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Ricordi Complessi – 7 – Francesco: Io e gli Stash

Pubblicato da piehasen il 25 settembre 2010

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*** “Ricordi Complessi” è una raccolta di racconti che un piccolo editore fa scrivere a quattro vecchi amici rintracciati dopo molti anni (siamo nel 1989 – 1990) per comporre un’opera sugli “anni folli” del Sessantotto. Inframmezzati tra i racconti sono riportati anche i verbali delle riunioni di redazione.  ***

IO E GLI STASH

 

Per parlare del rapporto odio-amore che ci fu negli anni eroici (1967-1970) tra me e gli Stash, devo prima parlare delle Pesche a Vapore, degli Oxtxt (sic!) e dei Full Time.

Bella collezione di nomi, vero? Tutti rigorosamente autentici, per una volta ho deciso di derogare alle regole di garanzia d’anonimato, anche perché se ne avessi voluto inventare dei nuovi, non sarebbero suonati altrettanto falsi e pretenziosi co­me questi qui, che sono veri.

Non sto parlando di cavalli da corsa o di squadre di calcio, ma di gruppi rock, o complessi pop secondo la terminologia in voga allora. E i tre sopraccitati sono i nomi delle formazioni di cui feci parte nel periodo sopraccitato.

Come tutti i fenomeni di moda, anche la musica fatta in casa ebbe un’improv­visa esplosione, un periodo di auge, e poi un lento declino, fino al punto che i po­chi seguaci rimasti passarono nella categoria degli specialisti; ma negli anni d’oro, circa tra il sessantasette ed il settantuno, non c’era ragazzo (il fenomeno fu maschi­le al novantanove virgola nove per cento), anche il più stonato e meno dotato, che non si fosse procurato un qualche strumento e non militasse in una qualche band, almeno nel mio ambiente a Milano.  Ci si riuniva in appositi locali, in genere cantine condominiali, o seminterrati per i più fortunati (fortunati perché avevano lo spazio per ospitare anche un po’ di pubblico ed esercitarsi a suonare in concerto), più raramente in casa, visti i volumi spaccorecchi che si praticavano anche durante le prove. Un paio di volte a settima­na, solitamente di sera, il gruppo si riuniva, provava i pezzi, decideva le scalette, pasticciava un po’, e alla fine ciao ciao, tanti saluti, alla prossima volta. Poi poteva capitare la scrittura: una festa, un concorso. Se ne facevano tanti ad ogni livello, scolastico, parrocchiale, etc., e allora diventava improvvisamente una cosa seria: se avessimo studiato con l’impegno e la costanza con cui ci preparavamo per uno show saremmo stati tutti primi della classe. 

In generale non si era molto amici all’interno del gruppo: in tutte le formazioni di cui ho fatto parte ci si vedeva unicamente per suonare, e poi ciascuno aveva la sua vita privata. Certo, la musica affiatava, univa, e le amicizie che si formavano erano molto salde; però erano strettamente legate all’aspetto musicale, come quelle che si fanno sotto la naja: era ad esempio raro che si suonasse insieme tra compagni di classe. C’era invece un aspetto opposto: le amicizie di uno che suonava in un gruppo erano al corrente della cosa e partecipavano alla vita della formazione. 

Ogni complesso aveva perciò il suo entourage, un gruppo di amici che lo se­guiva a livelli diversi: dagli appassionati che non si perdevano una prova, e finiva­no per rivestire effettivi ruoli di consulenza e produzione, alle ragazze dei membri del complesso, in genere amanti sì della musica, ma cum grano salis, e che segui­vano quindi le performances con aria svaccata, agli amici ed amici degli amici, che si mobilitavano a fare il tifo quando si suonava in pubblico, come per una squadra di calcio. Poiché queste formazioni nascevano per lo più in ambito scolastico, era­vamo quasi costretti a pescare i fans tra i compagni di classe con annessi e connes­si.

I rapporti all’interno del gruppo erano rigidamente gerarchici: anche se nessuno lo diceva, si veniva sempre a creare una figura di capo cui tutta la “band” faceva riferimento: era lui che dava il benestare sul  repertorio (questo si fa, questo non si fa), che curava gli arrangiamenti  (tu fai questo, tu fai quello), che dava gli attacchi mentre si suonava (one, two, three, e quater), che faceva da portavoce del gruppo verso l’esterno. Era raro, quasi unico, il caso in cui questi ruoli di selezionatore, ar­rangiatore, metronomo, portavoce fossero ripartiti tra i membri del gruppo: in una formazione rock la democrazia non pagava. Molto spesso era quello musicalmente più preparato che prendeva in mano le redini del gruppo; quando un tipo del ge­nere mancava, o non aveva carisma, c’era sempre uno più dritto degli altri che si assumeva l’onore e l’onere di  comandare la formazione. Se poi c’erano i proverbiali due galli nel pollaio, il complesso non aveva futuro e si scioglieva in breve tempo.

Allora, avevo detto che avrei parlato delle Pesche a Vapore eccetera; ma queste premesse mi sembravano fondamentali per dare una vaga idea di un mondo di cui oggi si é perso anche il ricordo. Le radio private hanno dato il colpo di grazia alle formazioni musicali giovanili, e ormai più nessuno é capace di tirar giù quattro ac­cordi su una chitarra. (Che bel discorso da  vecchio, vero?)

Credo d’altronde che non ce la farò ad evitare tutti i termini tecnici in un ar­gomento cosi specifico, né posso divagare ad ogni piè  sospinto per appianare tutte le asperità: chi mi ama mi segua.

Nell’autunno del Sessantasette avevo quattordici anni e mezzo e mi stavo aprendo al mondo: le prime uscite il sabato pomeriggio, cinema, gelato, e rare volte una pun­tata in discoteca, a rimorchio dei più grandi. E l’invito, da parte di certi amici dell’estate, visto che strimpellavo il pianoforte, ad entrare in una microformazione di sbarbati al seguito di un fratello maggiore che aveva un gruppo di Rythm & Blues di nome Down Beats.

