“Dacci oggi il nostro orrore quotidiano”

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IL CARME DEL FOSCOLO PARTE II

Pubblicato da mariacristina il 26 settembre 2007

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IL CARME DEL FOSCOLO        PARTE II


    Trascorsi una notte decisamente agitata, tormentata da sogni non proprio piacevoli, nel corso dei quali Suor Giuditta, la vecchia custode, la voce misteriosa ed il rosso ragazzino della quarta si rincorrevano e mi rincorrevano lungo i corridoi bui ed umidi della scuola. Poi, improvvisamente, ci ritrovammo tutti nello squallido bar in fondo alla piazza. L’orribile barista ci stava aspettando. Qualcuno di noi ordinò un caffè e lui accese la sua macchina per l’espresso che era diventata un enorme mostro di ferro, fumante e rombante come una locomotiva. Il pulsante dell’accensione, però, doveva essere in realtà collegato con un ordigno ad orologeria, perché, come lo premette, il mostro esplose con un osceno stridio di ferraglia.


Mi svegliai. Erano le sei e un quarto, e la radiosveglia aveva preso a gracchiare in modo sinistro. Con un balzo fui fuori dal letto. Il nuovo giorno era appena iniziato.


Alle otto meno cinque minuti ero di fronte alla scuola. Fu con una certa angoscia che notai una volante della polizia piazzata dinanzi al portone che , proprio allora, era in procinto d’aprirsi. Guardai la piccola folla di ragazzi che attendeva il momento dell’ingresso ed ebbi come un presentimento: in quarta avrei trovato solo diciassette alunni, quella mattina.


Entrai e cercai con gli occhi la vecchia custode. Non c’era. Non vidi nemmeno la  preside. Ne fui sollevata. Sperai che l’incidente delle sera precedente fosse stato dimenticato.


Feci la prima ora di lezione in quinta. Era una buona classe, tranquilla, che non creava problemi. Poi  uscii e me ne andai nella quarta. L’atmosfera era lugubre. Il ragazzo rosso e mingherlino mi attendeva accanto alla cattedra. Come mi vide spalancò il registro: – Siamo rimasti in diciassette,- mi disse.


Annuii. Me lo aspettavo. Chiesi cosa fosse accaduto. Una ragazza bionda, dalla bocca molto truccata, sussurrò tra le lacrime: – Fabiani si è impiccato.-


Domandai chi fosse, dato che non me lo ricordavo. La ragazza in lacrime mi spiegò che era il suo compagno di banco.


- Mi dispiace. – Fu tutto ciò che riuscii a dire. Poi, spostai la sedia che era dietro alla cattedra e mi sedetti. Era mia intenzione spiegare il canto primo de “ Le Grazie”, quel giorno, così iniziai ma, subito, mi resi conto che non era il caso. Erano troppo angosciati e preoccupati. Se avessi continuato, qualcuno di loro mi avrebbe tirato un astuccio in testa, pur di farmi tacere. – Allora, Lupattelli,- chiesi rivolta al ragazzino dai capelli rossi, – che ne è stato della sua aura?-


 Lui sorrise mestamente: – Me l’hanno portata via le anime che abbiamo risvegliato durante il rito di settembre.-


- E’ stata tutta colpa tua, Carlo, – strillò la biondina in lacrime. –Tu non dovevi venire!-


 Anche gli altri erano d’accordo con la sua tesi. Io, invece, cominciavo appena ad intuire ciò che doveva essere accaduto, e la cosa non mi piaceva affatto, anche in considerazione della brutta avventura che mi era capitata la sera prima. Diedi un colpo sulla cattedra e cercai di ristabilire la calma. – Allora, ragazzi, una cosa alla volta. Chi vuole raccontarmi tutto dall’inizio? Lupattelli?-


No, signora. – Un tizio grande e grosso, con i baffi e la barba, ma con la voce stridula da bambino, si alzò in piedi dall’ultimo banco. – Sarà bene che racconti io.-


 Diedi un’occhiata al registro: – Sei Camilloni, vero?- gli chiesi.


