“Dacci oggi il nostro orrore quotidiano”

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IL CARME DEL FOSCOLO parte I

Pubblicato da mariacristina il 25 settembre 2007

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                 IL CARME DEL FOSCOLO


 


               Avevo un grande, enorme, disperato bisogno di lavorare: ed ero triste. Terribilmente triste. Stavo attraversando una delle fasi più drammatiche dell’esistenza e “dovevo essere aiutata”. Da sola non ce l’avrei mai fatta.


              Mio marito e mio figlio erano morti, l’estate dell’anno prima, vittime di un terribile incidente d’auto dal quale, io non so come, ero uscita completamente illesa. Un camion aveva avuto la brillante idea di imboccare l’autostrada contromano, proprio nel momento in cui stava sopraggiungendo  la nostra station wagon . L’impatto era stato inevitabile. E micidiale. Io, però, fui sbalzata fuori. La botta sull’asfalto era stata dolorosa e, lì per lì, mi aveva fatto perdere i sensi, ma non mi  procurò altro che lividi ed abrasioni varie. Mio marito e mio figlio, invece, erano rimasti chiusi dentro. Stritolati tra le lamiere accartocciate della nostra povera macchina.


              Non so quante volte maledissi quel pazzo al volante dell’autocarro. Se solo lo avessi avuto tra le mani lo avrei straziato nello stesso modo in cui lui aveva massacrato i corpi inerti dei miei cari. Ma l’occasione tanto agognata non mi capitò mai e, così, iniziai a trascorrere le mie giornate, sempre più lunghe e sempre più vuote, odiando e maledicendo me stessa. Perché io ero viva e loro non c’erano più? La mia ossessione divenne così violenta che tentai più volte di togliermi la vita. Tutti tentativi seri e meditati ma, inspiegabilmente, andati sistematicamente a vuoto, l’uno dopo l’altro. Allora decisi che il suicidio non era cosa per me, ma, onestamente, non credevo che nemmeno la vita in quelle condizioni lo fosse. Così, mi avvicinai alla fede, ma ad una fede particolare: fatta di strani riti e di sedute spiritiche. Dal giorno dell’incidente, mi ero scoperta strani poteri. Una medium mi disse che avevo un’aura fortissima, che mi permetteva di comunicare con i morti. Così, evocai mio marito e mio figlio. Vennero e mi diedero coraggio, ma mi chiesero anche di lasciarli andare in pace. Il loro percorso terreno si era esaurito.


              Il mio, invece, era in pieno svolgimento. Purtroppo, però non tutto andava avanti nelle maniera migliore. Tra l’altro, iniziavo ad avere problemi economici. L’eredità di mio marito era agli sgoccioli e mi ero resa conto, con orrore, che non sarei mai riuscita a pagare la rata del mutuo di casa. La cosa cominciò a preoccuparmi. Lo psichiatra che mi aveva in cura se ne rallegrò. Mi disse che, se riuscivo finalmente a comprendere quelle che erano le mie reali esigenze, ero finalmente sulla via della guarigione. A onor del vero, però, ciò non mi rese molto felice. Ero completamente sola al mondo e non sapevo come fare. Se avessi perso anche la mia casa, così carica delle presenze e dei ricordi  di coloro che non c’erano più, la mia vita non avrebbe avuto più nessun senso.


              Fu allora che decisi di cercarmi un lavoro. Avevo una laurea in Lettere e, in gioventù, prima di sposarmi, avevo insegnato per qualche tempo presso un Istituto superiore della mia città. Non è che avessi grandi speranze. Le graduatorie del Provveditorato sono piene di aspiranti professori, ma, uno dei medici del centro di igiene mentale che mi aveva in cura, promise di aiutarmi. Aveva una zia monaca che dirigeva un affermato Istituto Privato proprio in centro. Forse avrebbe potuto darmi una mano. Le scuole private, si sa, non pagano come quelle statali, ma non sono soggette a vincoli e la reverenda non avrebbe potuto rifiutare di soccorrere una come me: una donna onesta e timorata di Dio, moglie fedele e madre esemplare, tanto duramente provata dalla vita.


