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Ricordi Complessi – 6 – Andrea: Io e il Duca

Pubblicato da piehasen il 25 settembre 2010

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*** “Ricordi Complessi” è una raccolta di racconti che un piccolo editore fa scrivere a quattro vecchi amici rintracciati dopo molti anni (siamo nel 1989 – 1990) per comporre un’opera sugli “anni folli” del Sessantotto. Inframmezzati tra i racconti sono riportati anche i verbali delle riunioni di redazione.  ***

IO E IL DUCA

Capita spesso che fra i vari soprannomi che ci si affibbia tra ragazzi vi sia qual­che titolo nobiliare. Basta che uno abbia un po’ di aplomb, di flemma britannica o di spocchia, che subito viene chiamato il Conte, o il Barone, o il Principe. Questo accade so­prattutto in America, dove senza un soprannome non si può campare (si pensi ad un celebre jazzista di nome Ellington), ma capita anche da noi.

Il Duca di cui voglio parlare era invece un Duca per davvero, discendente in linea diretta da un feudatario longobardo o franco, me lo disse ma non me lo ricordo. Tutti lo chiamavano il Duca, ben pochi conoscevano il suo nome di battesimo, pochissimi il suo cognome per intero.

Era mio amico nell’ultimo triennio dell’università, e specie durante il terzo anno fummo davvero inseparabili. Fui così uno dei pochi fortunati a sapere che dati ana­grafici si nascondessero dietro il titolo araldico.

Avevo conosciuto altri aristocratici, e i loro nomi di battesimo erano perloppiú buffi e antiquati: sapevo di un Brandalberto (Castiglioni), di un Bernabó (Visconti di Modrone), di due fratelli romani di nome Prospero e Marcantonio (Colonna); tutti nomi che suonano un po’ strani a dieci o vent’anni. Il Duca era stato più fortunato: il suo primo nome, pur essendo di famiglia, era originale ma non strampalato, e dirò con sincerità che anche a me sarebbe piaciuto chiamarmi Folco. Quanto al casato, non ha nessuna importanza in questa storia.

Achille Campanile ha scritto un paradossale inciso, in uno dei suoi romanzi, per spiegare come uno dei personaggi, un giovanotto timido, potesse chiamarsi Battista. É un nome da maggiordomo, diceva, ma nella vita i nomi vengono assegnati a caso, quando si é in fasce e non si può prevedere cosa si diventerà da grandi. Come il no­me, anche i tratti somatici e morali possono seguire benissimo la regola di Campa­nile: Giacomo I Stuart era Re d’Inghilterra, ma aveva fisico e modi da spaccalegna (e, a giudicare dall’attuale Real Casa, deve essere un tratto comune alla monarchia in­glese, anche se la dinastia é cambiata).

Il Duca invece, dannazione a lui, non solo era un vero Duca, ma assomigliava an­che ad un Duca: alto un metro e novanta, smilzo al punto giusto, biondo e bello e di gentile aspetto, voce sommessa e profonda, sembrava il principe azzurro delle favole di Walt Disney. E quel che non gli aveva dato madre Natura, già così generosa, lo aggiungeva lui col suo modo di vestire e gestire. Teneva un’ombra di baffetti che chissà quanto gli ci voleva tutte le mattine ad aggiustarli, vestiva in modo eccentrico e allo stesso tempo elegante e pratico. Mantella nera e cappello a tesa larga da artista d’inverno, e ci si può immaginare quanto poteva sembrare spettrale in quella mise; camicie di flanella e bretelle in autunno e primavera, magari con le brache alla zuava; d’estate non lo vidi mai con una T-shirt che non fosse quella – introvabile – del Poli­tecnico di Milano, altrimenti camicette e pantaloni bianchi immacolati, e spesso e vo­lentieri il panama. E si spostava sempre in bicicletta: ne aveva una da corsa tenuta benissimo, e lo si vedeva arrivare e ripartire pedalando con qualsiasi tempo, anche quando nevicava.