In realtà io studiavo il piano seriamente dall’età di sei anni, e semmai quelle che strimpellavo erano le canzonette, ma non mi avrebbero mai chiamato per suo­nare i miei adorati Bach e Mozart. E la formazione di rincalzo era una cosa un po’ strana che si era creata per via di due fratelli che suonavano entrambi, ma non vo­levano (o potevano) suonare insieme.

C’era un fratello maggiore, Tito (sic!), che aveva diciassette anni e suonava molto bene la batteria, e aveva un suo gruppo, i Down Beats appunto, che aveva raggiunto una certa notorietà nell’ambiente underground milanese; e c’era un fratel­lo minore, Davide, che aveva quattordici anni come me e suonava la chitarra, ma che per evidenti limiti di età non era stato ammesso nella formazione.

Per tutta l’estate noi sbarbati avevamo assistito alle prove del gruppo più grande con autentica ammirazione: Tito li aveva tirati tutti in villa ed avevano passato un mese a ruminare Wilson Pickett, Blood Sweat & Tears, Otis Redding e Ray Char­les. E piano piano si era creata la consuetudine che quando loro staccavano ci ap­propriavamo timidamente degli strumenti e provavamo qualche canzoncina alla Yellow Submarine. Eravamo Davide alla chitarra, io all’organo, Filippo alla batte­ria; mancava il bassista, ma spesso e volentieri ci dava una mano Ippo (potamo), l’organista dei D.B., che amava cambiare strumento ogni tanto.

Tornati a Milano, avevo tenuto i contatti con Tito e Davide, anche perché ave­vano una sorella di nome Gabriella (dodici anni), che fu il mio primo amor platonico, ma questa é un’altra storia. E si ripropose l’idea di  suonare insieme.

Filippo non era più disponibile, ma si fece avanti Maurizio (quello del Rimor­chiatoio), che non sapeva suonare la chitarra, ma ci presentò un suo amico Vittorio detto Cammello, il quale a sua volta non sapeva assolutamente suonare il basso (a proposito, vigeva nella musica una regola analoga a quella del calcio, dove chi non sa giocare va in porta, per cui chi non sapeva suonare andava al basso, col risultato che era difficilissimo trovare un bassista decente!), ma conosceva un tal Flavio batterista, più grande di noi, che studiava scienze politiche e per sbarcare il lunario faceva la comparsa alla Scala. Nacquero cosi le Pesche a Vapore, con Da­vide e Maurizio alle chitarre, Cammello al basso, me alle tastiere e Flavio alla bat­teria. Continuavamo ad esercitarci sugli strumenti dei Down Beats nella loro soffit­ta, quando erano liberi, il che accadeva spesso ora che le scuole erano rico­minciate anche per i più grandi. 

Nell’autunno del Sessantasette esplose un gruppo inglese, che per circa  un anno fu seguito al pari di Beatles e Rolling Stones, e che si chiamava Procol Harum. Con due singoli di successo (subito tradotti in italiano dai Camaleonti, allora usava cosi) sfondarono tutte le hit parades per un sacco di settimane. Chissà se qualcuno an­cora se li ricorda. Va bé, fatto sta che la loro musica era un raffazzonamento di Bach con un sottofondino ritmico in un’orgetta di tastiere (per favore rapportate quest’orgia allo scarno e  chitarristico Sessantasette!), l’ideale per il repertorio delle PaV. Ma la prima volta che provammo A Whiter Shade Of Pale ci guardammo in faccia e stabilimmo che alle PaV mancava qualcosa di molto importante.

Il punto era che Maurizio e Cammello erano stonati come delle campane, Davide era troppo fioco, io ero stato la miglior voce bianca della scuola, ma per l’appunto, lo ero ancora, non avevo sviluppato e potevo servire solo per le controvo­cine, Flavio aveva una vocetta alla Donovan che sarebbe anche potuta andare, ma non si raccapezzava a cantare e insieme pestare sui tamburi. E allora chi diamine avrebbe cantato?

Ohilá, eravamo già in cinque: due chitarre, basso, tastiere e batteria. La Jimi Hendrix Experience, i Cream ed i Nice erano in tre, i Beatles e l’Équipe 84 in quat­tro, i Rolling e i Procol in cinque come noi: per trovare una formazione con più di cinque elementi bisognava arrivare ai Chicago e ai Blood Sweat & Tears, ma bella forza, quelli avevano la sezione di fiati. Eppure, tant’era: avremmo dovuto cercarci un cantante. 

Lo trovò Cammello, che conosceva mezza Milano, ma in questo caso ebbe solo da ricordarsi di un suo ex-compagno delle medie che poi aveva scelto il classico – mentre lui aveva preso lo scientifico – e che quindi si trovava ancora a scuola, una classe più su di me. Lo contattò e ce lo portò un giorno alle prove.

Non ho mai più trovato un cantante come Roberto. Peccato per i suoi gusti – che allora andavano benissimo per noi, ma che non si evolsero con gli anni – per­ché la voce aveva dell’incredibile. Prendete Al Bano, spargetegli sopra un pizzico di limatura di John Lennon, spruzzatelo con un sorso di acido psichedelico, rime­scolate il tutto, e ne potrete avere una vaga idea. Con lui le Pesche a Vapore furono finalmente al completo, e poterono prepararsi per il debutto ufficiale, nel gennaio del Sessantotto.