 Quando la chiamata arrivò, la mia disperazione stava ormai raggiungendo l’apice. Non si può vivere di soli ricordi, in una casa trasformata in mausoleo.


  Il telefono squillò, ed io alzai la cornetta: – Buon giorno, parlo con Anna Messeri?- chiese una voce flautata. Risposi che ero io. Lei continuò: – Chiamo dalla scuola di  San Andrea. E’ per quel posto di insegnante di Lettere.-


 Attesi un attimo prima di rispondere. Il mio cuore batteva troppo forte. Rimanemmo d’accordo che mi sarei presentata la mattina successiva, alle sette e trenta in punto. Ero incredibilmente ansiosa di iniziare.


              Quando la sveglia suonò, per la prima volta, dal giorno dell’incidente, mi alzai contenta. Quella mattina aveva il suo scopo. Era presto, molto presto. Faceva freddo e il sole pallido di quel tardo novembre dormiva ancora sotto l’orizzonte. Io, però, non ero stanca. Mi preparai con calma e con cura. Mi lavai, mi vestii, mi truccai. Volevo presentarmi alla preside nel mio aspetto migliore.


 Uscii di casa verso le sette. La strada era sgombra e, a quell’ora di mattina, non mi ci sarebbero voluti più di venti minuti per raggiungere la scuola. Mi infilai in macchina e partii. Il rombo leggero dell’automobile mi rassicurò. Era da tanto che non guidavo. Dal giorno dell’incidente. Eppure era come se non avessi mai smesso di farlo. Mi piaceva guidare, una volta. Lo trovavo rilassante. Poi, però, da quando quel maledetto camion aveva pensato bene di entrare in autostrada dalla parte sbagliata, io non ne avevo più avuto  il coraggio. Ma adesso era differente: dovevo farlo.


 Era bello attraversare la città alle sette di mattina, quando gli altri ancora dormono o si stanno appena svegliando. Ti sembra di essere il padrone del mondo. E pensi a quanto sarebbe meravigliosa se rimanesse sempre così: priva di traffico e di confusione.


 L’Istituto di San Andrea si trovava in pieno centro storico, appena sotto l’acropoli. Piazza San Andrea, per l’appunto. Sebbene casa mia fosse abbastanza distante dalla zona vecchia,  lo raggiunsi in meno di quindici minuti. A quell’ora si cammina come treni! E, roba da non credere, trovai persino parcheggio per la mia utilitaria. Quello doveva essere proprio il mio giorno fortunato. Diedi un’occhiata all’orologio. Erano ancora le sette e venti. Dieci minuti di attesa. Ne approfittai per dare una risistemata al mio aspetto e ripassare un’altra volta il discorsetto che mi ero preparata per la Preside. Alle sette e ventisette in punto presi la borsa e, a gesti lenti e precisi, controllando il respiro attraverso il diaframma, proprio come mi avevano insegnato all’ospedale, scesi dalla macchina. La chiusi e mi diressi verso il grande portone di legno e di metallo che si apriva, come un enorme squarcio, sulla facciata in pietra dell’antico edificio che, da solo, occupava tutto il lato nord della piazza. Di fronte, si ergeva un’antica chiesa il cui stile architettonico ne lasciava chiaramente trasparire   le  origini vetuste. Tra queste due costruzioni imponenti vidi, da una parte e dall’altra, delle case vecchie e scalcinate. Così malridotte che sembrava facessero fatica a mantenersi in piedi. Il loro aspetto era decisamente orribile ma, in quel momento, non vi badai. Avevo altro per la testa.