Mi si dirà che di eccentrici ce ne sono tanti, e sono d’accordo: anch’io al liceo avevo un compagno di classe che andava in giro combinato come un clown del circo Togni e si dava arie da grosso intellettuale; ma si capiva benissimo che lo faceva per farsi notare e basta. Il Duca invece vestiva come vestiva, si muoveva come si muo­veva, parlava come parlava, dando l’impressione che anche volendo non avrebbe po­tuto fare altrimenti: quello era il suo modo di essere, quello il suo concetto di sempli­cità. E tanto lo si capiva, anche a prima vista, che, in quegli anni in cui se non anda­vi in giro in jeans eri un tagliato fuori, lui non si beccò mai uno sfottò, nemmeno dai più arrabbiati dei compagni, a causa del suo abbigliamento o del suo modo di fare.

Quest’atteggiamento si rifletteva anche nel modo di parlare, abbastanza ricercato ed infiorettato di esclamazioni come Ohibò! o Poffarbacco! frammiste alle più banali e plebee interiezioni in voga nel lessico giovanile. Eppoi aveva il gusto di dir battute con noncuranza, magari storpiando un proverbio o un modo di dire e cavandone fuori una frase a doppio senso. Nulla di rivoluzionario, intendiamoci: era la tecnica cosid­detta dello “switch”, prediletta tra l’altro da Woody Allen, che in quel momento stava diventando popolare in Italia; ma lui sapeva dire “Non si può aver la moglie piena e la botte ubriaca”, oppure “Io attacco sempre il padrone dove comanda il cavallo”, op­pure “Non ho il dono dell’obliquità” con tale naturalezza e senza minimamente calca­re la battuta, che anche chi ci era abituato non si rendeva subito conto del paradosso.

Mi raccontò anche che le sue particolari capacita in campo linguistico lo aveva­no messo nei guai fin dal liceo.

Ad un certo punto aveva iniziato, nei temi in classe, ad adeguare lo stile all’argo­mento. Faceva un tema su Dante in terzine, uno sull’Ariosto in stanze, uno sul Parini in endecasillabi sciolti, aiutato in questo da una straordinaria abilità nel verseggiare; e poi, uno su Machiavelli nello stile del segretario fiorentino: comencio col dire come sarebbe laudabilissima cosa… e via di seguito. Il suo professore di italiano non aveva evidentemente un gran senso dell’umorismo, e dopo avergli elargito un paio di quat­tro aveva chiamato il padre per un colloquio. Ahimè, pur disapprovando le bravate del suo rampollo, il vecchio aristocratico non l’avrebbe mai ammesso davanti ad un estraneo, per di più un borghese, e domandò se per caso vi fossero errori di stile e/o di contenuto tanto gravi da giustificare simili voti. Beh, francamente no, rispose con­fusetto il professore (oddio, mi sto facendo prendere la mano anch’io!), ma insomma, signor Duca, nessuno fa i temi in questa maniera! Forse perché nessuno ne é capace, ci ha pensato? fu la risposta. Il professore s’impuntò, il vecchio Duca pure, e ne nac­que un tale cancan che alla fine fu scomodato il Provveditore di Milano. Il risultato? Folco fu autorizzato a fare i temi come gli pareva, ne fece ancora un paio in quel modo, e poi ricominciò a scrivere da cristiano, si era stufato.

Come autore, a mia volta, di un pamphlet intitolato “Critica dello scherzo puro speculativo” e di altre simili goliardate, non potevo non simpatizzare con un tipo del genere, e ci divertimmo un mondo a riempire il Poli di libelli ed epigrammi. Lascia­vano il tempo che trovavano, perché il più delle volte i riferimenti non erano capiti; ma lo facevamo più per noi stessi, per un irrefrenabile spirito burlesco, che per motivi di contestazione seria. A quella ci pensavano già i compagni.

Già, i compagni. Ce n’erano anche al Poli, organizzati in due gruppi (Comitato di Lotta, o CdL, e Comitato Unitario di Base, o CUB) che si facevano la guerra tra di loro con la scusa di farla al sistema, come le bande giovanili americane. Ogni tanto mettevano fuori qualche tatzebao (che il Duca ed io ci affrettavamo a completare a modo nostro), e qualche volta venivano a proporre scioperi od occupazioni. Ma ave­vano poco seguito, anche se il più delle volte riuscivano a spuntarla, magari con me­todi poco ortodossi, come avrò occasione di raccontare.