Fu una cosa scolastico-parrocchiale, nel senso che la scuola fornì l’organizza­zione e la parrocchia i locali, e si chiamò “Primo concorso San Camillo” dal nome appunto della parrocchia. Nello staff organizzativo c’era un fratello maggiore di Cammello, il che ci garantiva una certa spintarella; anzi, stando a quel che diceva il nostro vulcanico bassista, avevamo già la vittoria in tasca.

Il tutto si svolse un sabato pomeriggio: cinque complessi in gara con due brani ciascuno, una prima votazione della giuria, poi le due formazioni prime in gradua­toria si sarebbero contese il titolo con un ultimo pezzo. Non sto a descrivere i pro­blemi logistici: trasporto della strumentazione, montaggio sul palco, etc. etc: alle tre del pomeriggio eravamo già stanchissimi, e dovevamo ancora iniziare a suo­nare. Saremmo stati gli ultimi ad esibirci: meglio così, potevamo vedere cosa combinavano tutti gli altri.

Le prime tre formazioni scorsero via come acqua fresca e raccolsero pochissimi punti: gente che non sapeva suonare, chitarre scordate, batteristi che perdevano il tempo, una vera pena. Ero accucciato in un angolo insieme a Davide, Gabriella mi teneva teneramente per mano, devono essere calde per il concerto, le avevo detto, pensaci tu. Cammello ciondolava in giro, come al solito conosceva tutti, Maurizio pizzicava la Fender in un angolino, Roberto faceva strani gargarismi per rodarsi la voce. Erano venuti un po’ di amici, ricordo Paolo e Alberto della mia classe, i geni­tori di Maurizio, i Down Beats al completo, che si ritenevano un po’ i nostri padri putativi, e volevano anche sorvegliare i loro strumenti; e noi ci tenevamo a fare un po’ di scena, ci eravamo anche vestiti con cura, tutti elegantini.

E poi arrivarono gli Stash. Quattro capelloni vestiti in jeansacci e magliette nella formazione classica chitarra organo basso batteria. Li conoscevamo di vista, erano anche loro della scuola, poco più grandi di  noi, ma sembravano appartenere ad un altro pianeta. Attaccarono Jumpin’ Jack Flash dei Rolling Stones con un’energia che fece saltare tutti sulle sedie. Maurizio Luna, il chitarrista, cantava e si contorceva come un verme tra lo strumento e il microfono, svisava in assolo, duettava con sé stesso tra chitarra e voce, e con Marcello l’organista. Quest’ultimo, montai sul palco per vederlo suonare: aveva un’impostazione da schifo, ma Cristo, che dita ve­loci, che accordi strani in settima, in nona, eppure il pezzo era semplice, ma lo ave­vano completamente stravolto. Come secondo brano fecero una roba dei Jefferson Airplane, ma noi non eravamo esperti del californiano e non potemmo giudicare. Ad ogni modo tirarono su ottantasei punti su novanta disponibili. 

E adesso toccava a noi. Avevamo previsto di suonare i due hit dei Procol Ha­rum – due lenti – e di riservarci Gimme Some Lovin’ dei Traffic (che allora si chiamavano ancora Spencer Davis Group) se fossimo andati in finale, ma adesso Maurizio e Cammello non volevano saperne. Ci fu un  bisticcio sotto il palco: que­sti ci stracciano, dicevano loro due, dobbiamo fare almeno un brano veloce. Non possiamo batterli sul loro terreno, obiettavamo io e Roberto, atteniamoci a quello che sappiamo fare e mettiamocela tutta, poi per la finale vedremo. Riuscimmo a tirare dalla nostra Davide e Flavio: hanno ragione loro, l’importante adesso é an­dare in finale. E salimmo tra le ovazioni degli amici.

A nostro onore debbo dire che l’esecuzione fu perfetta. Roberto ebbe poi un’uscita antipatica: per forza, disse, quei brani sono solo voce e organo, e noi due siamo gli unici che capiamo qualcosa di musica. Cammello se n’ebbe a male, ed era quello a cui la critica calzava di più; ma sul momento non importava: dal palco, con i riflettori in faccia, si sentivano solo gli applausi, e ci gasammo tutti quanti. Roberto spiegò la sua bella voce, i chitarristi grattarono con impegno, Cammello riuscì ad andare a tempo, anche al triste Flavio gli venne fuori un sor­riso. Io feci un mucchio di scena con un fazzoletto con cui mi asciugavo la tastiera come Pavarotti si pulisce il muso, assunsi arie da sofferto concertista, d’altronde mi bruciava ancora la guancia dove le labbra coralline di Gabriella mi avevano stam­pato un bacio di buon augurio al momento di salir su. Aspettammo con trepida­zione il risultato, c’era un gran confabulío tra i giurati, si contava, si ricontava, fo­glietti che passavano di mano in mano, alla fine venne fuori il verdetto ufficiale: ot­tantasei anche per noi! Avanguardia e tradizione, uno a uno alla fine del primo tempo. 

Nell’intervallo Maurizio Luna venne a cercarci insieme a Marcello per uno scambio di idee con me e Roberto: sempre noi due, come se gli altri non esistes­sero. Non mi piace il vostro repertorio, disse chiaro e tondo, ma voi due ci sapete fare. Ringraziammo confusetti, eravamo tutti troppo tesi per dar spago agli avver­sari, e poi dovevamo scegliere il brano da suonare in finale. Gimme Some Lovin’, come deciso in precedenza, o Sunny, un brano R&B lento che ci avevano inse­gnato i Down Beats, che adesso premevano perché lo facessimo? Tenetevi sui lenti, sono la vostra forza, implorava Tito al fratello, dammi retta, per carità, non potrete mai fare un veloce come lo fanno loro. Questa volta non ero d’accordo: il brano dei Traffic lo avevamo provato e riprovato tante volte, veniva liscio come l’olio, Ro­berto arrochiva la voce con un bell’effetto, a Cammello gli veniva bene il riff in mi, tu-tu-tu-tu-tum tum, tu-tu-tu-tu-tum tum, perché stravolgere il programma con un pezzo che oltrettutto era ancora in preparazione? Tito se ne andò sconsolato, speriamo in Dio, concluse, comunque noi facciamo il tifo.

