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L’ajashi

Pubblicato da RG il 14 novembre 2007

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Eliq Yaràsh era un giovane Murawi della tribù di Ventogrigio, un piccolo villaggio arroccato tra i monti Adamar, sui quali viveva la maggior parte del popolo dei Murawen.
Quel giorno, Eliq Yaràsh iniziava il suo ajashi. Quando un Murawi entrava nell’età in cui capiva la differenza profonda tra un uomo e una donna, e questa differenza iniziava a rendere il suo cuore irrequieto, quello era il tempo in cui ogni giovane Murawi affrontava il suo ajashi: si ritirava dal villaggio e, benché non gli fossero vietati i contatti col suo popolo, andava a vivere separato da famiglia e amici, solo col suo mufir. Ogni giovane, durante l’ajashi, veniva affidato a un Maestro, un saggio alla cui dimora il giovane doveva recarsi ogni sera per descrivere ciò che il Murawi aveva appreso in quel giorno. Solo il Maestro avrebbe potuto decretare la fine dell’ajashi, e a quel punto il giovane sarebbe diventato un uomo e sarebbe potuto tornare al villaggio.
Il primo giorno dell’ajashi era anche il giorno in cui a un giovane Murawi veniva affidato il suo primo mufir. La vita del popolo dei Murawen era strettamente legata a quella dei mufir. I mufir erano bestie che, una volta adulte, raggiungevano la cintola di un uomo. Marciavano su quattro zampe dotate di zoccoli, ed erano protette da uno spesso vello. I Murawi non potevano vivere senza i mufir, e viceversa. I mufir permettevano di scalare le ripide montagne Adamar, e a volte, nei tratti più impervi, si lasciavano cavalcare: i forti animali cadevano raramente, e spostarsi per cercare la cacciagione, così rara su quei monti, era impossibile senza l’esperta guida dei mufir. Essi, inoltre, fornivano la lana che proteggeva gli uomini dai feroci inverni dei monti Adamar. Quando veniva l’estate, un mufir si ammalava e moriva se non veniva tosato del suo pesante vello, e gli uomini svolgevano con dedizione questo compito. Il mufir forniva anche un latte denso e nutriente, in grado di sostentare un uomo e il mufir stesso – a patto che l’uomo lo mungesse in modo da farglielo bere – per giorni e giorni tra le montagne. Oltre agli usi principali, i mufir erano utili in decine di altre maniere, e alcune di queste erano note solo agli uomini più saggi. I mufir erano fedelissimi, e difendevano il padrone quando questi si trovava in pericolo, grazie alle loro possenti corna. E gli uomini contraccambiavano i mufir con tutto l’amore e il rispetto che un uomo può provare nei confronti del suo indispensabile compagno. Tutto, tra i Murawen, faceva riferimento ai mufir: un uomo era considerato potente quando i suoi mufir erano forti e numerosi; le persone venivano giudicate in base allo stato dei loro mufir (una persona che non teneva perfettamente pulito il proprio mufir non poteva certo essere affidabile); e il detto che più amavano utilizzare era “il mio mufir ne sia testimone”.
I mufir di un uomo, alla sua morte, venivano divisi equamente tra i suoi figli, e quando uomini e donne si univano in matrimonio, anche i loro mufir potevano accoppiarsi: era raro che una coppia di mufir partorisse più di due cuccioli nell’arco della loro vita, ma ogni nuovo nato era una benedizione anche per la coppia di sposi. Il primo mufir di ogni uomo, però, gli veniva affidato il giorno del suo ajashi, e durante quel periodo ogni giovane conviveva col suo animale, comprendendone a fondo gli usi e i bisogni.
E quel giorno era giunto per Eliq Yaràsh. La prima cosa che fece quando iniziò il suo ajashi fu di cercare una grotta in cui lui e il suo mufir avrebbero potuto trovare riparo la notte. Perlopiù si fece guidare dall’istinto dell’animale, fino ad arrivare ad una bassa caverna profonda molti passi. Di certo non era abitata da bestie feroci, visto che il mufir si sedette al suo ingresso. Mentre l’animale lo osservava con sguardo attento e serio, Eliq iniziò a raccogliere la legna per scacciare il freddo del cuore della notte, parlando di tanto in tanto al mufir che, pur restando in silenzio, sembrava ascoltare tutto con interesse.
Quella sera, Eliq Yaràsh si recò dal Maestro.
“Dimmi, Eliq” chiese il saggio, “cosa hai imparato oggi?”
“Maestro, non ho fatto altro che cercare un rifugio e prepararlo per la nostra permanenza. Poi mi sono seduto accanto al mio mufir, e a lui ho raccontato a lungo la mia vita. Quando la sera si avvicinava, mi sono accorto che non avevo nulla da narrarti, così mi sono messo ad osservare in silenzio il cielo che si oscurava, pensando a cosa avrei potuto dirti questa sera. Ho osservato per molto tempo le stelle che si spostavano nel cielo, e la costellazione del Monte che inseguiva quella della Farfalla. Ho perso la cognizione del tempo, finché i miei occhi sono stati inondati dalla presenza delle stelle. Il firmamento abbracciava me, i monti Adamar, e tutta la nostra terra. Allora, Maestro, ho capito una cosa che mi era sconosciuta. Ed è questa: che siamo fatti dello stesso materiale delle stelle”.
Il saggio annuì, e i due si separarono col tacito accordo di rivedersi la sera successiva.


