopo un po’ lui mi riprende, e poi ancora, e ancora.
D’un tratto capisco: mio marito è l’orco, l’uomo nero!
E’ l’alba, lui si alza fischiettando; anch’io mi alzo, il mio sguardo è fisso a terra, ogni rumore e ogni movimento mi fanno sobbalzare. Riesco a preparargli la colazione e lui se ne va al lavoro.
Sono disperata: mi sento un animale in trappola, voglio scappare, voglio tornare in collegio, voglio mia madre.
E’ sera, voglio morire. Lui ritorna, voglio morire. Non voglio andare a letto, voglio morire. E’ sopra di me, voglio morire.
I giorni si succedono tutti uguali. Vivo, no, non vivo, sono cristallizzata in questa condizione, vedo una me disanimata che compie gesti rituali.
Sto male, non riesco a mangiare; mentre la mia anima è morta mi accorgo che il mio corpo si sta modificando. Lui mi osserva, vuole dirmi qualcosa, ma tace.
Al ritorno dal mercato butta sul tavolo un libro: “Leggilo” mi dice. Quando lui non c’è lo apro e leggo.
Oh Signore…Signore! Sarò madre! Tu hai stabilito tutto questo, Signore? Come me…anche mia madre…e tutte le donne…
Ormai sono alla fine e fatico a muovermi. Lui va nei campi, ma ogni due ore torna a controllarmi.
Mio Dio, quanto male! Sono a letto e lui mi è vicino, il suo sguardo deciso mi rassicura.
Un’ultima spinta e prende tra le mani…nostro figlio, lo depone sulla mia pancia, bacia i miei capelli e piange.
Giuro…GIURO…che se mai avrò una figlia non la terrò all’oscuro, non so quali parole userò, una cosa è certa: le racconterò la vita…lo giuro!
29 gennaio 2009 alle 17:50
Strano, ero convinto, per la mia esperienza nelle Marche, che la popolazione contadina avesse maggiore dimestichezza con la nascita, la vita, la morte e il sesso che non la piccola borghesia, se non altro per la dimestichezza con gli animali, probabilmente in questa vicenda la mancanza della madre e la vita in collegio hanno estraniato la protagonista dai fatti della vita concreta.
29 gennaio 2009 alle 18:11
La tua ipotesi è corretta, Ottavia vive in un mondo ovattato.
Ciao
29 gennaio 2009 alle 20:41
Ben scritto. Coinvolgente. E amaro. Ciao!
29 gennaio 2009 alle 21:07
Grazie, Emmaus, la consapevolezza acquisita da Ottavia costituisce un abbozzo di lieto fine…ne convieni? Ciao, ciao
30 gennaio 2009 alle 13:38
ciao
questo tuo racconto mi è piaciuto molto, ben scritto e coinvolgente…è vero il finale amaro e la consapevole disperazione di Ottavia riguardo ai doveri di una madre lo rende secondo me ancora più amaro.
a rileggerti
30 gennaio 2009 alle 14:42
Mattiekian, noi siamo figli e figlie di quelle esperienze e dei giuramenti di quelle donne, che hanno saputo costruire dal dolore: nulla è andato perduto!
Ciao e grazie
31 gennaio 2009 alle 08:44
Pensavo che certi comportamenti fossero ad uso esclusivo di certi paesi sperduti tra le aspre montagne rocciose della mia terra, evidentemente mi sbagliavo.
E’ un bel racconto, con molto patos, e un finale di drammatica disperazione e rivalsa, che lascia un nodo alla gola.
Ciao!
31 gennaio 2009 alle 13:16
Vicende come questa possono essere successe in tutta Italia: la condizione di Ottavia è particolare, essendo vissuta in collegio fino al matrimonio.
Ti ringrazio molto per il tuo giudizio.
Ciao
1 febbraio 2009 alle 10:26
che racconto duro…ma ho l’impressione che fosse proprio cosi’ e la cosa piu’ terribile e’ che in molte parti del mondo le donne sono ancora trattate come “macchine della vita” e basta.
1 febbraio 2009 alle 12:25
Non so dire se, negli anni ’20-’30, l’esperienza di Ottavia fosse comune a tante giovani donne.
Oggigiorno valgono tutte le opzioni: donne assatanate, donne che amano tout-court (la solita maggioranza silenziosa), donne “macchine della vita”, donne “macchine del soddisfacimento” consapevoli, donne “macchine del soddisfacimento” costrette…