Gabriella era eccitatissima, per lei addirittura non c’era nemmeno più Roberto, mi parlava del gruppo al singolare: hai suonato da dio, non puoi non vincere, adesso devi mettercela tutta, come se mi fossi esibito da solo; e dire che aveva in formazione anche un fratello. Ma la musica mi ha sempre fatto fare quest’effetto alle ragazze, é sempre stata il mio principale veicolo di seduzione. Allora non avevo ancora imparato ad usarlo al meglio, mi limitai a dire che se voleva che continuassi a suonar bene doveva darmi un altro bacio. Con solo un anno in più quest’offerta di farmi da musa ispiratrice ci avrebbe trascinati avvinghiati sotto il palco, ma a do­dici anni non poté fare altro che eseguire l’ordine e stamparmi un altro schiocco sulla guancia. 

Per una giusta alternanza, toccava ora a noi suonare per primi. Una rapida ac­cordata agli strumenti, mimimi… sisisisi… solsolsol… rere, lala, mi: le corde basse sono sempre a posto. E poi partì Cammello in beata  solitudine:

 

TU-TU-TU-TU-TUM TUM, TU-TU-TU-TU-TUM TUM…

 

…e tutti dietro come dei disperati. Eravamo caricatissimi, concentrati al mas­simo, e facemmo scintille. Gli amici ballavano in mezzo alle sedie, ragazze con gli occhi lucidi, giurati esterrefatti, votazione rapidissima: ottantotto!

Scesi la scaletta svuotato di ogni energia e mi accasciai in un bagno di sudore. Cammello saltellava spiritato, ancora col basso in mano, é  fatta, é fatta, diceva. E per un momento ci credemmo tutti.

Poi toccò agli Stash. Abbassarono al massimo le luci, e l’organo di Marcello parti con un giro lento: mi – re, la, mi – re, la, mi – non la finiva più: ma che stanno suonando? Poi il Luna si accostò al microfono: Jesus died for somebody’s sins but not mine… 

Gloria, dei Doors di Jim Morrison. Scelta azzeccata: il brano partiva lento e cre­sceva pian piano, si avviticchiava su sé stesso man mano che accelerava, dava spa­zio a tutti gli strumenti, voce compresa, poteva durare all’infinito. E loro infatti lo fecero durare dieci minuti buoni, e gli ultimi tre furono da brivido, Gee El Ow Are Eye Aye Glooo-ria, e il fumo delle sigarette sotto i riflettori che sembrava un effetto voluto, Gee El Ow Are Eye Aye Glooo-ria, e il sudore che luccicava sui capelli di Mau Luna, zampillava dalla criniera del batterista, Gee El Ow Are Eye Aye Glooo-ria, e la mutevole folla impazzita, gente che saltava sulle sedie, coppie che si bacia­vano, Gee El Ow Are Eye Aye Glooo-ria, e Tito che scuoteva la testa con aria af­franta ma intanto batteva il tempo con tutti e due i piedi, cassa e charleston, Yeeeeeyeeeaaaaaaahhh, e l’accordo finale che durava un minuto buono con i giurati già dietro a votare, s’era appena spento l’ultimo strappo di chitarra che compariva sul palco il fratello di Cammello col risultato: ottantanove! 

Non si capiva più niente nella baraonda generale. I sostenitori dei due gruppi si rimberciavano insulti ed accuse di brogli; Cammello strepitava col fratello, che a sua volta si stringeva nelle spalle e alla fine lo mandò a quel paese; Gabri mi si mi­se a piangere sulla clavicola; Maurizio, Davide e Flavio si guardavano in faccia at­toniti; Roberto cercava di calmare i propri amici per sedare la rissa western che sembrava  inevitabile.

Ed io? Credo che fossi l’unico, in quel momento, a pensare che essere arrivati secondi così sul filo di lana, alla prima uscita ufficiale e contro una formazione come quella, fosse un ottimo risultato. Ma chi ci credevamo, i Beatles in persona? Avevamo pure rimediato una targhetta in similtolla, che rimase poi ai Down Beats quando tagliammo il cordone ombelicale, potevamo anche accontentarci.

Cercai di far capire agli altri questo semplice punto di vista, ma erano troppo delusi per vedere le cose con obiettività; e poi l’insuccesso del San Camillo fu un pretesto, perché i rapporti all’interno del gruppo si erano ormai deteriorati. Del re­sto Roberto si trovava stretto a suonare con gente come Maurizio e Cammello che non sapevano un’acca di musica, e prese una buona scusa – quando ci ritrovammo in sala prove dopo l’esperienza del San Camillo – per scaricare il suo disprezzo sulla formazione. 

La situazione non poteva durare cosi: le Pesche a Vapore fecero un’altra sola uscita pubblica – alla festa annuale della scuola in marzo, di mattina in aula ma­gna, non so se mi spiego – e subito dopo Roberto  annunciò che abbandonava la formazione.

Mi scongiurò di venire via con lui: aveva trovato una sezione ritmica (basso e batteria) con i fiocchi, e lui stesso avrebbe ripreso la chitarra in mano; gli mancava l’organista, ed io facevo al caso suo. L’offerta era allettante: non ero tanto cieco da non accorgermi dei difetti “strutturali” delle PaV; ma non dimentichiamo che al­lora per me il complesso era ancora un giochino divertente ma poco impegnativo rispetto allo studio classico del pianoforte, e poi non volevo rompere con Tito e Davide per via di  Gabriella, e così decisi di restare.