Quando Eliq tornò il giorno seguente alla capanna del saggio, si sedette a gambe incrociate di fronte a lui.
“Maestro” disse, “ieri sera, preparandomi a dormire, ho scoperto che nessun fuoco riscalda come il vello del mio mufir, e ho dormito con la testa appoggiata a lui. L’ho chiamato Keshar, come la costellazione della Candela, nel cielo, poiché egli indica la via, è caldo come il fuoco, e ieri ho capito che gli uomini sono fatti di stelle, e dunque anche i mufir lo sono. Ma non è di questo che ti voglio parlare, Maestro”.
“Cosa mi vuoi dire dunque, Eliq?” chiese il saggio.
“Sedendomi a riposare, oggi, ho iniziato a riflettere. Keshar emetteva il suo verso calmo e costante, e forse è stato questo che mi ha fatto perdere nei miei pensieri. Ero sveglio, Maestro, ma vedevo la realtà con occhi diversi. Vedevo collegamenti tra le cose che non avevo scorto, e alcune cose che credevo certe diventavano vaghe come la nebbia al mattino. Non ti so spiegare cosa ho provato, perché non lo ricordo, ma credevo che solo i più saggi potessero raggiungere questo stato. E invece chiunque può entrare in comunione con i nostri monti. Ho sentito parlare il mio corpo, e ho scoperto che conosce più cose di quante io ne ho apprese. Ho deciso che ripeterò questa esperienza ogni giorno, perché quando mi sono destato mi sentivo in pace, e Keshar dormiva con la testa appoggiata sulla mia coscia”.


Il terzo giorno, Eliq iniziava a riconoscere i mufir del Maestro: cercava di distinguere quello dal vello più scuro da quello con le corna più lunghe; quello che dormiva spesso in disparte da quello giovane e forte. Portò loro in dono delle bacche di cui Keshar era ghiotto, trovate su un cespuglio in cui si era imbattuto durante una passeggiata tra i monti. Quando salutò il Maestro, questi gli offrì del latte di mufir, che il giovane accettò volentieri, prima di iniziare a parlare.
“Quando mi sono svegliato questa mattina, ho notato qualcosa di strano nel paesaggio, ma non ho capito cosa fosse. Ho passato tutto il pomeriggio a riflettere su ciò che sfuggiva alla mia mente, cercando di afferrarlo, ma senza riuscirci. Poi, questa sera, mentre riposavo prima di incontrarti, osservavo il sole calare sulle montagne, accarezzando il vello di Keshar. Allora ho capito cosa mi aveva turbato e meravigliato questa mattina. Ed è questo, Maestro: albore e crepuscolo sono fatti della stessa materia. Mentre osservavo il crepuscolo, riconoscevo i segni dell’alba, e lo spettacolo mi ha lasciato senza fiato. Il colore del cielo, le tinte di cui si ricoprono i monti Adamar e i nostri boschi, la sensazione di terribile stupore erano gemelli di quelli che intuivo al mattino, quando il sole si alza sui monti e il freddo chiarore che precede l’alba si trasforma nel suo caldo tocco. E dunque, Maestro, la fine e l’inizio non esistono, esiste solo un circolo in cui tutto continua.
“Che il tuo passo resti saldo come quello del tuo mufir” concluse il giovane mentre si alzava, per ringraziare il Maestro del latte che gli aveva offerto.