Quando aveva a che fare con loro, il Duca mi stupiva per la sua padronanza del sinistrese. D’altronde non c’era da meravigliarsi: uno capace di scrivere un tema in terzine dantesche non aveva molta difficoltà a fare il finto colto. Subissava i suoi in­terlocutori con raffiche di paroloni sesquipedali, usava termini come collettivizzazio­ne, lotta armata, repressione, attivismo politico, proletarizzazione, naturalmente per dimostrare esattamente il contrario di ciò che sostenevano loro.

Si chiama condiscendenza, mi spiegò, nel suo significato originario e più nobile, e consiste semplicemente nel parlare la lingua di chi ti sta di fronte, per meglio capi­re e farsi capire. Mi fece anche un esempio: tu parli bene l’italiano e maluccio l’in­glese. Se ti trovi di fronte un Americano che non sa l’italiano, che lingua usate? L’in­glese, risposi, visto che lo conosciamo tutti e due. Appunto, concluse lui. É lo stesso atteggiamento del vero signore, che é signore con i suoi pari e bifolco con i suoi bi­folchi, e sta bene dappertutto. La principessa del Pisello si lamentava del materasso soltanto perché stava in un palazzo reale, e allora pretendeva un servizio da palazzo reale: se si fosse lamentata in una locanda qualsiasi non sarebbe stata che una snob.

Iniziai allora a capire quanto fosse importante per il Duca il senso del rango, e quanto si potesse d’altronde conciliare con il suo vivere nel mondo di oggi. Vedi, mi disse, quando leggo sui giornali dei conti tali o dei marchesi talaltri che frequentano il jet-set, sniffano cocaina e vanno in Costa Smeralda sei mesi l’anno, come se la vita si risolvesse in questo, penso a quanto spagnolesca sia ancora la nostra aristocrazia. Altrove non é così: Otto d’Asburgo é un pezzo grosso della CEE, Ranieri di Monaco ha trasformato il suo principato in una multinazionale, Juan Carlos, che ho cono­sciuto, si sta preparando a diventare Re di Spagna alla morte di Franco, con tutti i problemi che ne deriveranno. Da noi invece l’aristocrazia non sa fare il suo mestiere, così come la borghesia ed il proletariato non sanno fare il loro.

Il discorso mi interessò parecchio, anche perché non mi era mai venuto in mente che ai nostri tempi la classe aristocratica avesse un suo compito nella società, oltre quello – affine a quello del Presidente della Repubblica – di far fare bella figura al proprio Paese nelle occasioni ufficiali, o di far da parafulmine alle frustrazioni dei ri­voluzionari da salotto. Il Duca era invece convinto che quelli come lui avessero il preciso dovere morale di elevarsi al di sopra della massa, in modo da fornire un faro, un traguardo per le altre classi sociali.

Tutto é racchiuso, concluse, nella famosa espressione di Nietzsche: Jenseits vom Guten und vom Bösen, al di là del bene e del male: io la intendo nel senso di andare al di là dei valori correnti, quelli borghesi del benessere, della sicurezza, della rivolu­zione. Come, della rivoluzione? obiettai. La rivoluzione non é mica un fenomeno borghese! Tu quoque, fili! mi rispose con un sospiro. Ricorda che la rivoluzione é il confessionale dei borghesi. E non volle approfondire la questione.

Tra gli altri valori da lui definiti borghesi faceva spicco il razzismo. Il razzismo, spiegava il Duca, é un fenomeno tipicamente borghese, così come l’odio di classe. L’aristocratico non odia: semmai ignora. Guarda la storia americana: il concetto dello “sporco negro che insidia le nostre donne”, o i bagni separati col pretesto dell’igiene, sono tutte cose che sono venute fuori, insieme al KKK, dopo la guerra di Secessione; la società precedente, aristocratica, quella di “Via col vento” per intenderci, dai negri si faceva servire a tavola e gli dava i figli da allattare, altro che cessi separati. D’al­tronde l’aristocrazia, basando la sua scala di valori sul blasone, non ha paura di esse­re scalzata, e non ha quindi bisogno di questo tipo di anticorpi ideologici: sono i bor­ghesi quelli che passano la vita a temere che qualcun altro – arabi, negri, terroni, pro­letari – “ci portino via tutto”.