  Quando fui davanti al portone erano precisamente le sette e trenta. Davanti a me, quasi alla stessa altezza dei miei occhi, notai un campanello. Sopra c’era scritto: “Serafico Istituto San Andrea”. Alzai la mano e lo pigiai forte con l’indice. Emise un suono strano, per un campanello. Lento e sordo come il rintocco di un’antica campana. Attesi solo un attimo. Poi udii un passo strascicato che si avvicinava. Una vecchia custode socchiuse la porta. Mi fissò per un istante attraverso i battenti semiaccostati  prima di chiedermi chi fossi. Le risposi che ero la nuova insegnante di Lettere. Annuì, ma non sembrò molto convinta. Addirittura richiuse la porta. Ero ormai in preda alla disperazione quando sbucò dieci metri più in su, da una postierla aperta nelle mura possenti dell’edificio.      


             - Da questa parte, signora -, mi fece, – quello è il portone dei ragazzi, non viene mai aperto prima delle otto. –


 La seguii in silenzio mentre ciabattava per un corridoio lungo e male illuminato. L’aria era gelida e gli spifferi entravano da ogni parte. Possibile che nessuno avesse ancora acceso i termosifoni? Tra meno di un’ora sarebbero iniziate le lezioni. Ero in procinto di esprimere il mio disappunto, quando la mia guida si infilò improvvisamente lungo uno stretto budello alla sua sinistra per poi inerpicarsi sull’angusta scala a chiocciola che portava al piano superiore. Mio malgrado, fui costretta a riconoscere che la custode si muoveva con un’agilità estrema  per essere una donna vecchia e con ai piedi un paio di logore ciabatte.


             Quando anch’io fui di sopra la trovai ferma sulla soglia di un uscio spalancato.


- La Presidenza è ancora chiusa. Non apre mai prima delle otto. La reverenda madre vi riceverà nel suo parlatorio personale.-


Mi fece cenno di entrare, ed io entrai. Ero meravigliata. Non mi sarei mai aspettata un’accoglienza del genere.


              La luce del locale era fioca. Così fioca che mi ci vollero alcuni secondi prima di riuscire a distinguere la figura intonacata che si trovava all’altro lato della stanza. Era di spalle, ma sapeva che ero lì. Mi stava aspettando, e la custode l’aveva avvertita. Per alcuni istanti rimasi in piedi, poco oltre la soglia, indecisa sul da farsi, spostandomi alternativamente ora su un piede ora sull’altro. Poi, la monaca si voltò.  - Mia cara . . .-


 Fu come una frustata. Rimasi impietrita, con il piede destro puntato per terra ed il sinistro a mezz’aria, prima di risponderle: – Reverenda madre . . . –


              La monaca si mosse e venne verso di me. Eravamo divise dal grande tavolo di noce antica che si trovava nel centro della stanza. – Si sieda, mia cara -,  disse indicandomi una seggiola dall’aria massiccia. Non me lo feci ripetere due volte. Mi sistemai e lei mi si sedette accanto. Fu molto gentile. Sapeva ogni cosa di me e della mia disgrazia.  Suo nipote l’aveva messa al corrente,  ma era certa che il lavoro mi avrebbe aiutata a guarire.


              Nel giro di mezzora mi informò di ogni cosa. All’interno della scuola c’erano ben cinque sezioni: una di liceo classico, una di liceo linguistico, una di liceo scientifico, una di istituto magistrale e una di istituto tecnico commerciale. Era lì che avrei dovuto insegnare. La mia cattedra sarebbe stata composta da tre classi, un terzo, un quarto ed un quinto che operavano secondo i nuovi programmi del ministero. Gli alunni non erano molti, una settantina in tutto, e le classi erano tranquille, tranne la quarta dove si erano registrati alcuni problemi. Lei era sicura, però, che io avrei saputo come fare. Tuttavia, mi raccomandò di non essere troppo dura e di mantenere la calma. L’insegnante che andavo a sostituire si era ammalata di nervi proprio, diceva, a causa delle ansie che le aveva creato la quarta.  Ma la Preside non era convinta che ciò corrispondesse al vero : – I ragazzi sono ragazzi, -   sentenziò. –Sta agli adulti avere pazienza e comprenderli!-