Quando il quarto giorno Eliq si recò alla capanna del Maestro, il suo volto irradiava gioia e stupore. Sembrava non essere in grado di stare fermo, e si guardava intorno come se tutto ciò che vedeva fosse nuovo e meraviglioso. Il suo mufir lo osservava dal profondo dei suoi occhi scuri, ed era difficile capire cosa pensasse. Il Maestro attese in silenzio finché il giovane cominciò a parlare.
“Maestro, oggi ho conosciuto l’amore. Il mio peregrinare mi ha portato fino a un villaggio vicino, più piccolo del nostro, posto in una radura dove la luce irradia con gioia ogni cosa. Mi sono tenuto in disparte per osservare la vita che scorreva indipendente dalla mia presenza, finché ecco, una splendida fanciulla è uscita da una capanna. Portava un cesto tra le braccia, e i suoi capelli chiari risplendevano alla luce del sole, e io credo che non dimenticherò mai questa scena. Il suo mufir la seguiva fiero, il vello leggermente dorato come è proprio dei migliori esemplari, e credo che solo lui mi abbia scorto. La fanciulla si è recata al fiume a lavare i panni, e là l’ho osservata tutto il pomeriggio, stando immobile come un mufir sulla roccia. I suoi gesti erano così lenti e aggraziati, e la sua risata più dolce dello scorrere del fiume, quando scherzava con le sue amiche. L’hanno chiamata Viryely, e io credo sia il nome più bello che le mie orecchie abbiano mai udito. Pronunciarlo crea nella mia bocca un gioco di suoni meraviglioso, come se fosse una parola magica. Anche Keshar, quando lo sente, sembra percorso da un fremito”.
Il Maestro guardò il mufir del ragazzo, che sembrava ruminare qualcosa, posizione e espressione identiche a quand’era arrivato.
“Maestro, credo che l’amore sia la via alla felicità” e, con un inchino e un sorriso raggiante, il giovane uscì dalla capanna.


Il giorno seguente, il volto di Eliq era più serio e concentrato, come se qualcosa lo turbasse. Si sedette di fronte al saggio, e mise una mano sul collo del suo mufir, che prese a ruminare stancamente com’era abituato a fare quando il suo ragazzo si recava alla capanna.
“Maestro, oggi ho capito che l’amore porta la sofferenza” esordì il giovane. “Quando mi sono recato al villaggio della mia amata, aspettare che uscisse dalla sua dimora è stata una tortura insopportabile. Avrei voluto correrle incontro, quando l’ho vista, ma ho pensato che sarebbe stato stupido e che l’avrei spaventata, perdendola per sempre. Dunque sono rimasto celato al suo sguardo, incerto se palesarmi o rimanere nelle ombre. In ogni istante mi davo del vigliacco perché  non riuscivo a farmi avanti, ma l’istante successivo trovavo un ottimo motivo per attendere ancora. Alla fine, quando Viryely è tornata alla sua capanna, mi sono sentito sciocco e inetto. Mi sono maledetto per la mia stupidità, e ho pensato che non la meritavo. Poi, per il resto del giorno, ho continuato a pensare a lei, e non riuscivo a fare nulla, né a levarmela dalla testa. Se penso che dovrò aspettare fino a domani per rivederla, la mia vita mi sembra inutile e tutto ciò che faccio perde il suo interesse, e l’attesa è la tortura peggiore di tutte.
“Non so se l’amore sia un bene per l’uomo” concluse, e con questo uscì dalla capanna.