Ma se Atene piangeva, Sparta non rideva: nello stesso momento Marcello ab­bandonava gli Stash per divergenze ideologiche. E qui mi devo fermare per  spiega­re un paio di cosette.

Purtroppo mi tocca dare torto ad Andrea, che sarà un letterato, ma di  musica non ha mai capito un tubo, sulla non concomitanza tra impegno politico e impegno culturale in quei primi anni. Finché la cosiddetta “controcultura” non perse il contro e di­ventò cultura e basta, anzi cultura di regime, ma questo accadde solo verso la metà dei Settanta, l’equazione fu rigorosamente rispettata: quelli più “avanti” in campo politico erano anche quelli più “avanti” in campo culturale. Andrea dice che in Ita­lia manca una cultura di destra nel senso che intende lui (per lui il MSI non é af­fatto un movimento di destra), e sarà anche questa una spiegazione, ma é un incon­trovertibile dato di fatto che noi, che eravamo politicamente agnostici e se fossimo stati grandi abbastanza avremmo votato come i nostri padri, sentivamo e suona­vamo le canzonette dei Procol Harum e del festival di San Remo, mentre quelli che bazzicavano con Rolling Stones, Jimi Hendrix, Jefferson Airplane e Doors erano più o meno tutti compagni.

Sì, lo era anche Maurizio Luna, nella misura in cui lo si poteva essere nella no­stra scuola. Diciamo un simpatizzante. E invece Marcello non lo era, e infatti era musicalmente più indietro del compagno di formazione. 

Comunque, venni a sapere che non avevano litigato per Lennon e Jagger, ma per Capanna e Dutschke; fatto sta che Roberto colse la palla al balzo e trovò l’orga­nista che gli mancava. Col nome di Full Time la nuova formazione – terza nella nostra scuola – prese il largo a gonfie vele, mentre gli Stash rimasti in tre (e noial­tri arrangiammo e dedicammo loro il celebre brano di Rinaldo in Campo: tre bri­ganti e tre somari…) si ripiegavano su sé stessi a studiare i Cream.

Le Pesche a Vapore ebbero vita breve dopo la defezione di Roberto, anche per­ché la nostra crisi si innestò su quella dei Down Beats che si sciolsero proprio in quel momento castrandoci anche dal lato strumentazione. Maurizio, che non pren­deva mai nulla sul serio e si stancava subito di tutto, non si fece più vedere; Davide mise su un nuovo gruppo col fratello e partì verso i lidi del Rythm & Blues, con cui me la dicevo poco; e restammo io, Cammello e Flavio a suonicchiare, col nome di Oxtxt (scelto da Cammello), le canzoncine che il nostro batterista componeva in stile folk milanese. Erano interessanti, per il loro verso, perché Flavio, pur stu­diando Scienze Politiche, era un simpatizzante di  destra, e i suoi testi steccavano nel coro. Ricordo parte di una sua ballata surreal-politica intitolata “Il rinoceronte“: 

 

Ciao ciao, io devo andare,

ciao ciao, non mi fermare,

lontano all’orizzonte

arriva il rinoceronte.

 

L’America é lontana,

la Cina é troppo vicina:

il mondo é pieno di gente

che non combina mai niente.

 

Pum pum, tuona il cannone;

Mao Mao, rivoluzione;

poi escono dalla scuola

e si mettono la museruola.

 

Se il preside é troppo cattivo,

se il professore é un lavativo, 

tu sbattili sotto a un ponte,

che poi ci pensa il rinoceronte.

 

Coi miei tre nipotini

siamo andati ieri ai Giardini,

e abbiamo visto l’elefonte (sic)

che é per far rima col rinoceronte.

 

Passò cosi il resto del Sessantotto, e ai primi dell’anno nuovo decidemmo di piantarla lì: non ne valeva la pena. Io poi non avevo più  tempo: oltre alla scuo­la, che mi impegnava molto di più nel passaggio tra ginnasio e liceo, stavo prepa­rando l’esame per il quinto anno di pianoforte, e il tempo libero lo passavo a correr dietro alle ragazze o ad ascoltare il doppio album bianco dei Beatles (e a cercare di capire il recondito significato di Revolution n. 9). Non vidi più né Cammello né Flavio, e di tutta l’esperienza PaV + Oxtxt mi restò l’organetto Philips che i miei si erano decisi a comprarmi quando si erano sciolti i Down Beats.

Passò cosi anche il Sessantanove. L’esame di pianoforte finii per non darlo, né a giugno né a settembre, e cambiai anzi insegnante nel corso dell’estate, mentre il Milan vinceva la Coppa dei Campioni contro l’Ajax di Johan Cruyff e la Fiorentina si aggiudicava lo scudetto, Armstrong e Aldrin saltellavano sul suolo lunare, Jane Birkin e Serge Gainsbourg scandalizzavano i benpensanti con un rapporto sessuale a 45 giri, e in un posto in America chiamato Woodstock mezzo milione di ragazzi andava a sentire il meglio del rock internazionale (ma in Italia questo lo si seppe solo due anni dopo all’uscita del film, lì per lì fu più celebre l’analogo raduno all’isola di Wight). 

Anche in autunno, stessa solfa: i Beatles sfondavano ogni record di vendite con Abbey Road, il Cagliari di Gigi Riva stracciava tutti in campionato mentre il Milan si faceva eliminare al secondo turno di coppa dal Feijenoord, l’autunno caldo faceva i primi morti culminati a dicembre in Piazza Fontana, ed io suonicchiavo per conto mio e sul Philips ci facevo semmai i preludi e fughe del Clavicembalo Ben Tempe­rato.

