Quattro mani per un racconto

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Farfalle di morte (1)

Pubblicato da quattromani il 13 febbraio 2008

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Nell’esatto
istante in cui guardai la fotografia stampata in prima pagina, non potei
impedirmi di precipitare in un deja-vu
così profondo e intenso da restare quasi stordito.

La
mente si mise a correre a ritroso, a qualche anno addietro…

Ricordo
ancora perfettamente quella splendida mattina di primavera, col bosco intorno a
me a manifestare tutta la sua voglia di rinascita dopo il lungo torpore
invernale. Gli uccellini avevano un sacco di cose da dirsi, da ramo a ramo, per
nulla turbati dalla mia presenza, al contrario di qualche animaletto terrestre
che, dopo avermi fissato silente, si dileguava nel folto.

Ero
a caccia di farfalle, tanto per cambiare, mia grande passione per non dire
ossessione. A lei dedicavo gran parte del tempo libero. Non essendo zavorrato
da moglie o figli, con due anziani genitori ancora in salute ed indipendenti,
per fortuna, potevo permettermi quello svago, con la soddisfazione d’ottenere
risultati di primissimo piano. La mia collezione era una delle più belle della
zona, con esemplari che molti stentavano a credere fossero di quelle parti.
Ero, comunque, sempre alla ricerca di nuove, giocoforza le più rare, in
compagnia dell’immancabile retino.

Il
giorno in questione, avevo preso a setacciare una zona di bosco che non distava
molto dal paese, ma che durante la settimana, e soprattutto in orari così
mattutini, era assolutamente deserta. A parte il sottoscritto e la fauna
locale, non pareva proprio esserci in giro anima viva. Era una pacchia, per
coltivare il mio hobby.

Di
buona lena, seguendo sì e no la nutrita serie di sentierini che s’aggiravano un
po’ in tutte le direzioni, mi ero messo a scarpinare, col retino ben saldo
pronto a planare sull’eventuale obbiettivo.

Per
una buona mezz’ora, avevo individuato solo qualche banale esemplare, che non
avevo degnato neppure di una seconda occhiata, poi, all’improvviso, dietro un
gruppo di castani, ero sussultato dalla sorpresa, scorgendo un corpo disteso a
terra.

Col
cuore che batteva all’impazzata, mi ero fatto più vicino, esterrefatto.

Si
trattava di un giovane, dai folti riccioli color rosso fuoco, disteso supino a
braccia aperte. Era la tipica posizione di riposo che assume una persona dopo
un’estenuante attività fisica, peccato che in quel caso tutto lasciasse
supporre che il riposo fosse eterno. L’avevo già visto in paese, dove le
persone coi capelli rossi erano tutt’altro che rare, ma in quel momento non ero
riuscito ad inquadrarlo, a dargli un nome. Lo squarcio che esibiva lungo il
torace, con conseguente fuoriuscita degli organi interni, non aveva certo
potuto lasciare dubbi: era morto, stecchito.

Con
tutta probabilità ucciso. Che si fosse trattato di un incidente, era un ipotesi
sicuramente da scartare.

A
quel punto, col cellulare, avevo chiamato la polizia, cercando di spiegare con precisione
il luogo in cui mi trovavo.

Prima
di concludere la chiamata, il mio sguardo aveva però notato qualcos’altro:
sulla camicia dell’infelice si era andata a posare un farfalla, un magnifico
esemplare di Lepidotterus Stingentis.
Agitava appena le stupende ali, quasi a volersi pavoneggiare, ma era indubbio
che ne aveva tutti i diritti, bella com’era.

L’avevo
fissata a lungo, combattuto, prima di passare all’azione. Senza fare il minimo
rumore, ed evitando con cura di fare mosse brusche, mi ero portato più vicino.
Ero concentrato solo su di lei, lasciando perdere la scena disgustosa nella
quale era inserita. Con un colpo ben assestato di retino, l’avevo fatta mia. Al
morto non sarebbe servita, e neppure agli investigatori. Da un punto di vista
etico, non era certo il massimo, ma pazienza. Con cura, l’avevo messa via
nell’apposito contenitore che portavo sempre con me.