Quando Eliq si recò alla capanna assieme al suo mufir per l’incontro successivo, la sua espressione era più serena, anche se preoccupata. Keshar zoppicava leggermente dalla zampa anteriore destra. Il giovane si sedette con calma di fronte al saggio, incrociando le gambe e accarezzando il paziente Keshar.
“Maestro, oggi stavo giocando con Keshar quando, mentre lo ricorrevo, siamo caduti, e il povero Keshar si dev’essere ferito a una zampa, e benché non si sia lamentato, ora zoppica leggermente”. Il ragazzo osservava il suo mufir con amore e dispiacere.
“Sono preoccupato per lui. E anche per me. Che uomo potrò mai essere, se ferisco i miei mufir?”
Il saggio controllò la zampa del mufir, e vide che nulla di grave era successo.
“Non ti devi preoccupare, Eliq” disse, “il tuo mufir non ha nulla, e presto camminerà meglio di prima. Capita, a volte, che facciamo del male a coloro cui vogliamo bene, senza volerlo, ma se costoro a loro volta tengono a noi, lo capiranno e ci perdoneranno. E io penso che Keshar ti abbia già perdonato. Ecco, prendi un po’ di bacche: non velocizzeranno la guarigione, ma coccoleranno il tuo mufir”.
Eliq diede le bacche a Keshar, che mangiò avidamente, leccando le mani del suo ragazzo.
Dopo una lunga pausa, il giovane iniziò a parlare.
“Ciò che ho detto ieri, Maestro, è vero: l’amore porta la sofferenza. Ma oggi ho capito che ciò è normale, e che non posso far altro che accettarla. Quando ho realizzato questa verità, tutto è stato più facile. L’attesa del suo incontro è una tortura, è vero, ma è la tortura più dolce cui sia mai stato sottoposto. Ora svolgo i miei incarichi dedicandoli a lei, e sento che la mia vita ha un senso. Conto con gioia e struggimento ogni istante e ogni passo che mi separa dalla ragazza. E ho scoperto di odiare ed amare ogni singola roccia del sentiero che conduce al suo villaggio. Quando la raggiungo, ecco: ho fatto la più bella delle conquiste. E quando la osservo, nascosto tra gli alberi, il mio cuore non desidera altro. Ancora non sapevo come farmi avanti, ma mi sentivo un bambino perduto di fronte alla bellezza della vita, e ciò è stato bello. Quando se n’è andata, il mio cuore è rimasto con lei, e benché ciò sia doloroso, so che è felice di trovarsi separato da me. Questo è quello che ho imparato oggi, Maestro”.


Il settimo giorno, il volto di Eliq era di nuovo turbato, e benché Keshar avesse un’espressione indecifrabile, Eliq vi leggeva un misto di rimprovero e commiserazione. Il ragazzo si sedette di fronte al saggio, ma non sembrava trovare una posizione comoda, e continuava ad agitarsi. Il mufir sollevava le orecchie, percependo che il suo ragazzo era irrequieto.
“Maestro, oggi avevo infine deciso di farmi avanti con Viryely, e cento e cento volte avevo pensato a cosa dirle, esercitandomi con Keshar per apparire naturale. Quando sono arrivato al suo villaggio, sono rimasto un po’ tra le ombre accanto al fiume nell’attesa del momento migliore, pregustando ciò che stava per accadere, conoscendo quasi a memoria quello che lei mi avrebbe risposto. Nei miei sogni più belli, mi confidava di avermi scorto tra gli alberi, e di non aver atteso altro che la mia dichiarazione.
“Ebbene, Maestro, stavo per uscire allo scoperto, quando un altro giovane è giunto al fiume. Questo ragazzo le ha offerto un fiore stupendo, e lei l’ha accettato con un sorriso. Il suo mufir era giovane e forte, il suo passo sicuro e possente. L’ho invidiato e l’ho odiato, con tutto il mio cuore. Poi mi sono reso conto che non avevo nulla da offrire alla mia amata, mi sono sentito stupido, e mi sono vergognato dei miei sentimenti. Preso dallo sconforto, me ne sono andato di corsa, e ho pianto come un cucciolo di mufir. Questo pomeriggio è stato il peggiore della mia vita, perché temevo che la mia amata avrebbe scelto il giovane che oggi l’ha corteggiata, e ho sofferto come mai prima d’ora, pensando che forse l’ho persa per sempre. Impazzisco al solo pensiero dei due ragazzi insieme, e vorrei strapparmi gli occhi ogni volta che immaginano i due che si baciano. Ho pensato che i miei sogni erano stupidi, e che sicuramente non ha mai visto la mia ombra tra gli alberi, né sa che io esisto.
“Maestro, oggi ho conosciuto la gelosia”.
E, con gli occhi lucidi, il giovane uscì dalla capanna del saggio.