Il quindici gennaio del Settanta (vedete come dopo vent’anni mi ricordo ancora la data precisa!) Roberto mi cercò in classe. Ormai facevo la seconda classico, e lui stava in terza e avrebbe dato la maturità a luglio, sembrava passato un secolo dai tempi delle PaV. Franz, mi disse, stavolta non puoi dire di no. Scommetto, risposi, che Marcello ti ha lasciato a piedi. Ma no, é già un anno e passa che non suono più con Marcello, quello ha pure cambiato strumento, é andato a suonare la tromba con Tito e Davide e gli altri, comunque hai indovinato, mi serve un organista e mi serve subito: tu sei l’unico che può farcela. Farcela a far che? A mettere su un repertorio per una serata intera per il ventiquattro.

Bigiai l’ora di storia – e lui quella di fisica – e lo trascinai in un luogo appartato per farmi spiegare la situazione. La scuola organizzava al Circolo della Stampa la festa degli ex-allievi, una cosa parecchio di prestigio, ed aveva scritturato due complessi per l’intera serata, dalle nove ad un’ora imprecisata della notte, e uno dei due erano i Full Time. Solo che all’organista gli erano venute le crisi esistenziali e non se l’era sentita di affrontare un impegno come quello. E così a nove giorni dalla data Roberto si trovava con l’impegno già preso, la formazione incompleta e tutto il repertorio da metter su. Se me la sentivo il posto era mio.

Era uno sforzo da far tremare i polsi: un’intera serata, anche spartita con un’altra formazione (hai capito fra l’altro che furbi, cosi si  risolveva anche il problema delle pause di riposo!), richiedeva la conoscenza di almeno una venticinquina di ballabili, tra lenti e veloci. Le canzoni duravano tre o quattro minuti, vabbé, qual­che veloce lo si poteva anche stiracchiare un po’ di più, ma era sempre musica da sala. Vale a dire canzoni che la gente conosceva a menadito e che bisognava quindi saper eseguire alla perfezione. Più qualche brano di riserva per le richieste: veniva sempre gente sotto il palco a chiedere la sapete questa, la sapete quest’altra, e non si poteva dire sempre niet come Gromiko. Il tutto, tanto per semplificar le cose, con la formazione non affiatata e soli nove giorni a disposizione.

Chi sono gli altri? L’altro gruppo, dico, domandai. Roberto sogghignò: e chi se non la Gee El Ow Are Eye Aye Glooo-ria della scuola? 

Trasecolai: gli Stash che fanno sala? Incredibile dictu, ma vero, confermò Ro­berto. Ci guardammo in faccia, ed in quel momento decidemmo di accettare la ri­vincita: una solenne stretta di mano sancì il mio ingresso  nei Full Time.

Detto fatto: quello stesso pomeriggio, briefing a casa di Roberto con gli altri due membri della formazione. Apprezzai il bassista Giorgio, più grande di noi, universitario e fratello di un compagno di scuola di Roberto, cantautore a tempo perso, buona conoscenza della musica e voce non da buttar via; un po’ meno il batterista Franco, un tipetto timidino dall’aria spiritata e svagata, pieno di paure e di un’ignoranza da far spavento. Espressi i miei giudizi a Roberto, e lui allargò le braccia, se scompagino anche la sezione ritmica siamo finiti per davvero.

Con un vecchio pianetto verticale scordato, la 12 corde di Roberto e la  6 corde di Giorgio, e un paio di bacchette ed un giornale squadernato sulle ginocchia di Franco (questo trucco non lo conoscevate, vero?), improvvisammo un’oretta di jam-session per scaldarci e affiatarci un po’, e poi  attaccammo a lavorare, mettendo in piazza ciascuno i suoi gusti nel  proporre i brani.

Nulla da fare, quando le persone conoscono il loro mestiere non é possibile non trovare un affiatamento immediato. Roberto aveva maturato una passione per i New Trolls, e lì tra lenti e veloci avevamo da pescarne parecchie; io rispolveravo i vecchi pezzi delle PaV e attingevo alla mia profonda competenza beatlesiana ar­rangiando i brani più semplici (Yesterday, Can’t Buy Me Love) ed anche qualcuno più complesso (Sexy Sadie, che pretesi di cantare di persona, voi due fate le con­trovoci); Giorgio, che era cresciuto a pane e Bob Dylan, proponeva alcuni pezzi del Magnifico e altri del più annacquato repertorio californiano (Mama’s & Papa’s più che Jefferson Airplane); ed in più c’era la hit parade del momento: Mi ritorni in mente di Battisti, Questo folle sentimento della Formula Tre, Non sono Madda­lena di Rosanna Fratello, Belinda di Morandi, Soli si muore di Patrick Samson, Venus degli Shocking Blue; Je t’aime… moi non plus decidemmo di non farla, an­che se sarebbe stato divertente rappresentare una coppia gay, ma l’ambiente di quella festa era troppo serioso. In un solo pomeriggio, e con quella strumentazione di fortuna, arrivammo a costruire una scaletta di una decina di brani, ed a decidere tutti gli altri che avremmo messo su per il ventiquattro. 

Misi a disposizione la cantina che era già servita ai tempi degli Oxtxt, e stabi­limmo la calata della strumentazione per sabato diciassette. Giorgio, l’unico in possesso di patente e veicolo, si dannò a fare la spola per mezza Milano con un amplificatore o un tamburo alla volta sull’ottocentocinquanta coupè, e verso le quattro potemmo attaccare le prime prove serie.

Tutto ci veniva facile: una scorsa ai foglietti con gli accordi, due giri poi lo stacco, questa la concludiamo così, quest’altra inizia con l’assolo di organo, e soprat­tutto ci venivano bene le voci, due, anche tre in qualche brano; d’altronde il reper­torio da sala non permetteva variazioni e quindi non avevamo molto la possibilità di far emergere la  rispettiva tecnica strumentale.