  Mentalmente, mi chiesi se la reverenda si rendeva conto che, forse, nel mio attuale stato mentale, non ero l’insegnante più adatta alla classe: ma evitai di dirglielo. Avevo troppo bisogno di quel lavoro. Lei, allora, prese tre enormi tomi che erano nascosti su di una sedia e me li consegnò: – Queste sono le letterature.-  Mi disse.  – I testi di storia glieli procurerò poi.-   Si fermò un attimo a soppesarmi con lo sguardo prima di concludere : – Oggi, in quarta, deve spiegare il Carme di Foscolo. Se lo ricorda, non è vero?-


Spalancai gli occhi meravigliata. Per quanto mi potessi ricordare, Foscolo si studiava in quinta. Le rughe della reverenda madre furono spianate da un largo sorriso. Si passò le mani sul volto e, quel movimento, spinse leggermente all’indietro il soggolo candido e le bende che le incorniciavano il viso. Una ciocca di capelli grigi sfuggì alla sua prigione. Si ricompose subito, però, e mi squadrò severa. –Le procurerò una copia dei nuovo programmi,- mi disse. –Credo che dovrà studiarseli con cura.-


Mortificata, annuii.


 Il tocco delle campane ci informò che erano le otto. La madre si alzò e mi fece cenno di seguirla. L’Istituto scolastico occupava un’altra ala dell’edificio. Scendemmo al piano di sotto, poi mi condusse attraverso lunghi corridoi, deserti e male illuminati, odoranti di muffa, fino a che giungemmo ad una piccola porta bianca, perfettamente mimetizzata in un muro. La attraversammo e ci trovammo all’interno di una grande sala polverosa. Nel mezzo, c’era un grande tavolo con, all’intorno, almeno una ventina di sedie. Addossati alle  pareti, notai un serie di scaffali e di cassetti, alcuni con la chiave infilata dentro. Pensai che dovesse essere la sala dei professori che, per il momento, era ancora vuota.


               La reverenda madre mi disse di attendere lì il suono della campanella. Nel giro di cinque minuti la custode mi avrebbe recapitato il mio orario ed i registri. Se volevo, potevo cercare un cassetto vuoto e metterci dentro la mia roba. Tutti gli insegnanti ne avevano uno.


              Entrai in quarta alle undici e trenta, dopo l’intervallo, e subito mi resi conto che, in quella classe, c’era qualcosa che non andava. Dopo quello che mi aveva detto la madre, mi sarei aspettata di trovarmi al cospetto di un branco di piccole belve indisciplinate, ma non fu così. I ragazzi erano tranquilli, tranquillissimi, ma cupi. Quando mi videro entrare si sedettero rassegnati ai loro posti. Senza una parola.  Senza dubbio, sapevano già chi fossi. Mi sedetti in cattedra e feci l’appello. C’erano ventitré nomi segnati sul registro di classe, ma cinque erano stati cancellati con un doppio tratto di penna. Accanto ad ognuno di essi era segnata, in calce, una data. Presumibilmente quella del ritiro. Avrei voluto chiedere delucidazioni in merito, ma mi astenni. Il mio sesto senso, enormemente sviluppato dal giorno dell’incidente, percepì un’ostilità così densa da poter essere tagliata dalla lama di un coltello. Mi domandai cosa fosse successo. Ciò nonostante, tentai di intavolare una conversazione –volevo cercare di conoscere i miei diciotto alunni- ma con scarsissimi risultati. Così aprii il libro di testo. – A pagina trecentoquindici, ragazzi. Oggi inizieremo la lettura del carme “Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo.-


 Un sommesso mormorio di disapprovazione accompagnò le mie parole. Io, però, proseguii imperterrita. Non sempre i ragazzi hanno voglia di studiare e il carme di Foscolo, nonostante sia bellissimo, è notoriamente ostico e di difficile comprensione. Così iniziai a declamare:


- “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto, è forse il sonno della morte men duro?” -  Interruppi la lettura del testo al verso ventitré ed iniziai la spiegazione. Il mormorio era cessato, alzai lo sguardo dal libro per controllare il grado di attenzione degli alunni e, mi accorsi con angoscia, che mi stavano fissando. Avevano gli occhi sbarrati. Improvvisamente ammutolii. Uno dei ragazzi all’ultimo banco, un tipo mingherlino, con i capelli rossi, si alzò in piedi.