Erano questi, grosso modo, gli argomenti che portava nei suoi contraddittori con i compagni, che si trovavano spiazzati davanti a qualcuno che contestava la borghesia – e ferocemente – ma da destra, dalla parte opposta a quella loro. D’altronde il Duca non se la faceva nemmeno con i fascisti: li chiamava sepolcri imbiancati di nero, compagni mancati, che non avevano il coraggio di andare contro corrente pur aven­done la voglia, insomma, dei piccolo-borghesi come e peggio di quegli altri; e con­cludeva rammentando che siccome il mondo é rotondo, andando sempre più a sini­stra ci si ritrova a destra, e viceversa. Era un modo paradossale per sostenere la teoria degli opposti estremismi, tanto dibattuta a quei tempi, ma pochi se ne accorgevano.

Devo ammettere che questo suo tuonare contro la borghesia ed appioppare del borghese a chi non la pensava come lui mi dava un po’ sui nervi, e non mancai di farglielo notare. Sono i c.d. valori borghesi, gli dissi, che ti permettono di dire quello che ti pare e di vivere in relativa sicurezza fisica ed economica in un mondo come quello moderno, in cui non basta alzare un ponte levatoio per mettersi al riparo dai guai. Hai ragione, mi rispose con un sospiro, d’altronde non sono mica un guru, non ho il monopolio della verità. Diciamo – al di là delle distinzioni di classe sociale – che sarebbe meglio vivere in un mondo un po’ meno pecorino.

Era fatto così: sapeva girare in battuta anche il discorso più serio senza passare per buffone, e non mi stupirei se fosse diventato una specie di moderno Giovenale.

Ad ogni modo, fu lui a dare un fondamento logico e ideologico alle mie idee poli­tiche fin allora abbastanza confuse. Prima di incontrare il Duca sapevo benissimo co­sa non ero (compagno, fascista, democristo, etc.); con lui riuscii a definirmi un “borghese illuminato”, ed a riconoscere la mia ideologia nella destra storica conserva­trice che era stata di Cavour, poi di Sella e Minghetti, per sfociare, attraverso Gobetti e Croce, nell’attuale Partito Liberale, a quei tempi ancora retto da Giovanni Malagodi. E fu questo, tra l’altro, che mi permise di con­trobattere i compagni con validi argomenti: la “disuguaglianza come motore della so­cietà”, la “personalizzazione dei grandi concetti” che Paolo ha così argutamente rife­rito nel mio ultimo colloquio con Elide – che non si svolse proprio così parola per pa­rola, perché naturalmente Paolo non c’era e nessuno aveva messo un registratore, ma a grandi linee glie l’avevo ripetuto e mi pare abbastanza fedele – era tutta farina del sacco del Duca.

Vivemmo il nostro gran momento politico nell’inverno del terz’anno, verso feb­braio del 1974, quando fummo coinvolti nel caso di Mike Warson.

Questo Mike si chiamava in realtà Michele, e Warson era il cognome di sua ma­dre, ed era un tipo che frequentava poco e svogliatamente, preferendo ai seriosi studi ingegneristici le corse in moto ed i concerti rock. Andava in giro come l’Americano a Roma di Sordi trent’anni dopo, o come un metallaro cinque anni prima, faceva un sacco di scena, ma era del tutto innocuo: noi del terzo anno elettronici, compagni compresi, lo definivamo “un pirla”, con un briciolo di affetto, come un parente un po’ ritardato.