E le prove si susseguivano: lunedì diciannove, mercoledì ventuno, venerdì ven­titré, alla fine quelle venticinque-trenta canzoni arrivai a sognarmele di notte: era uno sforzo di memoria pazzesco che si veniva a sommare agli impegni che già avevo, e arrivai a temere di confondere gli accordi di Something con lo studio n. 1 di Czerny ed i testi di Battisti-Mogol con le stanze di Ludovico Ariosto!

Sabato mattina Roberto mi piovve in classe insieme a Maurizio Luna, sempre più allampanato e infricchettato, nascosto dietro un paio di occhialoni scuri anche se a Milano d’inverno non si vede un tubo neanche al naturale. Era venuto a discu­tere la strumentazione: visto che ci saremmo alternati su un solo palco, era inutile portare doppia amplificazione, doppio impianto voce, due batterie, etc. Discu­temmo pregi e difetti della rispettiva attrezzatura, e stabilimmo che noi avremmo portato impianto voce, organo e amplificazione per il basso, mentre loro avrebbero portato batteria, amplificazione per chitarra, organo e piano elettrico con relativa amplificazione. Keith Emerson era ancora di là da venire, ma insistetti per suonare con tre tastiere, anche l’altro organista si sarebbe divertito.

Poi, azzardò Maurizio, ci sarebbe da vedere se i rispettivi repertori  non si pe­stano i piedi: é inutile fare gli stessi pezzi, é una competizione puerile. Non ti pare un po’ tardi? rispondemmo. E poi i nostri stili sono troppo differenti, vinca il mi­gliore. Maurizio sorrise: perché, cosa si vince? Ma nulla, sghignazzammo all’uni­sono: noi si suona solo per la Gee El Ow Are Eye Aye Glooo-ria!

E venne la fatidica sera. Era uno di quei ricevimenti come si vedono nei tele­romanzi o nelle pubblicità dei Mon Cheri Ferrero, saloni illuminati a giorno, gli invitati, tutta gente grande, uomini in smoking e donne in lungo, camerieri impin­guinati che volteggiavano tenendo in bilico enormi vassoi (ma come diavolo face­vano a non rovesciare neanche un bicchiere?), e noialtri pivellini rimpannucciati al­la bell’e meglio, che accordavamo le chitarre e aspettavamo il via del maestro di cerimonie per cercar di far  ballare quel tipo di fauna che sembrava non averne al­cuna voglia.

E se noi Full Time eravamo intimiditi, gli Stash erano a dir poco imbaraz­zati, quattro mucchi di stracci buttati lì sotto al palco in un fluire di zazzere e barbe, decisamente più fuori ambiente ancora di noi. Chi li aveva scritturati per una serata del genere non doveva avere tutte  le rotelle a posto, e ancor meno a po­sto doveva averle avute Maurizio quando aveva accettato. Ma tant’era: erano in ballo e avrebbero ballato,  o meglio, fatto ballare.

A sproposito, non si creda che i nove giorni di clausura musicale mi avessero fatto perdere completamente la testa: quella me l’aveva fatta perdere già da prima una certa Daniela, sorella di un compagno di classe, che ero riuscito a far venire con la scusa della festa scolastica e del fratello e di tutti gli amici e insomma, ci suono io, mi vieni a sentire? E si era creato l’effetto di cui parlavo all’inizio: tutto un gruppo di gente mobilitato a supportarci. Ero diviso tra loro ed i Full Time, e questo mi aiutava a distrarmi e a non pensare che non ricordavo più una sola delle canzoni così faticosamente preparate: dovevo sembrare un incrocio tra Fantozzi, Woody Allen e un leone in gabbia.

Decidemmo di suonare per primi: l’inizio é sempre difficile, perché la sala é fredda, la pista é vuota, e suonare le canzonette senza nessuno che balla ti fa venire il magone; ma avevamo deciso di calare subito gli assi – gli assi erano i pezzi della hit parade del momento – proprio per scaldare l’ambiente, e ci riuscimmo alla per­fezione. Due, tre, quattro brani veloci, poi un altro del repertorio di Roberto dei New Trolls, e già la pista si era riempita. Era il momento giusto: giù le luci e sotto coi lenti. 

É curioso come la temperatura della sala si faccia salire o scendere con i veloci, ma si misuri al meglio durante i lenti, e più romantici sono e meglio si vede come si sta lavorando. La pista piena di coppie abbarbicate, magari qualcuna che limona ballando, é indice di febbre altissima; se invece al momento dei lenti se ne vanno tutti, é segno che il pubblico non si é lasciato veramente trascinare dalla musica, per quanto  possa aver sculettato e sudato.

Nella fattispecie, sin dal primo slow-break capimmo di avercela fatta: se possi­bile il pubblico in pista aumentò ancora, e l’atmosfera era da tagliare col coltello per quanto era tesa. Naturale che tutto questo ci stimolasse un sacco, e comin­ciammo veramente a divertirci, con Roberto e Giorgio che fingevano di ballare in­sieme mentre cantavano allo stesso microfono, ed io che durante uno stacco mi al­zavo, andavo a bere un bicchier d’acqua, e tornavo giusto in tempo per l’attacco.

Dopo tre quarti d’ora lasciammo il palco agli Stash, che persero un sacco di tempo ad accordare le chitarre e sgonfiarono così quasi per intero la bella atmosfera che avevamo costruito. Maurizio Luna, maglia bianca a collo alto sul toracino da rachi­tico, tre chili di barba e capelli, nascosto dietro agli inseparabili occhialoni scuri, ce la mise tutta nei brani veloci, ed il suo organista diede il meglio di sé nei lenti; ma il loro repertorio era troppo sofisticato per coinvolgere un pubblico del genere, e si ritrovarono  ben presto la pista desolatamente vuota.