Lui annuì. Si fece coraggio ed iniziò la sua storia, mentre i compagni ascoltavano in silenzio.


La scuola legalmente riconosciuta delle suore di San Andrea era un posto molto antico. Fu costruito in epoca alto medioevale, accanto alla grande chiesa romanica che porta lo stesso nome e, per secoli, era stato un austero convento, popolato da monache di clausura. Poi, ci fu l’unità d’Italia, la città si sottrasse allo Stato pontificio, i tempi ed i costumi mutarono, la contemplazione passò di moda. Le suore di clausura andarono via e, al loro posto, ne vennero altre, dello stesso ordine, ma dedite all’educazione dei giovani. Così, era sorta una scuola e, accanto ad essa, un orfanatrofio. Centinaia di bambine abbandonate avevano vissuto tra quelle mura ma, evidentemente, non erano state felici, perché ogni poro di quelle antiche pietre  trasudava dolore. Questo, almeno, era quello che diceva Lupattelli. Gli altri, però, dovevano aver trovato la cosa molto divertente, così, alla fine del primo, decisero che avrebbero iniziato ogni nuovo anno scolastico risvegliando gli spiriti malvagi del luogo, in modo che tormentassero la preside ed i professori. Era stata una goliardata, solo uno scherzo da ragazzi. Nessuno di loro credeva ai fantasmi . . . eccetto Lupattelli.


              Scoprirono che, all’interno dell’acropoli, sotto il muraglione scalcinato che chiudeva a nord il perimetro dell’antico convento, serrato tra le case ammuffite del rione, esisteva un luogo abbandonato e dimenticato da tutti: un vecchio cimitero, ormai sconsacrato, dove una volta venivano sepolte le monache e le educande. Anche se lì non c’era più nessuno, dato che, alla fine della seconda guerra mondiale, tutti i miseri resti delle sepolture erano stati trasferiti nell’ossario del cimitero comunale, i ragazzi pensarono che sarebbe stato divertente celebrarvi ogni anno, il giorno che precedeva l’inizio della scuola, un rito a scopo propiziatorio.


Non c’erano mai stati problemi fino a che, lo scorso settembre, Lupattelli non aveva deciso di partecipare anche lui alla lugubre messa. Si era sentito male durante la celebrazione ed era svenuto.


Gli altri avevano riso e lo avevano lasciato steso su di una vecchia lapide senza nome, appena fuori dal perimetro del cimitero. Poi, quando si era svegliato, se ne erano andati via. Il giorno seguente, nessuno si ricordava più nulla dell’avvenimento: nemmeno Lupattelli.


              Quell’anno, però, era accaduto qualcosa di strano. Era venuta una nuova insegnate di Italiano: giovane ma incredibilmente démodé, sia come modo di vestire che nella pettinatura: sembrava uscita da un manifesto dell’epoca fascista. Ci avevano riso su per qualche giorno, poi avevano iniziato a trovare la signora alquanto sgradevole . . . ed inquietante. Ogni volta che faceva il suo ingresso in classe, entrava con lei una zaffata di aria gelida e maleodorante. Sapeva di zolfo, come le terme dell’Amiata. Lei si sedeva in cattedra e li guardava, con gli occhi freddi ed iniettati di sangue. Vitrei ed inespressivi come quelli di un serpente. Sembrava una vipera pronta all’attacco. Non erano mai riusciti a toccarla, e nemmeno ad avvicinarsi alla cattedra, tanto era il ribrezzo che la signora ispirava.


