Una piccola storia straordinaria
Pubblicato da giangia il 5 aprile 2009
Sono nata nel 1921.
Sono certa di essere stata desiderata; il nome che mi è stato dato, Chiara, rappresenta la luce, la trasparenza, il pulito con il quale i miei hanno voluto suggellare il loro amore.
A due mesi dalla nascita perdo mamma, che muore a causa di una polmonite, male incurabile per quegli anni, e quindi vado a balia da mamma Virginia, la prima di un ragguardevole numero di mamme-surrogato che accompagnerà la mia esistenza.
Quando compio un anno ritorno con mio padre, che nel frattempo si è trasferito nella sua famiglia di origine: nonno Giuseppe, nonna Angela e i loro tredici figli, soprattutto le quattro femmine, mi accolgono con amore e compassione.
Dopo pochi anni rientra in famiglia zio Vittorio, anche lui rimasto vedovo, con la sua piccola Lidia, che per poco tempo diventa la mia sorellina; infatti, rispettato il giusto periodo di lutto, zio Vittorio si risposa con la cognata, cosicché Lidia ha per matrigna la propria zia, che bambina fortunata!
Anche mio padre si risposa, ma con una vedova con due figli.
I miei nonni, preoccupati di come avrebbe potuto essere il mio inserimento nella nuova famiglia, concordano con mio padre di tenermi per sempre con loro. Ecco perché ho tante mamme: la nonna prima di tutto e poi le quattro zie, in particolare zia Cina, la più giovane, che non si sposa, qualcuno deve ben badare ai genitori che invecchiano, ai fratelli celibi e a quelli sposati che rientrano, temporaneamente o definitivamente.
Provo un grande amore, ricambiato, per nonna e zia Cina.
Fin da piccola imparo a costruirmi una scorza che mi protegge dalle ferite, innocenti o volute, che gli altri mi procurano.
Mio padre è la persona che mi ferisce di più. Dalla seconda moglie (chiamo mamma anche lei, che è una persona affettuosa) ha altri quattro figli e quindi grosse difficoltà a mantenere tutta la famiglia.
Un giorno, sicuramente alticcio, viene a trovarmi e, abbracciandomi, si mette a piangere per la sua e la mia sfortunata condizione. Alla fine della visita se ne va portando con sé la mia bambola, l’unico giocattolo che possiedo, per portarla alle mie sorelline. In un’altra visita mi priva degli orecchini di mia madre, che vende per comprare la bicicletta. Quando tenta di prendersi anche la spilla, ultimo ricordo di una madre di cui non possiedo neanche una foto, zia Cina si oppone, impavida e violenta come la tigre che difende i suoi piccoli.
Come cresco? Sono una bambina intelligente e molto sensibile: soffro, soffro terribilmente la mia condizione di figlia di tanti e di nessuno. A scuola le compagne mi chiedono: “ Ma come era la tua mamma? Perché tuo papà non ti tiene con sé? Perché non hai una vera famiglia?”. Mi vergogno e provo tanta rabbia, vorrei nascondermi: non so dare risposte, perché queste sono anche le mie domande, che non ho il coraggio di formulare a chi mi sta dando amore e mi alleva con sacrificio. Tutte le mie coetanee hanno una famiglia regolare, io no, sono l’unica diversa!
A scuola sono brava, diligente, volonterosa; questa consapevolezza sviluppa l’autostima (finalmente non sono la reietta!) e incomincio a dire la mia; primeggio (e forse prevarico) fra le mie compagne di scuola, ma sono estremamente fragile, basta un nonnulla per ferirmi. Anche per questo motivo mi lego indissolubilmente a Ester, che è la bontà e la dolcezza fatta persona; tra di noi si costituisce un tacito sodalizio: io so che con lei posso spogliarmi della buccia che protegge la mia fragilità e lei, incapace di reagire a qualsiasi cattiveria, ha trovato in me il suo paladino.
Vivo in una strana famiglia: siamo poveri, molto poveri, ma tra le mani degli zii girano continuamente libri e giornali, nessuno di loro è analfabeta. Io, del resto, ho una fame di sapere, di conoscere, di allargare il mio orizzonte che leggo qualsiasi cosa mi capiti in mano, anche i libretti scritti in latino (non ci capisco niente) che trovo sui banchi della chiesa.
Nonno Giuseppe gode del rispetto di tutti i figli, che gli danno del voi e si sottomettono alle sue decisioni senza discutere. “Chiara, se non stai zitta ti taglio la lingua”, sono impudente, ho il coraggio di rispondere al patriarca, che ogni tanto mi minaccia anche con il suo bastone da passeggio: non sono un angelo!
Finite le elementari, insieme ad Ester e ad altre coetanee, trascorro le giornate da una sarta, dove imparo le basi del cucito.