– Ci scusi, signora, – interloquì con aria educata, – ma noi non riusciamo a capire perché, con tutte le belle cose che hanno scritto i poeti, deve angosciarci con questa storia di tombe.-


 Rabbrividii dall’orrore. Come si poteva trattare così il carme di Ugo Foscolo? Stavo per sparargli su una conferenza sul ruolo avuto da Ossian e da tutta la poesia sepolcrale nella formazione del romanticismo europeo , quando una ragazza del secondo banco si alzò. – Siamo giovani, signora, amiamo la vita. Dei cimiteri e della morte non sappiamo cosa farcene.-


 La fissai esterrefatta. Non era possibile. Non avrei mai creduto di trovarmi di fronte ad un ammutinamento in piena regola. Tentai, ancora una volta, di spiegare le mie ragioni ma un’altra ragazza mi precedette. – Per l’amor di Dio, signora. . . basta con i cimiteri e con la morte. E’ troppo pericoloso mettersi a caccia di spiriti!-


              Scoppiò in lacrime.  Tutta quanta la classe aveva gli occhi lucidi così, forse più per forza di abitudine che per altro, iniziai a piangere anche io. Il ricordo di mio marito e di mio figlio era ancora troppo doloroso. Fortunatamente, il campanello giunse a salvarmi da quel mare di lacrime. Raccolsi in fretta e furia le mie cose e mi diressi come un razzo verso la porta. Uno dei ragazzi mi seguì. Aveva l’aria visibilmente costernata. – Per l’amor di Dio, signora, ci scusi.- Poi la sua voce divenne supplichevole – e non dica niente alla preside. Suor Giuditta non capirebbe mai. – A dire il vero, nemmeno io avevo capito, però non glielo dissi. Volevo solo andarmene. Purtroppo, però, quando entrai in sala dei professori per riporre i registri, la reverenda madre era lì, ed aspettava proprio me.


-  Mia cara, – iniziò con la sua voce flautata, – sono stata proprio una sciocca. Non le ho detto che oggi pomeriggio, alle tre in punto, c’è la nostra riunione settimanale per la programmazione.-


              La fissai ad occhi sbarrati. Lei scosse la testa sorridendo.- Tutti i mercoledì, dalle quindici alle venti, i consigli di classe  del commerciale si riuniscono e programmano le attività didattiche per la settimana successiva.  E’ una tradizione della nostra scuola. Vedrà, le piacerà. E’ un simpatico modo per socializzare con i colleghi.- Si fermò e diede una rapida occhiata all’orologio.


 – Non credo che farà in tempo a tornare a casa.- Mi informò. –Forse sarà meglio se fa un giretto per il centro e mangia un panino al bar. Vada. Alle tre in punto si parte.-


Non disse altro. Girò su se stessa ed uscì dalla porta principale. Io, per un attimo rimasi interdetta, poi le corsi dietro. Avrei voluto protestare, ma lei era già lontana. La vidi andare via, scivolando lungo le pareti del corridoio male illuminato, con la tonaca nera che svolazzava come le ali di un grande, lugubre pipistrello. Compresi che non c’era nulla da fare. Le comunicazioni della preside non ammettevano repliche. Mi infilai il cappotto, presi la borsa e mi diressi verso l’uscita.


              Fuori c’era un tempo da lupi. Faceva freddo e pioviccicava. Un colpo di vento trasversale  prese in pieno l’ombrello e lo rovesciò. Decisi che avrei mangiato un panino nel primo bar che mi si fosse presentato dinanzi. Non era proprio il caso di andare in giro.