Turbato
da due avvenimenti tanto agli antipodi, mi ero seduto poco lontano in attesa
dei poliziotti, pensieroso. Il bosco aveva assunto un altro aspetto, più tetro,
quasi minaccioso. Per il tempo che avevo trascorso lì, stranamente non avevo
avuto timore che l’assassino ritornasse indietro. Semplicemente, mi ero solo
chiesto chi fosse l’ucciso e per quale motivo avesse concluso in modo così tragico
la sua esistenza. Soldi, sesso, potere, invidia o pazzia: l’uomo può uccidere
per uno di questi. Devo confessarlo: mi ero pure domandato se la Lepidotterus Stingentis, la rarissima farfalla
che avevo appena catturato, fosse stata attratta dalle viscere del morto o
magari dal bel colore dei suoi capelli.

L’arrivo
della polizia aveva posto fine ai miei interrogativi.

Il
giorno innanzi, dopo un mucchio di verbali e deposizioni, ero venuto a sapere
che l’ucciso, perché di omicidio si era trattato, era un certo Giulio Spasenti,
operaio metallurgico, tipo solitario ma lungi dall’essere una testa calda, che
avevo incrociato qualche volta per le vie del paese. Pareva non avesse nemici,
né persone che potessero beneficiare della sua morte, ma evidentemente non era
proprio così. La notizia in paese aveva suscitato uno scalpore enorme; era la
prima volta che succedeva una cosa del genere in un borgo così tranquillo.
Addirittura, la madre dell’ucciso, nell’apprendere l’orribile notizia, era
stata colta da infarto, morendo. Tragedia si era sommata a tragedia. Col
trascorrere del tempo, però, pian piano le acque s’erano calmate; il misfatto
era stato in un certo modo digerito, metabolizzato.

Un
buon paio d’anni erano passati d’allora, ed il colpevole di quel delitto non
era ancora saltato fuori, così come qualche fondata ipotesi sul movente.

 

Osservai
a lungo la foto sul giornale: una persona coi capelli rossi era stata
crocefissa tra i rami di un albero. Una profonda ferita alla pancia, la sicura
causa di morte. Dalla foto non si vedeva, ma ero sicuro che gli organi interni
non fossero più tali. Il giornalista spiegava che il ritrovamento era avvenuto
la sera prima, ad opera di un gruppo di ragazzini, in una zona del bosco
abbastanza vicina a quella del primo omicidio. L’ucciso, stavolta, rispondeva
al nome di Matteo Cinque, quarantaseienne calzolaio. Era andato nel bosco a far
funghi, trovandovi invece la morte. Immediato, era scattato il raffronto con la
vittima precedente, ma l’unica cosa che li poteva accomunare era il colore dei
capelli. Che ci fosse in giro un maniaco che potesse avercela con persone dalla
chioma ramata? Era la conclusione a cui giungeva l’articolista. La polizia
indagava… il paese era sotto shock…le solite cose.

Lasciai
il giornale e, preso il retino, uscii di casa. Era il mio giorno libero,
l’avrei sfruttato come di consueto. Pure stavolta, a fronte della morte, non
potei non chiedermi se il cadavere avesse attirato qualche farfalla rara, così
come era avvenuto l’altra volta. Non avrei fatto nulla di male ad appurarlo.
Lasciai il centro abitato, svicolai fra le ultime case, quindi mi inoltrai nel
bosco. Saranno state le nove del mattino, ma c’era pochissima gente in giro, e
quei pochi pareva avessero una fretta dannata e avessero smarrito chissà dove
la capacità di sorridere.

Quando
giunsi in prossimità del luogo ove sapevo era stato rinvenuto il cadavere, lo
trovai cintato da un nastro rosso con scritta bianca. “Alt! Polizia!” ammoniva.
Qualche curioso vagava qua e là, attirato morbosamente dal luogo di morte.
Nulla comunque si scorgeva, anche perché il cadavere sicuramente era già stato
portato via. Solo qualche poliziotto, nell’area cintata, s’aggirava con aria
alla Sherlock Holmes, con tanto di
metro, taccuino e qualche altro aggeggio strano. Stavano cercando qualche
indizio che l’assassino potesse aver lasciato, ma per il momento non parevano
affatto soddisfatti.