             Un giorno, però, Lupattelli era esploso. Si era alzato in piedi ed aveva iniziato a gridare: – Ridammi la mia aura . . . ridammi la mia aura . . . figlia di Satana . . . – Lei, però, non si era scomposta. Lo aveva fissato con il suo sguardo gelido dilatando le pupille troppo sensibili alla luce. – Non posso,- gli aveva risposto.        – Ormai è priva di energia e di forza vitale. L’ho consumata tutta. Me ne serve un’altra, altrimenti . .   .    Loro non avevano compreso nulla della questione, ma Lupattelli si era sentito male ed era svenuto. Sembrava che non volesse più tornare a scuola. Anche gli altri decisero che non avrebbero più messo piede in classe se lei fosse rimasta lì. Così, alla fine di ottobre, la professoressa se ne era andata. Per un po’, sembrò che tutto fosse tornato in ordine


( tranne che per la nuova insegnante di Italiano, che non era ancora stata assunta)   poi, iniziarono i suicidi. Si erano impiccati. Tutti appesi al soffitto con corde fatte di stracci.


            Giuditta aveva tentato di mettere la cosa a tacere, ma loro avevano paura e continuavano a chiedersi chi sarebbe stato il prossimo. Erano convinti che, anche se non sapevano in che modo, quella notte di settembre avevano  evocato una forza terribile e misteriosa che ora non era più possibile fermare. Supponevano che l’artefice di tutto fosse stato Lupattelli, o meglio, la sua aura, ma nessuno sapeva come la signora se ne fosse impadronita. Tra l’altro, quando erano andati a cercare la professoressa all’indirizzo che lei aveva dato alla scuola, si erano accorti che la via ed il numero corrispondevano a quello di una delle vecchie case fatiscenti e disabitate che sorgevano intorno al vecchio cimitero sconsacrato. In particolare, quella dell’indirizzo era sormontata da una specie di torretta ed era confinante con un’estremità dell’istituto.


               Scossi il capo in segno di disapprovazione. Tutto ciò era veramente orribile. Poi, raccontai loro la mia avventura della sera precedente. Li sentii squittire dal terrore. Qualcuno aveva iniziato a piangere. Lupattelli mormorò: – Tutto quadra!-


- Già,- risposi io, – tutto quadra. Bisogna fare qualcosa prima che sia troppo tardi. Voglio vedere la tomba dove ti hanno adagiato quando eri svenuto. Può darsi che tutto sia partito da lì.-


- Stasera alle otto al vecchio cimitero.- Propose qualcuno.


 - Va bene,- dissi, – ci sarò.-


Quando uscii dalla classe ero sconvolta e spaventata. Avevo un’ora libera, così mi diressi verso la sala dei professori per riposare e riflettere un po’.


 La preside mi attendeva: – Mia cara,- mi chiese con aria soave, – cosa è accaduto ieri sera?-


 Compresi che la custode non era stata in grado di tacere. – Mi ero persa.- Risposi.


- Già, – convenne, – ma la prossima volta deve fare più attenzione. Non è bene che una donna, così duramente provata dalle circostanze della vita, rimanga la sera, al buio, da sola, a girare tra questi corridoi. Fortunatamente per lei, avevo chiesto alla custode di tenerla d’occhio. Mio nipote mi aveva informato che le sue condizioni psichiche non si erano ancora completamente stabilizzate. Spero, mia cara, che tutto ciò non abbia ripercussioni sul suo rapporto con i ragazzi.- Scosse il capo in segno di profonda disapprovazione, lasciando che il velo nero le ondeggiasse da una parte e dall’altra del capo. Poi girò sui tacchi, pronta ad andarsene.


Le corsi dietro: – Reverenda madre!- Chiamai.


Si voltò di scatto: – Sì, mia cara?-


- Cosa c’è al di là di quella porta sbarrata. – Le chiesi.