  Ce n’era uno proprio dall’altro lato  della strada, posto ad angolo tra l’ultima delle case scalcinate della piazza e la larga arteria che sale su fino al Corso principale. Aveva un aspetto decisamente squallido e sembrava deserto. Ciò nonostante entrai. Non avevo molte possibilità di scelta.


               L’interno della caffetteria non era certo più invitante dell’esterno. Il bancone aveva urgente bisogno di un restauro e anche l’uomo che si agitava dietro ad esso aveva un non so che di sciatto e trascurato.  Di fronte, sull’altro lato dello stanzone, c’erano tre vecchi tavolini bianchi con le loro sedie. Le logore tovagliette che li ricoprivano non riuscivano a nascondere la ruggine che li divorava. –Che posto da incubo,- pensai. Lanciai un’occhiata guardinga all’unico avventore, seduto al tavolino più lontano dalla porta d’ingresso, ed entrai. Ordinai al barista un tramezzino con tonno e pomodoro ed una spremuta d’arancia e mi sedetti anch’io.


 Avevo quasi finito il mio pasto, quando una presenza sconosciuta mi costrinse ad alzare gli occhi.


 - Posso offrirle un caffè, signora?- mi chiese una voce stridula di ragazzo.


  Lo guardai, era uno dei miei alunni della quarta. Non avevo nessuna voglia di intavolare conversazione, ma pensai che sarebbe stato estremamente sgarbato rifiutare. Così accettai. Andò a prendere il caffè al banco e me lo portò, poi, senza nemmeno chiedermi il permesso, spostò la sedia accanto alla mia e ci si sedette.


 Notai che mi fissava in maniera strana. – Lei è sensitiva, vero?- Mi chiese a bruciapelo.       


 Quella domanda mi raggelò. Lo fissai a mia volta. –Prego? – Domandai sussiegosa.


 Lui, però, non fece un frizzo. – Voglio dire: lei parla con gli spiriti?-


- Come fa a saperlo?-


Si strinse nelle spalle. –E’ la sua aura, credo. Ne ha una molto potente. E’ visibile da lontano. Lo sa?-


Scossi il capo. Sapevo di avere un’aura, ma sapevo anche che solo quelli come me potevano vederla. Lo osservai meglio. Era il tipo mingherlino, dai capelli rossi, che aveva parlato per primo.


-  Cosa c’è che non va con gli spiriti. . .  e con i  “Sepolcri”, suppongo?- Gli domandai a mia volta.


- Cielo!- Notai che era profondamente costernato. –Possibile che la preside non le abbia detto nulla?-


Gli risposi di no. Lui, allora, si coprì la faccia con le mani. –Abbiamo una paura boia.-


Lo guardai pensosa. Proprio non riuscivo a capire. Lui incrociò le mani sul petto e poi si appoggiò al tavolino. –Ha notato quei nomi sul registro? Quelli cancellati con un doppio tratto di penna?-


 Annuii: – Sì, li ho notati.-


- E che  cosa ha pensato?-


Mi strinsi nelle spalle .- Non saprei, forse che si erano ritirati.-


- Ritirati!- La sua vocetta stridula si alzò ad un’altezza imbarazzante. Era agitatissimo: si muoveva avanti e indietro sulla sedia ed aveva il viso in fiamme. –Dica piuttosto che sono morti. . . e nessuno per cause naturali . . .- Mi sussurrò con rabbia.


- Oh mamma mia . . . – Quell’affermazione mi lasciò di stucco. Possibile che quel ragazzino dall’aria inoffensiva  stesse cercando di prendersi gioco di me? Suor Giuditta mi aveva messo in guardia: quella era una classe pericolosa. Avevano capito che ero intenzionata a metterli in riga e a farli studiare, ed ora cercavano di spaventarmi.