Nuovamente, il giorno successivo Eliq appariva più sereno. Portò di nuovo delle bacche per i mufir del Maestro, e si fermò ad accarezzarli e coccolarli. Benché quello che stava in disparte dormisse spesso, quando i suoi occhi incontrarono quelli del giovane, Eliq li scoprì profondi e saggi, come se avessero molto da raccontare. Quando prese il proprio posto di fronte al saggio, Eliq lo fece con calma e senza fretta. Keshar, ormai, non zoppicava più: la sua zampa non gli faceva più male.
“Maestro, ti chiedo perdono per il mio comportamento di ieri” dichiarò il giovane.
“Non ti devi preoccupare, Eliq” rispose il saggio, “né ti devi vergognare di ciò che provi”.
Il ragazzo annuì.
“Maestro, le tue parole sono vere, ma capisco che il mio sentimento era sciocco. Certo, è normale essere gelosi di ciò cui teniamo. Ma – mi sono chiesto – qual è il significato della mia gelosia? Forse che Viryely è una cosa che io possiedo, di cui posso decidere con chi può parlare e a chi può affezionarsi? No, Maestro. Le uniche cose che io possiedo sono il mio corpo e la mia anima. Tutto il resto mi è dato in prestito, perfino Keshar, il mio mufir, di certo non mi appartiene più di quanto io non appartenga a lui. Io potrei decidere di concedere il mio corpo o la mia anima alla mia amata, e così potrebbe fare lei, ma nessuno dei due possederebbe il corpo o l’anima dell’altro. E dunque, da dove arriva, e che senso ha la gelosia?”
Il Maestro tacque, ma Eliq non si aspettava una risposta.
“Ebbene, Maestro, io questo non te lo so dire, e dunque non è questo che ti porto in dono, oggi. Ti porto solo le mie parole e i miei dubbi: la gelosia esiste, e forse in una certa misura essa è un bene, ma io penso di dover ricordare che non possiederò nessun altro corpo e nessun altra anima se non i miei. Solo questo ho capito”.
Il saggio annuì, e Eliq uscì dalla capanna, seguito dal fedele Keshar.