  Si strinse nelle spalle. – Una torretta, credo. Ma non lo so di preciso. Confina con una di quelle vecchie case fatiscenti che danno nella piazza. Il Comune dovrebbe abbatterle. Comunque, quelle assi sono inchiodate lì dal 1938, e nessuno ha mai cercato di schiodarle.-


La mia voce salì di tono: – Perché? Questo posto è stato ristrutturato più di una volta, negli ultimi sessanta anni. E allora? Perché nessuno ha mai schiodato quei pezzi di legno? Perché nessuno ha mai pensato di ristrutturare la vecchia torretta?-


  Gli occhi della preside divennero feroci: – Lascia perdere, figliola, lascia perdere . . .- Sussurrò minacciosa dandomi del tu. – Sei stata in cura presso un centro di igiene mentale, e il tuo equilibrio psichico è compromesso. Lascia perdere. -


 Quelle parole mi ferirono: – Sa che non è così, reverenda madre,- le urlai.


La sua voce suonò particolarmente dura.- Lascia perdere . . .e non strillare . . .non abbiamo bisogno di altri guai, qua dentro.- Era furiosa. Dovevo aver toccato un tasto molto dolente.


Quando se ne fu andata, mi misi a sedere. C’erano altri due colleghi nella stanza , ma si comportavano come se fossi stata trasparente. Tentai di provocarli :- Cosa pensavate della vecchia collega di Italiano? Quella signorina dall’aria un po’ démodé che io ora sostituisco?-


Fecero finta di non aver sentito.


Le otto di sera giunsero presto. Troppo presto.


               Davanti all’ingresso del vecchio cimitero mi attendevano in tre: Lupattelli, la ragazza bionda eccessivamente truccata e Camilloni. Non fu difficile entrare. Passammo attraverso uno squarcio del vecchio muro di cinta. Quando fummo all’interno, accendemmo le torce elettriche. Diedi un’occhiata tutt’intorno. C’erano decine e decine di vecchie lapidi, ma quelle tombe dovevano essere vuote, perché non percepivo nessuna presenza provenire da lì. Tranne una. C’era qualcosa e non sapevo dove. Guardai Lupattelli. Era bianco come un lenzuolo. Anche lui aveva le mie stesse sensazioni. Continuammo a camminare, fino a che fummo fuori dalla terra che una volta era stata sacra. Proprio là, si avvertiva più chiaro  il pulsare di una presenza. Illuminammo lo spiazzo all’intorno. C’era un solo sepolcro , in quella terra da sempre sconsacrata.


Qualcuno mormorò: – La tomba di un suicida.-


- O di uno scomunicato. – Rispose un altro.


  Scossi il capo: – E’ la tomba di qualcuno che soffre molto.- Risposi. Il dolore, in quel posto, era così forte che avrebbe potuto materializzarsi. Mi avvicinai. Sulla lapide non c’era nessun nome. Solo un’incisione rotonda, arcaica e primitiva. Lo stesso segno che avevo già visto, la sera precedente, sulla porta murata nel 1938.  


 Guardai Lupattelli. – E’ qui che ti hanno lasciato, quando sei svenuto?- Gli chiesi.


 Non mi rispose, ma si voltò ed iniziò a vomitare. Doveva sentirsi molto male. Camilloni e la bionda annuirono: – E’ stato proprio qui.-


-    Usciamo da questo posto, allora, – mormorai. – C’è qualcuno che ci segue, e può essere pericoloso. –


  Andammo via di corsa, illuminando la strada con le torce. Non parlai, ma mi sembrava di aver visto un’ombra nera piantata proprio nel mezzo del cimitero. Quando fummo fuori, ci fermammo a prendere fiato. Sentii Lupattelli ansimare: -Signora,- mi disse,- davanti a quella tomba ho provato le stesse sensazioni che avevo quando . . . lei  . . .era in classe. C’era la mia aura, là dentro.- Sembrava fuori di sé dal terrore.


 Scrollai la testa. –Adesso, ragazzi, andate a casa.- Raccomandai. – Io, invece, è bene che faccia quattro chiacchiere con la preside. Ho l’impressione che mi stia aspettando.-


 La bionda si coprì il volto con le mani. – Non vada. Può essere pericoloso. Non si fidi di quella donna. Giuditta  è una persona malvagia.-


 - Non importa, – risposi, – dopotutto non ho molta paura di morire.- Mi accorsi che stavo pensando a mio marito e a mio figlio.


