Er

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                    ER


 


Era un negro enorme, un cavallo dal sudore acre, fortissimo, mille smagliature gli rigavano il volto, ricordo delle vecchie catene nei campi, statuario animale nero.


Cotone, terra, fiume, delta, melma, quanti veli opachi sull’orizzonte libero.


Le nuvole si masticavano la terra che non riusciva a calcare mentre bruciava di rancore, come un temporale, coi capelli ricci, neri, crespi, un po’ lunghi, a pelle e piedi terrini mangiati dal sudore e gli occhi da un’altra parte, come dei corvi bruciati, terrei.


Strappato alla sua volontà, strappato alla sua età rivoleva i suoi affetti e il suo amore cercando la fuga, massacrato di frustate, gli bruciavano il corpo ridendo di lui, lo battevano e tagliuzzavano deridendolo a pezzetti d’orecchio finché, come la capacità di dominare un incendio, trovò un neonato e la colpa che gli diede la libertà.


Nelle pareti che ingoiavano violenza si dava i pugni sul cuore, tacito eroe di cui nessuno sapeva, senza terra e genitori, Dio non ti guardava un granché, credevi, ti chiamavi Er, chissà perché, eri una parte dell’amore che mancava al mondo, paladino testardo, sei stato come l’auriga con un cavallo bianco e uno nero per fin troppo tempo, candido manifesto invisibile di sentimenti nobili.


Era in uno dei suoi soliti speciali giorni qualunque, nei campi e nei suoi dejavoux, finché il richiamo del suo orecchio non inciampò in un rumore che non era solito sentire e cominciò a guardarsi intorno.


Maledetto o benedetto quel giorno lo sai solo tu. Vedesti un fagottino attorniato da cani affamati, selvatici, rabbiosi, sbavavano, sentisti gemere, era un bambino, perso, rubato, forse solo smarrito, non sapeva di morire, corresti fin là per salvare quel piccolo esserino bianco in mezzo alla terra nera.


Non facevi nessuna paura a quelle bestiacce rognose, ma tu sei qualcosa di più, sei qualcosa che non si spaventa, sei un eroe, sei grande, nero, traboccante di lacrime, ti specchi contro il male del mondo, un bambino salverà in altro bambino, ti bastò guardarli per farli morire.


Lo portasti via ancora sporco, di corsa verso la prima casa, correvi tenendolo con le braccia forti stringendo, sentendoti l’aria partecipe del mondo fischiarti vicino, col caldo del sole, i passi che affondano nell’erba, corresti un infinità, con il fiato nei polmoni grossi come un forcone nel fieno, circondato dalle stelle e dalle farfalle.


Stringevi forte le braccia contro il tuo petto nero, sentendo la tua pelle contro la tua , con le braccia conserte senza vagiti, non c’era più il bambino, ridevano le fate, non c’era mai stato e la vita d’un eroe valeva meno di quella d’un cane.

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