 Lui dovette comprendere i miei pensieri perché mi guardò con uno sgomento profondo :- Per l’amor di Dio, signora. Lei deve credermi. Ho visto la sua aura, o no? Lei pensa che tutti siano in grado di farlo?-


 Scossi la testa. Quello che diceva era perfettamente vero. Avrebbe anche potuto non trattarsi solo di uno stupido gioco. Avevo il dovere di dargli almeno una possibilità. Guardai l’orologio: erano le due e mezza passate, ed io dovevo tornare a scuola. C’era la stramaledetta riunione per la programmazione didattica settimanale. Mi alzai e mi diressi verso la cassa: bisognava che pagassi il conto.


 Lui mi seguì fin sulla porta: – Allora, signora, mi crede o no?-


 Ero pensosa. –Non lo so. Può darsi. Siamo d’accordo, tu hai visto la mia aura, ma io non posso dire lo stesso della tua. Perché? – La cosa mi insospettiva alquanto. Avevo bisogno di riflettere.


 - Non è un problema, posso spiegarglielo.-


 - Va bene, ma domani. Adesso ho una riunione a scuola e, se arrivo in ritardo oggi, che è il mio primo giorno di lavoro, la reverenda preside penserà che sono una lavativa. Non voglio darle questa impressione. Sono stata chiara?. –


- Va bene, va bene. Ma la prego, mi creda, e . . . – uscì fuori e si voltò a guardarmi. –Faccia attenzione, per l’amor del cielo! Può essere un posto pericoloso, per una come lei!-


 Se ne andò, ed io guardai quella piccola figura smilza, di ragazzo poco cresciuto, allontanarsi nella foschia.  Non pioveva più e il vento era cessato, ma l’aria umida e nebbiosa di novembre mi incollò i capelli sulla testa dandomi uno strano brivido di freddo. Avevo dimenticato l’ombrello al bar, ma non tornai a prenderlo. Era tutto rotto e non avrebbe potuto ripararmi.


Attraversai la piazza e mi diressi a passi decisi verso la scuola, sperando che avessero lasciato il riscaldamento in funzione.


I termosifoni erano spenti, ma la preside aveva provveduto a tener accesa una stufetta a gas, per cui l’ambiente era abbastanza riscaldato. La riunione si teneva in un’aula al primo piano. C’eravamo solo noi del commerciale. Il mercoledì era il nostro giorno.


Eravamo in sette, tutti laici tranne suor Maria Carmela, l’insegnante di religione, e nessuno di noi aveva molta voglia di trovarsi lì. Ma il dovere . . . Tutto andò bene fino a che non ebbi l’infelice idea di chiedere notizie dei cinque alunni che non venivano più a scuola. L’atmosfera del Consiglio divenne gelida. Tutti fecero finta di cadere dalle nuvole. Nessuno sapeva che fine avessero fatto quei ragazzi. Avrei voluto insistere, ma suor Carmela non me ne diede il modo : – Mia cara,- mi disse con fare saputo, – lei è nuova, ma presto si abituerà. Queste faccende non ci riguardano. Noi siamo insegnanti e ci occupiamo di didattica. La preside e la segretaria gestiscono le questioni amministrative. E le assicuro che di questione amministrativa si tratta. –


 I colleghi annuirono in segno di approvazione, e io mi sentii davvero molto sciocca. Mi ripromisi di lasciar perdere la faccenda, non senza aver dato prima il fatto suo a quello stupido ragazzo importuno.


 Poi, la riunione proseguì senza altri intralci e, alle diciannove e cinquanta , il collega di matematica che la presiedeva, dichiarò sciolta la seduta. Tutti scapparono via di fretta e furia, anche suor Carmela. Io, probabilmente, mi attardai un poco a rimettere a posto le mie cose, così, quando uscii fuori, per i corridoi non c’era più nessuno. Non sarebbe stato un problema se mi fossi ricordata la strada per andarmene da quel posto, ma ero nuova della scuola, e non sapevo orientarmi tra quel dedalo di corridoi umidi e malamente illuminati.


- C’è nessuno, qui? C’è nessuno?- Gridai con il cuore in gola.