In questo gineceo vengo presa in simpatia dalla sorella della sarta, donna di buona cultura, che mi presta i suoi libri e con la quale posso discutere di qualsiasi cosa: ecco, questa donna, che tutti chiamano con deferenza signorina Francesca, è la mia madre intellettuale.
Non appena compiamo i quattordici anni, Francesca porta me ed Ester a lavorare in fabbrica; lei è “maestra” in una importante azienda, dove guida una squadra di donne. Il sodalizio donna emancipata – giovane mite e indifesa – giovane indomita e fragile si sviluppa e si consolida.
E arriva l’età in cui i ragazzi guardano me ed Ester e noi guardiamo i ragazzi. A dire il vero io li faccio scappare a causa dei modi ruvidi e della lingua tagliente con i quali li affronto (in realtà nascondo la mia insicurezza); nonno mi dice spesso: “Chiara, fai la brava altrimenti non ti faccio più uscire di casa” e poi, in qualsiasi posto io vada, trovo sempre uno dei miei innumerevoli zii che mi dice: “Cosa fai qua? Lo sa il nonno?”
Zia Cina utilizza parte del mio stipendio per comperare grandi pezze di tessuto grezzo, che insieme trasformiamo in lenzuola, federe, asciugamani: è la mia dote. Nessuno potrà mai dire che mi sposerò come una pezzente: ho imparato fin da piccola cosa significano orgoglio e dignità.
E’ il 10 giugno 1940 e arriva la guerra.
Tante cose cambiano: i nostri giovani, vestiti di grigioverde, spariscono e, in compenso, arrivano i tedeschi, che dapprima non sono nemici e con i quali si familiarizza. Nella vita di parrocchia entra Federico, un ufficiale che suona l’armonium in chiesa; lui sorride sempre quando ci mostra le foto di sua moglie e suo figlio, sorride anche quando dice: “Se perdiamo la guerra, nessuno mi farà prigioniero”, capiamo il significato della sua affermazione quando, pochi giorni dopo l’8 settembre, ci arriva la notizia del suo suicidio.
Prima dell’8 settembre 1943 i nostri nemici sono gli alleati, che bombardano e distruggono la fabbrica dove lavoro: l’attività viene trasferita in un paese non molto lontano, che, estate o inverno, caldo torrido o strade ghiacciate, raggiungo in bicicletta.
Dopo l’8 settembre i tedeschi diventano i nemici e, pur di tornare velocemente in patria, requisiscono qualsiasi mezzo di trasporto; ricordo il giorno che, per questo motivo, percorro a piedi i circa 20 chilometri del tragitto fabbrica-casa: la mia bici viene smontata e nascosta dentro a un carro pieno di fieno, trainato da un bue, lento e macilento.
L’8 settembre mi priva dell’amore: Albano, l’unico ragazzo che da circa un anno è riuscito a far breccia nel mio cuore, viene preso dai tedeschi e trasferito nel campo di lavoro di Nordhausen; lui, irreggimentato nella Divisione Acqui a Merano, è cuoco nella mensa ufficiali, e, come tanti soldati in quella città, non fa in tempo a scappare.
Ritorna a casa nel maggio 1945 con due ricordi: il bastone al quale, magro e allampanato, si sostiene e un cencio tricolore, cucito in qualche modo dai prigionieri del campo, per dare il benvenuto agli americani liberatori, che lo sostituiscono subito con una bandiera italiana “come si conviene”.
Piano piano si ritorna alla normalità; Albano trova lavoro nella mia stessa fabbrica e incominciamo a fare progetti matrimoniali: per la prima volta nella mia vita guardo al futuro con entusiasmo, sto costruendo qualcosa, che appartiene solo a me e alla persona che mi ha scelta non per obbligo o compassione, ma per amore, perché io sono unica per lui come lui lo è per me!
Io ricamo con scarso talento il mio corredo e Albano, ottimo falegname, costruisce tutti i mobili della nostra futura casa.
E arriva il 26 novembre 1949: sotto un diluvio incredibile ci sposiamo, lui in un bellissimo doppiopetto gessato, io col vestito bianco che mi presta un’amica, andata sposa pochi mesi prima di me. Velocissimo rinfresco. Mia suocera (è la donna che farò più fatica a chiamare mamma) e un codazzo di zii in lacrime ci accompagnano alla stazione: Roma è la meta del nostro viaggio di nozze!
A Roma vivo dentro a una favola: Albano è un compagno splendido, premuroso e protettivo, io mi affido completamente a lui, che mi travolge e mi trascina con il suo desiderio di farmi conoscere questa fantastica città. Lui mi offre tutto il suo amore, e io, tanto ne ricevo, tanto ne do.
Fare l’amore è stupendo; vissuta convinta che fosse un peccato, una cosa sporca, mi rendo conto che è una cosa straordinaria: io sono lui , lui è me, non c’è un inizio o una fine tra Albano e Chiara e Chiara e Albano, siamo due ma siamo uno, indescrivibile!