Fatto sta che un giorno non gli garbò che un corteo dei compagni di architettura gli bloccasse l’uscita dal cortile del Trifoglio. Si presentò sorridente come sempre e chiese ad alta voce se lo lasciavano passare. Visto che non se ne davano per inteso, fece l’atto di accelerare per passare di forza in mezzo al corteo, ma non l’avrebbe mai fatto per davvero, non era capace di far del male ad una mosca. Invece i cari compa­gni lo tirarono giù dall’Harley-Davidson e ci diedero dentro con le spranghe, la­sciando entrambi stesi sul selciato in condizioni pietose.

Mike e la sua moto ci misero circa lo stesso tempo – una settimana – a rimettersi in piedi, e ricominciarono la vita di prima. Per qualche giorno, quando si toglieva il casco, fece sfoggio di una leggera bendatura sulla fronte, su cui aveva subito dise­gnato un sole rosso giapponese, ma tutto sembrava finito lì. E invece, dopo neanche un mese, stava partendo da un semaforo (era quasi fermo, quindi), quando perse l’equilibrio e cadde per terra morto stecchito.

La cosa passò inosservata al Poli, dove tutti lo conoscevano ma nessuno gli era veramente amico, e per lo più si disse che quel pirla alla fin della fiera s’era incartato con l’Harley. Soltanto il Duca andò in giro tra i compagni a fare il finto tonto: ma non é quello che era stato sprangato da voialtri? Lo scongiurai di non mettersi nei guai, ma lui ogni tanto ne riparlava con il giusto distacco, e insomma, grazie a lui ci si ricordava ancora di Mike quando ci fu il tentativo di occupazione dell’Istituto.

Naturalmente l’Istituto per eccellenza era quello di Analisi Matematica, croce e delizia degli studenti dei primi tre anni (sì, da noi si faceva anche Analisi III!), e bloccarlo significava scompaginare le sessioni invernali di più di duemila studenti. Ma quando volevano qualcosa i compagni non andavano per il sottile.

Una mattina entrano in aula una cinquantina di manigoldi intabarrati in sciarpe rosse e barbe nere, interrompono la lezione, si impossessano del microfono e procla­mano l’occupazione dell’Istituto. Tutti su, compagni, dicono, cantiamogliela chiara ad Amerio e soci. Le altre aule hanno già aderito.

Gli studenti del terz’anno elettronici non sono nati ieri: uno che sta vicino alla porta si affaccia in corridoio e vede le altre aule chiuse, tutto normale. Fa capolino di fronte: professore che spiega, studenti svaccati sui banchi, solita routine. Fa capolino di fianco: stessa scena. Torna sulla soglia, si sbraccia, fa segno di no, in curioso con­trasto con il compagno al microfono che inneggia all’adesione di tutti gli studenti. Ma che c… dici, sbraita alla fine, qui stanno tutti a far lezione!

L’aula, che ha accolto l’invasione con freddezza e fastidio, si anima, altri vanno fuori a vedere, tornano sghignazzando, ma é vero, che adesione d’Egitto! Il compa­gno non si lascia spiazzare più di tanto: d’accordo, cominciamo noi: votiamo per l’oc­cupazione. Tutti raggiungono i loro posti in fretta, con l’aria di volersela sbrigare al più presto.

Allora, chi vuole occupare alzi la mano. I cinquanta manigoldi, estranei all’aula, asserragliati davanti alla cattedra, alzano le mani con una foga che sembrano duecen­to; vi si uniscono tre o quattro dei nostri, circa l’un per cento dei presenti. D’accordo, l’occupazione é approvata, dice quello al microfono.

Come ho detto, quelli del terz’anno elettronici non sono nati ieri, e molti devono dare Analisi II in quei giorni. Verifica! Verifica! si sente gridare dai banchi. Il com­pagno al microfono cerca di fare lo gnorri, ma il grido scandito e ritmato da tre o quattrocento piedi sul pavimento di legno lo sovrasta: Ve-ri-fi-ca! Ve-ri-fi-ca!

D’accordo, d’accordo, se ci tenete facciamola ‘sta verifica, dice in tono paternali­stico. vediamo un po’: chi non vuole occupare? E tre o quattrocento mani, anzi sette o ottocento per essere ben sicuri, volano per aria insieme ad un urlo da stadio calci­stico. E subito silenzio.