Una voce di donna mi rispose: – Anna!-


Quelle due sillabe mi riempirono di sollievo. Mi sembrava di aver riconosciuto la preside. – Suor Giuditta, – gridai, – sono rimasta al primo piano, dove c’era la riunione, e non so come uscire!-


 Udii la voce ridere. – Non ti preoccupare, cara, vieni avanti, verso di me. C’è la scala.-


 Percorsi a passo veloce, in preda ad una sottile angoscia, il lungo corridoio che mi stava dinanzi, fino a raggiungerne il fondo, ma non vi trovai nessuna scala. Solo una vecchia  tenda di velluto pesante che ricopriva la parete. Sentii il cuore battere forte nel petto e il pulsare del sangue che scorreva nelle vene.  Sapevo che era paura. Cercai di controllare il respiro, per non cadere il preda all’angoscia.


 - Preside,- gridai con la voce che tremava, – qui non c’è nessuna scala!-


  - La tenda, cara, alza la tenda.- Mi disse.


   Io la sollevai.  Il tendaggio ricopriva un vecchio muro di mattoni, sul quale erano state inchiodate delle assi. – Non c’è nessuna scala!- Gridai.


 La voce divenne accattivante: – Le assi, cara, – sussurrò, – le assi. Schiodale, troverai una porta. Aprila. La scala è lì.-


Dovevo essere fuori di me dal terrore, perché iniziai a colpire le assi a calci e pugni, come un’ossessa, fino a che il legno non cedette in un punto. Con una forza insospettabile, in una donna di piccola taglia, spostai il pezzo di legno. Apparve lo squarcio di una vecchia porta, e su di essa c’era un segno, uno strano segno: arcaico e terribile. Lo stesso segno che gli antichi etruschi usavano per tenere i feroci demoni rinchiusi al di là del mundus.


 - Professoressa! E’ impazzita, per caso? Cosa sta facendo?-


 Mi girai di scatto. La vecchia custode mi stava osservando con gli occhi sbarrati. Ero improvvisamente ritornata in me stessa.  


- Oh cielo . . . io . . . mi ero persa . . . – blaterai confusa.


 - Vedo . . .- La vegliarda in ciabatte mi guardò severa.- Ma non è una buona ragione per tentare di distruggere la scuola  . . .-


 Non sapendo cosa rispondere ad un’osservazione tanto sensata, ammutolii.


- Venga con me, professoressa. – Spinta da un improvviso impulso di solidarietà, l’anziana donna mi fece cenno di seguirla. Le scale erano esattamente dal lato opposto del corridoio. Le scendemmo e, come per miracolo, ci ritrovammo dinanzi al grande portone di ingresso


- Per stasera esca pure da lì,- mi fece, – ma si ricordi che, dalle otto di sera alle otto di mattina, questa porta non si apre per nessuno.-


Ringraziai e fuggii via di corsa. La mia utilitaria era ancora dove l’avevo parcheggiata alle sette e venti di quella mattina. Vi salii e filai a casa in tutta fretta. Ero perplessa e molto, molto,  imbarazzata.


Fine parte I    macrina

3 Commenti a “IL CARME DEL FOSCOLO parte I”

  1. Andrea dice:

    “Fine parteI”?? Come sarebbe a dire “Fine parte I”?!?!? Mica puoi lasciarci cosi’ in sospeso!!!!
    Stessi complimenti che ti ho gia’ fatto all’altro tuo racconto. Sei bravissima a riutilizzare gli elementi classici del racconto gotico (il monastero, misteriose apparizioni, personaggi inquietanti, perdersi in un corridoio buio…) in un quadro moderno. Il risultato e’ molto appassionante.
    Grazie per avercelo fatto leggere :)

  2. fabio dice:

    Uao.. sono davvero senza parole. Stupendo. E’ molto difficile non farsi trasportare dalla voglia di raccontare tutto e subito, ma tu in questo sei stata bravissimai. Hai sparso briciole di mistero qua e la! Aspetto la seconda parte. Ciao ^_^

  3. macrina dice:

    Cari Fabio e Andrea, arriva presto. Solo che i finali sono la parte più difficile della storia.
    Ciao

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