Li
osservai per qualche tempo, in compagnia d’altri due o tre paesani coi quali
scambiai qualche parola di circostanza, poi ripresi a camminare con l’intento
di percorrere in circolo tutta l’area delimitata. Il bosco era un po’ sconvolto
da tutto quel trambusto; non era la consueta oasi di pace in cui mi ci
immergevo piacevolmente. Tenni comunque il senso della vista assolutamente allertato,
il colpo di fortuna avrebbe potuto verificarsi da un momento all’altro. E si
verificò.

Mi
trovavo dall’altra parte del cerchio formato dal nastro della polizia, quando,
con un tuffo al cuore, la vidi: un’altra Lepidotterus
Stingentis
, di una particolare sfumatura di colore.

Mi
bloccai, immobile, sperando con tutta l’anima che nei paraggi non ci fosse
nessun rompiscatole. Al minimo disturbo, un battito d’ali e via, persa per
sempre. Con movimenti lenti e calcolati, portando il retino in posizione d’attacco,
mi avvicinai a lei.

Era
bellissima, d’un colore che era difficile trovarne d’eguali.

Sotto
i miei piedi, per fortuna, le foglie non croccavano, ma mi sembrava lo stesso
d’essere troppo rumoroso.

In
quei brevi istanti, giunsi pure alla conclusione che la mia teoria non doveva
poi essere così campata in aria: quel tipo di farfalla, ripeto rarissima, in
qualche modo era attratta dai cadaveri o dal colore dei loro capelli, o da
tutte e due le cose assieme. Veramente assurdo, ma doveva essere proprio così.
La morte era in un certo modo bilanciata dall’arrivo di una così incantevole
creatura.

Feci
ancora un passo verso di lei, trattenendo il respiro. Ormai, era quasi a tiro.

-
Fermo! Cosa sta facendo? – mi intimò una voce autoritaria, da dietro.

Alla
disperata, calai il retino, ma la Lepidotterus,
allarmata, era già fuggita via, librandosi sulle sue bellissime ali.

-
Polizia! Si identifichi.

Mi
voltai, tremendamente rammaricato, verso il nastro teso fra gli alberi: un
poliziotto con due spalle da giocatore di football americano, con tanto
d’occhiali neri e gomma in bocca, aspettava che reagissi, mani sui fianchi in
atteggiamento di sfida.

Gli
comunicai il mio nome, maledicendolo. A causa sua, avevo mancato la farfalla.

-
Cosa sta facendo qua? – seguitò, sospettoso.

Gli
spiegai la rava e la fava, e solo alla fine parve abbastanza convinto.

-
E’ meglio che vada da un’altra parte a caccia di farfalle – mi consigliò,
usando un tono di voce che di solito si usa coi bambini o con gli idioti – C’è
stato un omicidio, questa notte… – indicò un punto alle sue spalle -
L’assassino potrebbe essere ancora in giro…

Lo
ringraziai e mi allontanai verso il punto dove era sparita la Lepidotterus;
di lei, però, non vi era più traccia. Osservai a lungo tutto intorno,
spostandomi qua e là per cambiare visuale, ma capii subito che era fatica
sprecata. Maledetto poliziotto ficcanaso.

Con
una rabbia pari solo alla delusione, rincasai.

Per
tutto il giorno rimuginai sulla cosa, tormentandomi. Ero stato ad un passo dal
Paradiso, poi tutto era andato a rotoli. Certo, avrei potuto ritornare nei
paraggi, ma già avevo avuto una fortuna sfacciata, non pensavo proprio che una
simile opportunità si potesse ripresentare. Il cadavere di quel povero
disgraziato era sicuramente già al fresco dell’obitorio; da lì, non avrebbe
certo più richiamato alcunché.

La
sera, mia madre mi chiese di accompagnarla a messa. Durante il tragitto, non
smise un istante di parlarmi della persona uccisa nel bosco.

 “Che mondo…che mondo…” non si dava pace
“Chissà dove andremo a finire…”

Trovammo
posto in fondo. La chiesa era insolitamente piena, pur non trattandosi di una
funzione domenicale o di una qualche ricorrenza importante.