Il compagno é annichilito per la violenza della reazione, ma riprende subito il controllo. Questa é una votazione del c…, dichiara con incredibile faccia tosta, rifac­ciamola.

D’accordo, conveniamo, sicuri della nostra unanimità, votiamo pure quante volte vuoi, non ce la farai a far dire di sì a quattrocento che vogliono dire di no. Ahimè, non abbiamo fatto i conti con i cinquanta manigoldi che intanto si sono sparpagliati alla chetichella tra i banchi, e al secondo tentativo naturalmente l’unanimità é già di­ventata maggioranza.

Ed ora il compagno tenta il colpo gobbo: visto l’esito incerto, proclama, votiamo per settori e contiamo i voti. Basta, si allarma qualcuno, abbiamo già votato due volte, non ne avete ancora a sezzo? Ma il marpione al microfono ha già catturato la solidarietà di tre o quattro gonzi delle prime file che, in perfetta buona fede, lo aiu­tano a fare la conta per settori.

E qui si capisce bene cosa succede: i cinquanta manigoldi, al momento di votare, scattano avanti tutti insieme come la difesa del Milan e si concentrano nel settore sotto esame: nel casino si comincia a profilare un’inversione di tendenza…

Non riesco a capire come abbia fatto a mimetizzarsi fino ad ora, fatto sta che a questo punto il Duca si materializza nel suo metro e novanta dietro la cattedra e pro­prio di fianco al marpione. Vorrei dire due parole, dice con calma, ma con un tono di voce che lo sentono fino in alto, e gentilmente prende il microfono dalla mano del compagno, troppo impegnato a seguire la votazione pilotata, poi troppo sbalordito dall’impertinenza di questa figura spettrale uscita da non si sa dove.

Vorrei sapere il motivo di quest’occupazione, dice il Duca in tono dimesso e tran­quillo, forse i compagni di quest’aula non sanno perché é stata decisa. É un segreto di Pulcinella, invece: durante un corteo a Napoli c’è scappato il morto, e l’ultrasinistra é in ebollizione. E, incredibile, si cala nei panni dell’intervistatore TV e regge il micro­fono davanti alla bocca del marpione. Quello non si accorge di aver perso il controllo dello strumento di propaganda, e attacca una concione inneggiante alla solidarietà con i compagni napoletani.

Il Duca aspetta l’attimo in cui il marpione si ferma a prendere fiato, e sempre con noncuranza ribatte a sua volta: Ma che strano, per un morto a Napoli si occupa un Istituto, mentre per Mike Warson, che era uno dei nostri ed ha fatto la stessa fine, non s’é fatta neanche un’ora di sciopero.

Questa di equiparare – con la scusa del morto per morto – la fine di Mike, cascato per la strada un mese dopo una sprangatura da parte dei compagni, al caduto di Na­poli é un piccolo capolavoro di polemica, perché spinge i compagni dalla parte del torto. Mike Warson era un fascista, butta là qualcuno. Ed é proprio quello che il Du­ca voleva sentire. Non mi pare, ribatte sempre con calma, io lo conoscevo bene, era di quest’aula. D’accordo che era un eccentrico, una testa un po’ vuota, ma da qui a farlo passare per fascista…

Un altro lo interrompe, cerca di strappargli il microfono, ma al Duca basta alzar­selo sulla testa e non ci arriva più nessuno. Sì che era fascista, strilla allora quello, basta vedere come andava in giro!

Ho capito, risponde pensoso e sempre imperturbabile, lui era un fascista perché aveva una Harley e un giubbotto di pelle, invece tu sei un compagno perché hai la barba e l’eskimo. La risata del pubblico giunge un po’ forzata, le cose stanno comin­ciando a mettersi male.

Mi prenderò anch’io la mia parte di gloria: non ce l’ho fatta a stare a guardare mentre quell’incosciente rischiava di finire come Daniele nella fossa dei leoni. A que­sto punto salto a sedere sulla cattedra e con un agile volteggio mi piazzo tra il Duca e quest’ultimo esagitato, spingendo tutti più lontano. Duca, lascia perdere, é meglio che ce ne andiamo.