Il nono giorno, Eliq entrò in silenzio nella capanna del Maestro. Non si sedette di fronte a lui, ma si appoggiò alla spalla del saggio, e pianse forte e a lungo.
Quando infine si fu calmato, prese il suo posto, e il Maestro osservò il giovane e il suo mufir, che partecipava al dolore del ragazzo.
“Maestro” disse Eliq Yaràsh con la voce rotta dal pianto, “il mio cuore è spezzato. Keshar mi ha insegnato che ciò che viene ferito può guarire, quindi il mio cuore un giorno guarirà, ma so che una parte di esso è perduta per sempre. Oggi ho assistito a un evento terribile. La mia amata, la mia bella Viryely, si stava arrampicando col suo mufir, che ho scoperto chiamarsi Saryma. Saryma deve aver messo un piede in fallo, o la roccia si deve essere sgretolata, perché il povero animale ha iniziato a cadere dalla montagna. Viryely, disperata, ha cercato di arrestarne la caduta, ma in questo modo è scivolata a sua volta, finendo in un orribile crepaccio. Oh, Maestro, la mia amata non c’è più, e tutto il suo villaggio l’ha pianta, e io ho pianto con loro, abbracciando sua madre e suo padre, e neanche dopo lacrime lunghe quanto le corna dei mufir abbiamo trovato consolazione. Maestro, perché la vita è tanto ingiusta?”
Eliq pianse di nuovo a lungo, finché Keshar prese a leccargli una mano.
“Maestro, perché non ho agito quando ne avevo la possibilità? Perché, il primo giorno, non ho chiesto alla bella Viryely il suo nome, e non le ho detto ciò che provavo? Ma forse sarebbe stato ancora più straziante, perché oggi il mio cuore sarebbe ancora più lacerato. Nonostante ciò, non posso smettere di biasimarmi. Cosa mi ha impedito di cercare la felicità? Ora capisco che se fossi spuntato dagli alberi dichiarando il mio amore, Viryely sarebbe stata contenta, e non spaventata. Quale stupida regola mi ha fatto pensare che il mio gesto non sarebbe stato elegante? E ora che ogni occasione è perduta, cosa mi rimane? Avrei potuto passare i giorni più belli della mia vita, e li ho spesi nascosti in un bosco, mentre la mia bella sognava di essere amata. E io, che sognavo di amarla, sono invece rimasto fermo del bosco, osservandola da lontano, per timore di rischiare. Oh, Maestro, ora so che nessun fallimento è peggiore di quel timore, perché il mio cuore è roso da ciò che avrei potuto fare e non ho fatto. Il mio mufir ne sia testimone: dannati siano tutti gli uomini che non inseguono i loro sogni quando possono, perché il timore è sciocco, e nulla ci dovrebbe frenare.”
E detto questo, pianse di nuovo.
Quando si fu calmato, fu il Maestro a parlare.
“Eliq, alcuni imparano la lezione che tu hai appreso oggi solo nella vecchiaia, quando ormai è troppo tardi per cogliere le occasioni che ci sono date dalla vita, quando non possono far altro che pentirsi della loro cecità. Altri non la imparano mai, e muoiono senza sapere quanto sia bello inseguire i propri sogni, anche quando sembra sciocco farlo. Altri ancora imparano presto questa lezione, per i dispiaceri che provano o per eventi lieti, e capiscono che tutto ciò che li frenava era nebbia generata dal loro stesso respiro, creata per la paura di fallire. Pochi, però, lo imparano in una maniera dolorosa come quella che ha fatto crescere te”.
Il saggio fece una pausa, mentre il volto rigato di lacrime di Eliq lo osservava.
“Non dimenticare mai questa lezione, figliolo. E ora va’, Eliq Yaràsh, perché il tuo ajashi è finito, e sei diventato un uomo”.

7 Commenti a “L’ajashi”

  1. Andrea dice:

    Ciao John,
    suggestiva questa societa’ in cui uomini e animali vivono in cosi’ stretta simbiosi. Il personaggio di Eliq e’ molto ben delineato nei suoi sentimenti e nelle sue sensazioni. Il maestro invece no (ma sto cercando il pelo nell’uovo, tranquillo), e l’accostamento con Eliq fa risaltare ancora di piu’ la differenza. Forse qualche sguardo, qualche sorriso, qualche cenno in piu’, anche senza parole, lo farebbero sembrare piu’ vero.
    Ho trovato molto efficace la scelta di far narrare il racconto a “puntate” giornaliere, invece di farcelo vivere in diretta. Bella anche l’idea di fare della prima storia d’amore un percorso iniziatico.
    Grazie per avercelo fatto leggere :)

  2. JohnElfman dice:

    Grazie ancora per il tuo commento, sincero e preciso.
    Apprezzo qualsiasi critica, quindi ben venga il pelo nell’uovo :-D
    Grazie per il consiglio, ne farò tesoro

  3. fabio dice:

    Ciao John, tanto per cominciarre ti volevo ringraziare per aver inserito questo tuo racconto. E’ stato davvero piacevole leggerlo, la struttura così suddivisa trascina velocemente il lettore verso il colpo di scena finale. Per il resto, ho poco da aggiungere, visto che il commento di Andrea è stato pressochè impeccabile.

  4. JohnElfman dice:

    Grazie a te per il commento Fabio :)

  5. emmaus 2007 dice:

    Mi unisco ai complimenti di Fabio e Andrea. Se proprio devo cercare il pelo nell’uovo, nella prima parte ripeti un po’ troppo la parola “mufir”, però nulla di grave… Si legge che è un piacere, bello! Ciao, al prossimo!

  6. JohnElfman dice:

    Hehe pensa che all’inizio l’avevo messa anche più spesso per rendere l’idea della “ossessiva presenza” di questi animali nella società… poi rileggendolo mi sono accorto che c’era un po’ troppe volte :-D
    Mi sa che in effetti era meglio toglierlo ancora qualche volta per non infastidire il lettore :P
    Grazie mille per il consiglio e il commento

  7. toko golf di jakarta online dice:

    Terribly well written writing.

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