Il
sacerdote, Don Luciano, un massiccio di mezza età, non molto alto, con due
occhialoni spropositati, iniziò la celebrazione col suo consueto tono profondo,
quindi giunse all’omelia.

-
Cari fratelli e sorelle… – fissò la platea attenta e silenziosa – E’ un brutto
momento questo, per il nostro paese. La morte è tornata ad abbattersi su di un
nostro concittadino, una morte non certo naturale, ma violenta e malvagia -
spiegò – Chi è il responsabile di tutto questo? E perché l’avrà mai fatto?
Matteo e Giulio erano due brave e buone persone, lavoratori onesti e
coscienziosi, e da quel che si sa, senza nemici che potessero desiderare la
loro morte. Ho incontrato i loro famigliari, per recare un po’ di conforto che,
come sapete, può venire solo dal buon Dio. Nei loro occhi, oltre alla
disperazione, ho letto lo smarrimento, l’incredulità. Perché? si sono chiesti.
Perché? mi hanno chiesto – allargò le braccia in atteggiamento di sconforto -
Il perché, a noi comuni mortali, forse non è dato saperlo. Magari gli
investigatori troveranno il bandolo della matassa, ma penso proprio si possa
trattare di un’ardua impresa – il tono era scoraggiato – Quello che volevo
sottolineare, però, è il modo in cui è stato ucciso il nostro Matteo. A braccia
aperte. Crocefisso – fece una lunga pausa per sottolineare l’ultima parola -
Crocefisso, come nostro Signore Gesù Cristo. Quale animo malvagio può giungere
a ciò? – levò la voce, caricando di tensione l’ambiente – Quale bestia immonda
può levare la vita in modo così brutale e blasfemo? – puntò un dito verso gli
astanti, quasi a volerli accusare uno ad uno – Sapete già chi può esserci
dietro tutto questo; sapete già chi può tirar le fila d’un simile macabro
spettacolo di morte. Satana.

In
chiesa, nessuno fiatava. Gli occhi erano tutti per lui. Indiscutibilmente, era
un grande oratore, che sapeva andare al cuore della gente. Non potei non
riconoscergli quel pregio.

-
Satana. Solo lui può ordire cose tanto orrende. Solo lui può infierire senza
pietà contro vittime innocenti – salmodiò – Sicuramente, si sarà servito di un
suo emissario. Qualcuno che magari in questo momento sta ascoltando le mie
parole, dentro questo sacro luogo; qualcuno spinto da futili motivi, come di
solito avviene in questi casi, o istigato da qualche idea perversa e malsana -
seguitò in quel tono, preso dal suo ragionamento – Non so, non mi è dato
saperlo. Quello che però so con certezza è che noi, Popolo del Bene; noi,
Armata della Luce agli ordini del Supremo Dio, non ci arrenderemo di fronte ad
un tale scempio. No. Non caleremo le armi, anzi, con l’aiuto di Dio faremo in
modo di isolare e sbaragliare questa mente malata che s’aggira fra noi. Animo,
concittadini! Dio è con noi! – urlò dal pulpito – E’ proprio in momenti come
questo che la nostra fede deve fare la differenza! E’ grazie a momenti come
questi che la nostra volontà viene messa alla prova, a forgiarsi come ferro al
fuoco!