E invece lui accentua lo squilibrio e quasi casca addosso al primo marpione, gli dà un’accidentale (ma non troppo) gomitata sul naso, gli si appoggia addosso, si rad­drizza con apparente fatica, sempre senza mollare il microfono. Da lontano sembra che lo stiano spintonando, il brusio cresce, la situazione si fa sempre più tesa.

Mio nonno, esclama il Duca, era un giovane professore proprio qui al Poli nel ventidue, e mi ha raccontato episodi molto simili a questo…

I compagni restano talmente sbalorditi davanti a quest’ultima uscita, da permette­re a me e al Duca di farci un po’ di vuoto intorno. E lui continua: proprio come ades­so, pensate, c’erano pochi esagitati che imponevano con la forza il loro parere ad una maggioranza di pavidi…

Che vuoi dire, noi interpretiamo la volontà della massa degli studenti, soggiunge uno. Non mi pare, dice il Duca, abbiamo votato due volte e mezza sempre per la stes­sa cosa, e la massa degli studenti ha deciso per il no.

Questo é da vedere, dice il marpione appigliandosi all’ultimo argomento possibile, concludiamo la votazione per settori e decidiamo sull’occupazione.

Adesso basta! esclama il Duca, che sembra improvvisamente un altro, terreo in viso, occhi di ghiaccio, nonostante sia uno smilzo fa paura a guardarlo. E alza sem­pre più il tono di voce: a questo punto denuncio i metodi tipicamente fascisti del CUB… ah, siete del Cidielle? Fa lo stesso, denuncio questo ed altri tentativi di inti­midazione di marca fascista, denuncio la presenza nell’aula di più di cinquanta per­sone estranee al corso e dotate di armi improprie, denuncio il tentativo di forzare una votazione truccando i risultati, sì, truccando i risultati, denuncio la copertura ideolo­gica di episodi di violenza gratuita come quello su Mike Warson, che non era un fa­scista, ma dai fascisti tinti di rosso é stato ucciso!

Nell’aula si crea un attimo di silenzio glaciale, mentre l’eco dell’ultima parola del Duca (ucciso, iso, iso…) rimbalza e si perde tra banchi e pareti. E subito i compagni ci si stringono contro inferociti minacciando e scalmanandosi. Come se non fosse stato interrotto, ma ci vuol poco perché ha sempre il microfono che nessuno pensa a spegnere, il Duca prosegue: e adesso sfido chiunque di voi a dimostrare il contrario sulla mia pelle.

Si fa silenzio. Il Duca guarda fisso negli occhi ognuno dei compagni, fa cenno di spostarsi, muove un mezzo passo sulla pedana. E i compagni si scansano davanti a lui, sentono addosso gli occhi di quattrocento persone, basta un solo spintone e suc­cede la defenestrazione di Praga. Con calma il Duca esce da dietro la cattedra, rag­giunge il suo posto, si siede. E con altrettanta calma io ed alcuni altri scortiamo i compagni verso la porta.

L’Istituto venne poi occupato lo stesso, come nella logica delle cose, ma il sasso che il Duca aveva tirato nello stagno era per lo meno riuscito a smuovere qualche ra­nocchio: studenti e professori impararono a non cedere così facilmente ai ricatti degli ultras, e ad appioppar loro l’azzeccato nomignolo “fascisti rossi”, che era ciò che il Duca stesso si era prefisso con quella bravata.

Se però dovessi dire ora che fine ha fatto il Duca, non lo saprei proprio. I nostri rapporti si allentarono nell’ultimo anno, quando io secchiavo come un dannato per laurearmi in fretta e lui invece se la prendeva comoda e dava un esamino ogni tanto: probabilmente si era stufato di prendersela così calda con lo studio. Io poi piantai ba­racca e burattini per il militare, e col Duca ci perdemmo semplicemente di vista. Lessi alcuni anni fa sul giornale che gli era morto il padre, e lo immagino quindi a capo delle aziende di famiglia, qualsiasi fossero, con una bella laurea in ingegneria elettronica che chissà se gli é servita a qualcosa.

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