Anche per questo motivo non parlerò mai di Albano dicendo “Mio marito” lui sarà per tutta la vita: “Il mio uomo”.
Ecco, qui finisce la mia piccola straordinaria storia: tutto ciò che viene dopo è logico e normale. Tra il mio uomo e me sarà sempre vivo l’amore, che con gioia e impegno trasfonderemo nelle nostre due figlie.
Albano e io invecchieremo insieme, io lo accudirò durante la sua lunga malattia e sarò con lui durante il trapasso.
La sua assenza sarà il mio tormento e vivrò, per forza vivrò, con un unico interesse: ogni secondo trascorso sarà un secondo in meno che mi separerà da lui.
Ora sono in pace, insieme al mio uomo, per sempre.
5 aprile 2009 alle 16:21
Ciao Giangia
ho letto con vero piacere questo tuo racconto, un racconto che narra di una storia semplice, come tante magari e forse proprio per questo straordinaria nella sua quotidianità.
Il testo si legge bene e scorre sino alla fine.
Solo una piccola nota (ma non farci molto caso è che io sono fissata con la seconda guerra mondiale!) la divisione Aqui era stanziata a Cefalonia e farà una tragica fine che vale davvero la pena conoscere e ricordare.
Comunque brava
A rileggerti!
5 aprile 2009 alle 21:01
Ciao a te, Mattiekian!
Grazie per aver letto il mio racconto, che poi è la storia dei miei genitori.
Rileggendolo, non credo di aver reso sufficientemente bene il tormento che ha caratterizzato tutta la vita di mia madre a causa della sua infanzia tribolata.
Mio padre era realmente nella Divisione Acqui ed è sopravvissuto all’eccidio solo perchè, quando doveva essere trasferito a Cefalonia, era in ospedale per una epatite! Pensa, per merito di una epatite tu e particolarmente io stiamo parlando di quella vicenda…
Il tuo commento sul mio modo di scrivere mi ricorda i giudizi dei miei professori di italiano riguardo ai miei temi: scorrevole e corretto. Il tempo non mi ha peggiorata, meno male!
Grazie per l’attenzione che mi dedichi.
6 aprile 2009 alle 19:03
Pure io ho letto volentieri questa storia che collega vari periodi storici, inserendoli in un contesto famigliare. Scrivi sempre bene, pulito, anche se forse in qualche tratto ti dilunghi un pochino (non farci caso, è il mio viziaccio di pignolo)
A rileggerti! Ciao!
6 aprile 2009 alle 19:54
Emmaus,
che piacere un tuo riscontro!
Hai ragione, mi dilungo. Purtroppo quando racconto dei miei affetti non riesco ad essere fredda, qualsiasi briciola della vita delle persone che amo è importante per me: non riesco ad astrarmi.
Ti sono molto grata per le critiche che muovi ai miei racconti; ti chiedo di essere più deciso, la prossima volta riprendi, per cortesia,le parti ridondanti (vocabolone, eh?).
Grazie e ciao
15 aprile 2009 alle 16:34
mi era sfuggita questa storia molto dettagliata.
carina.
come tante storie di difficolta’ assoluta nelle famiglie.
anche nella mia.
reso stupita dalla conoscenza della Storia da parte della Mattie, cosi’ giovane e preparatissima
la nostra enciclopedia
15 aprile 2009 alle 18:52
Grazie, Caterina, di essere passata da queste parti
21 aprile 2009 alle 16:25
Ciao Giangia,
piacevolissimo il tuo stile, come al solito. E come al solito mi lamento di fronte ad una storia che avrei ben volentieri gustato piu’ a lungo, se ne avessi fatto un’opera di respiro piu’ vasto
Grazie!
Mattie: sei incredibile…
21 aprile 2009 alle 18:45
Ciao Andrea,
che piacere ricevere un tuo commento!
Ti ringrazio per quanto hai scritto; anche a te, come a Emmaus, chiedo di esser deciso nella critica, ti garantisco che mi faresti felice e te ne sarei grata! A volte mi chiedo con che faccia tosta mi sono iscritta a questo sito ma, d’altra parte, non sono riuscita a trovare un sito di scribacchini per caso e quindi faccio danno qui.
Hai apprezzato il mio continuous improvement tecnologico? hai visto che immaginetta mi sono dedicata?
Grazie a te, Andrea, per tutto tutto tutto
2 ottobre 2009 alle 19:33
Uno scritto molto scorrevole.
Mi piacciono le storie che parlano di famiglie e questa è scritta decisamente bene.
Saluti Max.
4 ottobre 2009 alle 08:02
Ciao Poetto,
grazie mille per il tuo giudizio!
Un saluto a te e alla tua splendida regione!