  Era una notte da lupi e, a quell’ora, la piazza era deserta. Non c’erano in giro nemmeno i drogati. Nonostante fossero le nove passate, suonai ugualmente al potente campanello dell’Istituto. Non so perché, ma ero certa che qualcuno sarebbe venuto ad aprirmi.


  La vecchia doveva essere in attesa dietro alla porta, perché fu rapidissima e non  la udii ciabattare lungo il corridoio. – Mi segua,- disse, – la preside l’aspetta nel suo parlatorio privato.-


 Ripercorremmo la stessa strada del giorno prima e, ancora una volta, mi trovai nell’austera stanza dalla porta a vetri, impreziosita dal grande tavolo di legno intarsiato. Giuditta mi attendeva, in piedi, passandosi nervosamente le dita lungo il bordo del candido soggolo.


 Non appena mi vide sbuffò : – Le avevo detto di lasciar perdere . . .-


 Mi sedetti. Mi sentivo molto forte e decisa. – Come ha fatto ad entrare nel cimitero, – le chiesi senza tanti preamboli, – nessuno di noi l’ha vista arrivare.-


  Si strinse nelle spalle, seccata: – C’è un passaggio. Questo posto è pieno di cunicoli che percorrono in lungo e in largo il sottosuolo dell’acropoli. Li usavano le monache di clausura per andarsene in giro senza essere viste.-


- Allora sapeva tutto. Sapeva anche dei ragazzi e del loro stupido modo di festeggiare l’inizio dell’anno scolastico. – Mormorai delusa.- Non c’è niente di reale in questa storia. Si è trattato solo di uno scherzo.-


Nonostante le luci del parlatorio fossero fioche come quelle del resto dell’istituto, la vidi impallidire. – Non c’è stato nessuno scherzo. Quei ragazzi sono morti per davvero. Si sono impiccati tutti, e nessuno sa perché.-


- Che mi dice della vecchia insegnante di Italiano? – Domandai. Dovevo aver centrato nel                                                                                                                        segno, perché il suo viso era diventato dello stesso colore delle bende che lo incorniciavano.


- Per me era una normale. Vestita e pettinata in maniera strana, forse, ma io non sono un’esperta di moda.-


- Allora, chi era?-


              Si sedette accanto a me e mi porse una logora cartellina di cartone. Sopra c’era un nome: Lucia Iannuzzi. – L’ha trovata la segretaria in archivio, con gli altri documenti relativi alla scuola elementare statale che è stata chiusa nel sessanta.-


 L’apersi. Pochi fogli ingialliti dal tempo. Forse la storia di una vita. Trovai il documento di nomina in ruolo, era datato 1935. Si trattava di una maestra elementare, c’era anche l’originale del diploma. Era nata nel quindici, da genitori ignoti, in una località della campagna umbra. Tale circostanza, unita al fatto che il diploma in oggetto fosse stato rilasciato dall’Istituto San Andrea, mi fece pensare che dovesse trattarsi di una delle educande dell’orfanatrofio. Guardai gli altri documenti. C’era una lettera di richiamo del Direttore Didattico, datata  12 gennaio 1938: sembrava che la maestra avesse preso l’abitudine di incontrare, all’uscita della scuola, un uomo in motocicletta. I genitori degli alunni avevano protestato. Di ciò doveva essere stato informato anche il competente Provveditore agli Studi che, in data quindici gennaio 1938 ne aveva disposto, con una lettera conservata nel fascicolo, l’allontanamento dal servizio per ragioni di ordine morale.  C’era ancora un ultimo documento: orrendo nella sua crudezza. Si trattava di una missiva della madre superiora dell’educandato che informava le autorità competenti che, in data  sei giugno millenovecentotrentotto, la maestra era morta. Chiusi di scatto la cartella ed iniziai a respirare lentamente, controllando l’aria in entrata e quella in uscita attraverso i movimenti del diaframma.