Riprese
fiato per qualche istante, sorseggiando dell’acqua. Ma non aveva ancora finito.
Si era però placato un poco: – Stamani, per le vie del paese, ho letto negli
occhi della gente la paura, ho sentito le vostre voci tremanti, ho visto le
vostre movenze nervose e timorose. Qualcuno mi ha parlato della maledizione che
graverebbe su chiunque abiti in questo borgo. Magari, molti di voi la sapranno,
comunque ci tenevo a raccontarla – si schiarì la voce, poi proseguì – Qualche
secolo fa, quando Malpelombra, il nostro paese, aveva sì e no un pugno
d’abitanti, pare che il sacerdote locale, un certo Don Ariosto, cedendo alle
tentazioni della carne, avesse avuto una relazione con una sua parrocchiana,
una bella ragazza dai capelli rossi. Sapeva di contravvenire ai sacri dogmi, ma
ormai ne era follemente innamorato, non intendendo rinunciare a lei per nessun
motivo. Finché la relazione non aveva dato frutti, tutto era filato liscio.
Nessuno lo poteva sapere, tranne gli interessati. Un giorno, però, la giovane
aveva annunciato al sacerdote d’aspettare un figlio da lui. Era stata una
mazzata tremenda. Tutta la faccenda sarebbe divenuta di dominio pubblico. Don
Ariosto avrebbe dovuto rispondere, delle sue malsane azioni, davanti al popolo
e a Dio. Aveva infatti infranto entrambe le leggi, terrene e divine, con
conseguenze inaudite. A quel punto, il sacerdote aveva perso la testa e, sotto
l’influsso del maligno, s’era messo ad architettare un diabolico piano. Per
prima cosa, aveva raccomandato alla donna di mascherare la propria gravidanza,
quindi, al raggiungimento del nono mese, alle prime avvisaglie di parto
imminente, l’aveva condotta in sacrestia. Era proprio lì che intendeva far
venire al mondo la loro creatura. Lei voleva rassicurazioni sul futuro suo e
del loro bambino, e Don Ariosto, mentendo, aveva seguitato a tranquillizzarla.
In una notte di tempesta, al lume delle candele, senz’altra assistenza che
quella del sacerdote e di Dio, era venuto al mondo un bambino, maschio, dagli
inconfondibili riccioli rossi della madre. Era sano e bello, ma su di lui
incombeva una grave minaccia. Don Ariosto, con la scusa di lavarlo, l’aveva
levato dal grembo della madre e s’era recato nell’adiacente chiesa, l’ambiente
ove voi siete adesso…

I
fedeli erano assolutamente affascinati da quel racconto. Pure io che lo udivo
per la prima volta, non stavo più nella pelle per sapere come sarebbe andata a
finire.

Il
prete riprese: – In effetti, il nascituro venne immerso nell’acquasantiera, ma
col capo sott’acqua. Don Ariosto, come posseduto, aveva una sola cosa in mente.
Ucciderlo. Per un uomo di chiesa, era un peccato mortale, tra i peggiori che
potesse fare, ma ormai la sua anima inquinata e malata non gli consentiva
altro. La madre del bambino s’era però insospettita e, a fatica, s’era levata
dal pagliericcio ove giaceva e s’era avviata verso la chiesa. Nel vedere quella
scena raccapricciante, aveva raccolto le poche forze rimastele e, urlando come
un’ossessa, s’era scagliata sul sacerdote assassino. Nella colluttazione che
era seguita, il bambino era caduto dall’acquasantiera, picchiando la testa. Se
non era già morto soffocato, quella caduta provvide sicuramente a spedirlo in
un mondo migliore. La madre, sconvolta dal dolore, dopo essersi battuta contro
l’omicida nel vano intento di fermarlo, resasi conto dell’accaduto s’era
accucciata vicino alla sua creatura, prendendola in braccio e cullandola come
se potesse restituirle la vita. Al sacerdote aveva allora riversato addosso
quanto di più cattivo le venisse in mente, concludendo con un “… il figlio non
era nemmeno tuo!”

La
platea era assolutamente presa dal racconto, così ricco di colpi di scena.