Ma io questo lo vidi più tardi: appena sceso dal palco ero letteralmente inciam­pato in Daniela, che si era piazzata insieme agli altri del mio gruppo in posizione strategica e non aveva perso una nota. Per tutta la sessione le avevo lanciato am­miccamenti e strizzatine d’occhio, mostrando che dedicavo a lei i brani più roman­tici, e adesso ero ben disposto a raccogliere i frutti di tanto lavoro. Anche se non aveva ballato neanche un pezzo, la ragazza aveva gli occhi lucidi e le guance arros­sate, e ansimava leggermente, quando senza una parola la presi per mano e la tirai in pista. Gli Stash erano partiti con un ritmo medio che si poteva ballare sia lento che veloce, e fu lei a decidere: un abbraccio stretto stretto, un caldo sorriso, e partì il primo bacio. 

Porca miseria, pensai, la musica é davvero il migliore degli afrodisiaci, basta imparare ad usarla a questo scopo. E il gruppo degli amici – Full Time compresi – ci (mi?) applaudì a scena aperta. 

Fino al break successivo mi persi nella classica nuvoletta rosa: poiché non stava bene limonare in pubblico ad una festa così elegante, ci eravamo appartati tre o quattro sale più in là in mezzo ai cappotti, e fu lì che Giorgio mi scovò venti mi­nuti più tardi: dovevamo ricominciare, gli Stash annaspavano sempre più.

E allora sotto: salutai Dany con un bacio al momento di salire sul palco, e mi resi conto della figuraccia di Maurizio & C. dall’applauso che ci accolse. Intravvedevo il Luna e i suoi litigare in un angolo, scribacchiare foglietti di accordi, provare qualcosa sulle chitarre staccate, evidentemente volevano ampliare il reper­torio così su due piedi. Di converso noi non potevamo essere più soddisfatti: pro­babilmente avevamo trovato la vera dimensione dei Full Time, ossia un eccellente gruppo da sala. Ohilá, ci voleva un bel paio di palle per divertire e far ballare la gente, e il fiasco degli Stash ne era la dimostrazione più evidente.

La serata andò avanti in questo modo – un’ora noi, un quarto d’ora loro – fin verso l’una e mezza, quando il pubblico cominciò a diradarsi, e il maestro di ceri­monie venne a dirci che l’organizzazione giudicava la serata conclusa: se volevamo smettere avrebbero acceso la filodiffusione. Fu allora che proposi agli Stash di fare una jam insieme.

Cacciammo via Franco che aveva sonno e comunque era stato un po’ un peso morto – difatti l’avremmo sostituito di lì a poco – e Roberto passò la sua chitarra a Giorgio: la formazione completa degli Stash con noi tre, per un totale di un cantan­te, due chitarre, due tastieristi, basso e batteria. E  iniziammo a darci dentro e vomitare rock & roll al calor bianco sul poco pubblico che aveva ancora voglia di sentire musica, e che quindi era  formato da entusiasti appassionati.

Roberto e Maurizio sbraitavano strofe in un inglese inventato; io e l’altro orga­nista ci divertivamo un mondo a impicciarci con le dita sulla stessa tastiera cercando spazio a spallate; Giorgio tentava di seguire gli splendidi assoli del Lu­na, non ci riusciva, e alla fine si ritagliò uno spazio come chitarra d’accompagna­mento; la sezione ritmica, finalmente nella sua vera dimensione, pompava con energia. Un pezzo dopo l’altro, prima semplici giri blues, poi brani più complessi, Beatles e Rolling sopra tutti, alla fine scivolammo nel jazz in compagnia dei Soft Machine, e l’austero Circolo della Stampa a quell’ora tarda era diventato il Cavern Club di Liverpool, e sì, per una notte ci sentimmo come dovevano essersi sentiti i Beatles ai loro mitici esordi. Il pubblico resistette finché restò a noi un briciolo di energia in corpo, applaudendo ogni assolo, ballando ogni ritmo che potesse anche lontanamente accompagnare dei  passi di danza.

Erano le cinque quando uscimmo nella fredda luce notturna di Corso Venezia, ubriachi più di musica che di fatica o di liquori. Gli Stash ci guardarono andar via sull’ottocentocinquanta coupè (Giorgio ci accompagnava tutti a casa, e al diavolo gli strumenti, ci avremmo pensato lunedì) con ammira­zione più che con invidia o astio: avevamo vinto con largo margine la tacita batta­glia della serata, ma dopo una jam insieme – come dopo un rapporto sessuale ben riuscito – non puoi volerti davvero  male.

A proposito di sesso: Daniela se n’era andata col fratello più o meno a metà della jam, salutandomi con un bacio interminabile e gli occhi lucidi. Quegli stessi occhi erano freddi e distanti, nonché un po’ pesti, soltanto poche ore dopo, quando ci incontrammo a Messa alla scuola e lei mi comunicò la sua sofferta decisione, meditata durante la breve ed insonne notte precedente, di non proseguire il nostro rapporto. Mi chiese più volte scusa: guarda, non so cosa mi sia successo ieri sera, non mi ero mai messa con qualcuno che mi fosse solo simpatico ma di cui non fossi innamorata, meglio metterci subito una pietra sopra, mi sono comportata come una stupida, anzi, come una puttana. No, ma che dici, non ti preoccupare, sono cose che capitano, risposi, davvero, non me la prendo, mi piaci e ci ho provato, almeno ho il bel ricordo di iersera. Chissà per quanto tempo ancora avrebbe pensato imbaraz­zata al “bel ricordo” che avevo di quanto s’era combinato sotto i cappotti, ma non poteva sapere che le era ancora  andata bene.

Resistetti infatti alla tentazione di chiedere a Fratel Renato se mi apriva, come altre volte, l’organo per accompagnare la Messa: altrimenti glie l’avrei fatto vedere io cosa le era capitato!!!

6 Commenti a “Ricordi Complessi – 7 – Francesco: Io e gli Stash”

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