- Che brutta storia!- Sussurrai a denti stretti. – Lei ha idea di come sia morta?-


Scosse tristemente il capo in segno di diniego. Poi mi guardò. – Devo dirle un’altra cosa. – Appariva confusa. Le feci cenno di parlare. – Ho qui una fotografia della defunta.- Me la mostrò. Era un vecchio ritratto in bianco e nero, corroso e sbiadito dal tempo, ma vi riconobbi i tratti di una giovane donna bruna, con i capelli pettinati secondo la foggia del tempo e con la bocca dipinta di rosso. Una lampadina si accese nel mio cervello. Guardai Giuditta fisso negli occhi: – Si tratta dell’insegnante di lettere che mi ha preceduto. Non è vero?-


- Mio Dio !- Fu tutto ciò che mi disse coprendosi il volto con le mani tremanti.


- Da quanto tempo lo sapeva?-


Scrollò la testa, affranta :- Solo da oggi pomeriggio.-


 - Lì non c’è scritta tutta la storia, – le dissi, – ma probabilmente sia io che lei sappiamo come è andata. L’uomo era sposato e Lucia rimase incinta. Sola e senza lavoro, nelle mani di un branco di monache bigotte che la odiavano perché aveva macchiato il nome del loro Istituto. Non solo, lei le aveva profondamente deluse. Era riuscita a diplomarsi e a vincere il concorso per un posto di maestra titolare, ma non ne aveva fatto buon uso, anzi! Si era comportata né più né meno come la propria madre! Era in procinto di mettere al mondo un bastardo! La vergogna sarebbe caduta non solo sull’Istituto, ma sull’intero ordine monacale. Così la rinchiusero nella torretta. Il bambino morì e lei, in preda alla disperazione, si impiccò alle travi del soffitto con una corda fatta di stracci. Era una donnaccia e per di più suicida: le monache pensarono bene di seppellirla in terra sconsacrata. Ma avevano paura. Per loro, Lucia era uno spirito diabolico, così pensarono bene di incidere, sulla porta della torretta e sulla tomba un simbolo pagano: lo stesso che gli antichi Etruschi usavano per tenere i demoni malvagi lontani dal loro mondo.- La guardai. Era immobile, quasi assente. – E’ andata così, non è vero reverenda madre? Le dispiace continuare?-


              Annuì. Sapevo che la cosa le pesava, ma proseguì il racconto: – Rimase all’esterno del piccolo cimitero sconsacrato per sessanta anni, fino a che, un paio di mesi fa, un branco di sciocchi ragazzi  pensò bene di festeggiare l’inizio dell’anno scolastico celebrando messe nere nell’ex camposanto adiacente la loro scuola.. . . Niente di grave . . . si trattava solo di un gioco. Ma uno di loro aveva una splendida, meravigliosa aura gialla.  Una di quelle che gli spiriti senza pace desiderano più di ogni cosa al mondo. Un’ aura che dà la vita. Il destino ha voluto che giacesse svenuto sulla tomba di uno spirito inquieto. Senza più difese, è stato facile per quell’essere in pena impossessarsi della sua aura. E ritornare a vivere. E’ venuta qui ad insegnare per qualche tempo, lei non si era mai veramente allontanata da questo posto. Poi, improvvisamente,  è sparita. Ma il suo odio e la sete di vendetta sono rimasti. Li sento aleggiare nell’aria che respiro in ogni momento del giorno e della notte. –


- Non  se ne è andata via nemmeno questa volta, vero? –


- No. Ha solo fatto finta. In realtà, questa scuola, è stata per lei un terreno di caccia. Voleva vite e anime da offrire al re dell’Ade in cambio della sua.-


- E così, non appena lei se ne è andata, sono iniziati i suicidi dei ragazzi . – Proseguii io.