-
Don Ariosto, che fino a quel momento aveva assistito quasi indifferente alla
scena, sicuramente sotto shock, a quelle parole s’era scosso. “Non è mio
figlio?” aveva urlato alla donna, precipitandosi da lei per scrollarla
vigorosamente a due mani “ma cosa stai dicendo?! Tu sei pazza!” e altre cose
del genere. “Il padre del bambino è Mattias, il figlio del bovaro…” aveva spiegato
fra i singhiozzi la poveretta “Non potevamo prenderci cura di lui… siamo
poveri…” aveva confessato “Tu avresti potuto allevarlo, ne avresti avuto la
possibilità…” Ma lui aveva inveito: “Sono un uomo di chiesa! Non hai pensato
allo scandalo?! Sei una sciagurata! “ aveva seguitato, cominciando però a
rendersi conto di quel che aveva appena fatto “Mi hai fatto diventare un
assassino! Le mie mani sono insanguinate!” Al che, lei s’era difesa: “Non
potevo fare altro… solo tu lo potevi salvare, ma l’hai ucciso…” – Don Luciano
seguitò a raccontare, con enfasi – Cari parrocchiani, la scena, se davvero
avvenne, dovette essere qualcosa di terribile. Dovete sapere, comunque, che a
quei tempi, in pieno medioevo, una piccola comunità come questa doveva dar
fondo a tutte le proprie capacità per sopravvivere, e una bocca in più da
sfamare poteva essere davvero la rovina. Posso capire la situazione, ma non
certo condividere il comportamento di lei, né tanto meno di lui. A quel punto,
Don Ariosto era impazzito del tutto. I suoi nervi avevano ceduto, incapaci di
reggere un così pesante fardello. Aveva preso a correre per la chiesa
imprecando e, utilizzando le candele accese qua e là, aveva preso a dar fuoco
ovunque. “Che sia maledetto questo paese! Che sia maledetto ogni frutto del
grembo che porti con sé il germe del peccato! “ aveva seguitato ad urlare,
appiccando fiamme agli arazzi e agli arredi sacri. La madre del bambino,
annichilita, aveva assistito impotente. Ormai, della propria vita non le
importava più nulla. Per farla breve, la chiesa si era trasformata in un enorme
rogo, che aveva condotto alla pace eterna i due tribolati protagonisti.
L’edificio in cui ci troviamo, pare sia stato ricostruito dopo quell’incendio,
solo l’acquasantiera dovrebbe essere ancora quella originale.

Tutti
i presenti la fissarono, posizionata sulla destra rispetto all’altare. Pure io
non potei impedirmi di fissarla, immaginando quel povero bambino soffocato e
ucciso là dentro.

-
Morale della favola, come si diceva una volta… – riprese il prete – …dal male,
dall’inganno, dal sotterfugio, non possono che venire lacrime e sangue. Nessuno
sa se quanto ho appena raccontato sia accaduto veramente, comunque è plausibile
- fece una pausa per aggiustarsi gli occhiali – I nefasti avvenimenti odierni,
sembrano in qualche modo collegarsi a quell’oscura vicenda. Complice il
maligno, che lo ripeterò ancora una volta, sono certo sia dietro le quinte a
manovrare i suoi burattini, la morte è tornata a farci visita mostrando il suo
lato più feroce e disumano. Crocefiggere una persona prima di ucciderla, come
fosse una bestia al macello…- considerò, scuotendo la testa – Questo modo di
procedere lascia intendere la precisa volontà di infangare il nostro Credo, di
colpire la santa figura dell’Altissimo. Ma noi – puntò il dito verso la platea
- Ma noi non dobbiamo indietreggiare o lasciarci intimorire. La battaglia col
maligno è sempre ardua, ma non dimentichiamoci che possiamo sempre contare su
di un alleato fedele e potente. Gesù Cristo. Su di lui possiamo fare affidamento,
pregarlo, invocarlo, lasciare che guidi le nostre anime fuori dall’oscuro
tunnel di morte in cui si ritrova ora il nostro paese. Le fantomatiche
maledizioni non devono far vacillare la nostra fede, farci smarrire la luce.

Don
Luciano concluse con quelle parole, infondendo coraggio ai parrocchiani
sconvolti. Pure mia madre parve in qualche modo ricaricata dall’omelia, ed al
momento di scambiarci il segno della pace, avvertii la sua stretta di mano
forte e salda.

Nei
giorni a venire, il clima di tensione che aveva avvolto il paese cominciò pian
piano ad annacquarsi. La grande capacità del genere umano è pur sempre quella
di adattarsi, di accettare gli avvenimenti nefasti, di dimenticare.

La
polizia, lessi sui giornali, non mancò di fare il suo dovere, seguitando ad
investigare per poter risalire all’autore dei due efferati delitti, ma per il
momento non c’erano novità.