- Già. Si tolgono la vita nello stesso modo in cui se l’è tolta lei. Questa è la sua vendetta. E anche l’unico modo che conosce per continuare la sua esistenza nel mondo dei vivi-  - Concluse Giuditta.


  - C’è solo una cosa che vorrei sapere, reverenda madre. – Le domandai in preda alla disperazione.


  - Perché la sua tomba non è stata trasferita insieme a quella delle altre?-


 Costernata, la preside si tormentava il viso e le mani . – Perché era una suicida, credo.-


 Scossi la testa con vigore. – Ora, però, bisognerà chiamare un esorcista. Prima che sia troppo tardi.-


Giuditta mi informò che aveva provveduto. Lo stava aspettando.


Pensai che dovevamo andare a prenderla dove si nascondeva.  Perché lei si stava nascondendo. In un posto molto vicino. Quello in cui era morta.


Rimanemmo in silenzio alcuni minuti, indecise sul da farsi, quando udimmo un urlo inumano provenire dalla parte opposta del primo piano, proprio dal luogo dove si trovava la porta murata.


La  tenda era stata spostata,  le assi schiodate e il corpo esanime della vecchia giaceva a terra oltre la porta, sulle scale che portavano alla prigione nella torretta.


Giuditta le lanciò una lunga occhiata pensosa. – Anche la custode era del quindici. Ed era una delle nostre orfane. Senza dubbio la conosceva e sapeva tutta la sua storia.-


 Scavalcammo il corpo, salimmo le scale ed arrivammo nella vecchia stanza al piano di sopra. Non c’era luce elettrica, ma io avevo la pila. Il getto della torcia si posò, illuminandoli  l’uno dopo l’altro,  su quegli oggetti ricoperti dalla polvere del tempo e dell’abbandono. Nessuno aveva toccato niente per sessanta anni, là dentro, ed il suo spirito vi era rimasto rinchiuso insieme al dolore dei ricordi, finché Lupattelli non era svenuto sulla sua tomba. 


              Il getto di luce fece luce  su un materasso senza lenzuola, sugli abiti sbrindellati che le tarme avevano divorato, su una vecchia scrivania dal piano di marmo. Sopra c’erano dei libri . . . e c’era anche una fotografia. La riconobbi. Poi il mio piede urtò contro una seggiola, rovesciata nel mezzo della stanza. Istintivamente mi ritrassi e, così facendo, indirizzai il fascio di luce all’insù, verso il soffitto. Giuditta non seppe trattenere un gemito. Una delle travi si era spezzata, incrinata da un peso troppo difficile da sorreggere per un pezzo di legno tarlato.


-  Ci hai messo troppo tempo, – pensai.


- Sì, ce ne ha messo veramente troppo. Si è rotta quando io ero già morta da ore.- Mormorò una voce alle mie spalle. Mi voltai e la vidi. Sapevo che non era cattiva, ma aveva sofferto troppo per avere pietà. Afferrai la tonaca di Giuditta e la scossi: – Presto, dobbiamo andarcene, – le urlai.


              Ma lei non si mosse, era impietrita dall’orrore.  Io corsi giù per le scale. Lucia mi gridò di non andarmene. Non era la mia vita che voleva. Aveva solo bisogno della mia aura, ma non poteva prendersela se io non ero consenziente o . . .incosciente, come lo era stato Lupattelli disteso sulla lapide. Compresi che non poteva farmi del male. La mia aura mi proteggeva. Mi fermai prima di varcare l’uscio e ritornai indietro. Afferrai Giuditta e la trascinai giù per le scale. Sapevo che non poteva fermarmi. Quando fui sulla porta me la trovai dinanzi. – Ti prego,- mi disse, -a te non serve, ed io non posso farne a meno. Tu  conosci il dolore. Aiutami.-


 Non fu facile dirle di no, ma ci riuscii. Sapevo che il mio rifiuto le toglieva l’unica possibilità di sopravvivere.


- Devi andare, Lucia.- Sussurrai con dolcezza. Il tuo posto non è più tra noi che siamo vivi. Devi avere il coraggio di dirigerti verso la luce. Qui non c’è più niente per te. Solo dolore, morte e disperazione. Uccidere tutti quei ragazzi non ti servirà a niente. Tu ormai sei morta. E i morti non vivono più nel regno dei vivi.-


 Lo spirito lanciò un urlo inumano ed iniziò a ruotare vorticosamente su stesso, trasformandosi subito in una palla di fuoco. – Forza, Giuditta! Scappa!- Gridai con tutto il fiato che avevo in gola.


               Iniziammo a correre come forsennate verso il parlatorio privato della preside mentre, alle nostre spalle, la torretta stava andando a fuoco. Raggiungemmo la stretta scala a chiocciola e ci buttammo giù come colpite dal fulmine. Poi, di corsa verso il portone. La piazza era tranquilla, ma le monache del convento adiacente stavano correndo in strada. Qualcuna di loro, sentendo la puzza del fumo, aveva dato l’allarme. I pompieri arrivarono nel giro di cinque minuti, ma non fu possibile salvare la torretta, e nemmeno l’ala del convento in cui sorgeva l’istituto scolastico. L’incendio si propagò veloce attraverso le travi tarlate del soffitto e il fuoco attaccò la carta dei libri e il legno dei mobili. L’intera ala bruciò per tutta la notte. Nonostante ciò, non vi furono vittime, fatta eccezione per la vecchia custode. Ma Giuditta ed io sapevamo che non era morta a causa dell’incendio. Era stato l’ultimo gesto di solidarietà verso un’antica compagna della giovinezza a tradirla e ad interrompere per sempre la sua lunga vita.


              Così, Giuditta ha dovuto trasferire l’istituto in un bell’edificio moderno, spostato verso la periferia, dalle parti di casa mia. La cosa mi ha fatto molto piacere, perché io continuo ad insegnare lì. E probabilmente lo farò ancora per molto tempo.             


             A scuola  va tutto bene. I ragazzi studiano e sono contenti, anche se non ne vogliono proprio sapere del carme di Ugo Foscolo.


              La salma di Lucia è stata benedetta e portata via da quel luogo maledetto. Ora sta in un loculo vicino alla tomba della mia famiglia così, ogni volta che vado a fare visita a mio marito e a mio figlio, passo un attimo a salutarla.


    Ogni cosa è tornata al suo posto e l’ordine regna sul caos. C’è solo un piccolo problema . . . Lupattelli  non riesce a riavere indietro la sua aura. Io sdrammatizzo, ma sono preoccupata. Un’aura non muore mai completamente. . . Non si distrugge . . . Deve essere da qualche parte . . . E forse io so dove . . .


              Ho delle strane percezioni, ogni volta che vado a salutare Lucia.

4 Commenti a “IL CARME DEL FOSCOLO PARTE II”

  1. fabio dice:

    Ciao Maria, una bella storia degna di una indagatrice dell’incubo! Chissà se la protagonista vivrà altre avventure di questo tipo. ^_^ Ottima l’ambientazione, non manca proprio nulla, e misterioso al punto giusto. Davvero un lavoro splendito. ^_^

  2. Andrea dice:

    Ciao maria cristina, seconda parte all’altezza della prima. Forse, se proprio devo farti un appunto, le monache che descrivi (qui come nell’altro tuo racconto) sembrano un po’ stereotipate…
    Grazie per avercelo fatto leggere.

  3. maria cristina dice:

    E’ vero. Sono stereotipate. Il fatto è che per tutta la mia infanzia non ne ho mai distinta l’una dall’altra. Per me, e per le altre ragazzine che vivevano in collegio, erano tutte monache. Punto e basta. Un po’ triste, no?
    macrina

  4. Chris84 dice:

    Complimenti!! E’ un racconto con i fiocchi! Ha qualcosa di Buzzati e di Poe!! Tiene col fiato sospeso e ti porta a leegerlo tutto d’un fiato!

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