Una
sera, un tizio che si presentò come Tenente Mandelli, venne pure a farmi
qualche domanda. I miei ne furono parecchio impressionati, ma io li
tranquillizzai. La polizia doveva pur interrogare la gente del posto, era così
che si veniva a capo delle inchieste. Il tenente mi chiese, tra l’altro, dove
fossi la notte in cui passò a miglior vita Matteo Cinque, ed io risposi che
come di consueto la notte dormivo, quindi mi trovavo nella mia camera. Avevo
testimoni? Beh, i miei dormivano nella stanza accanto, non certo con me nel mio
letto. Il tenente mi chiese pure se avessi dei sospetti, delle congetture, cosa
ne pensassi della maledizione che, voce di popolo, incombeva sul paese.
Insomma, le solite cose che si vedono nei gialli in Tv. Il discorso tornò poi
all’omicidio di due anni addietro, quello che avevo avuto il merito di scoprire
per primo. Io dissi tutto quel che sapevo, ormai una filastrocca mandata a
memoria, ma non so se riuscii a convincerlo della mia innocenza. Ma io non lo
avevo certo ucciso. Che motivo avrei avuto? Lo conoscevo a malapena. Va anche
detto che non è che avessi un alibi di ferro, mi aggiravo nel bosco nel momento
in cui l’assassino infieriva su di lui, ma non è che per questo possa diventare
automaticamente un sospettato. L’arma del delitto, un coltellaccio lungo quasi
due spanne, avevo visto la foto sul giornale, era stato ritrovato in un tombino
nei pressi della chiesa, perfettamente ripulito. L’assassino era convinto
d’aver fatto un ottimo lavoro, ma non aveva tenuto conto del progresso
tecnologico. Secondo un esperto della Omicidi, intervistato, è molto difficile
togliere ogni traccia da un’arma, propria o impropria che sia. L’unica cosa che
possa fare un provetto assassino, pare sia quella di far sparire l’arma. Cosa
più facile a dirsi che a farsi. I corsi d’acqua, laghi o mari, sono i primi ad
essere dragati e state pur certi che se dovesse essere lì dentro, salterebbe
fuori. Seppellirla? Mah. I cani la potrebbero scovare in capo al mondo.
Distruggerla? E come? Ci vorrebbe un inceneritore, ed in effetti a volte
finiscono tra i rifiuti, uno dei luoghi che la polizia setaccia con cura. Lo
ripeto, non è affatto facile far sparire l’arma del delitto. Il coltello usato
per spedire all’altro mondo Giulio Pesenti, l’operaio metallurgico, era invece
stato ritrovato, un colpo basso per l’assassino. Si era addirittura trovata
un’impronta parziale, ma se il responsabile non fosse stato schedato in
precedenza, tanto valeva. Dal tempo che era trascorso, senza che nessuno
venisse spedito in gattabuia, si poteva supporre proprio questo. 

Comunque,
il tenente Mandelli mi prese pure le impronte, che evidentemente intendeva
confrontare con quelle in suo possesso. Lo lasciai fare, tanto sapevo già che
quelle sul coltello che aveva ucciso l’operaio, non potevano certo essere le
mie.

Il
giorno seguente, un venerdì, approfittai di un giorno di ferie che la ditta
presso cui lavoro mi aveva concesso. Sapete come l’avrei sfruttato? Facile, a
farfalle.

Saranno
state le nove, nove e trenta, quando uscii di casa. Andare a caccia di farfalle
è un po’ il contrario che andare per funghi: è inutile alzarsi presto. Solo col
sorgere del sole vengono fuori dai loro giacigli, e senonché si vada alla
ricerca di quelle notturne, è meglio prendersela comoda. Ripensai di nuovo alla
Lepidotterus Stingentis. Fuor di
dubbio, era attirata dalle viscere o dal colore dei capelli, ma propendevo di
più per la prima opzione. Chissà se quella attirata dal calzolaio Matteo era
ancora nei paraggi… Ero fiducioso, non so perché, al contrario dell’ultima
volta che mi era sfuggita d’un soffio.

Percorsi
le vie del paese a passo veloce, notando che il clima, in generale, era ancora
parecchio teso. Nessuna persona coi capelli rossi era in giro, il che era tutto
dire in un paese ove quella peculiarità la faceva da padrone. Su mille
abitanti, un buon dieci per cento aveva i capelli di quel colore, grazie ad
origini irlandesi. Io non facevo parte di quella cospicua minoranza, nero
com’ero, ma anche se così fosse stato, non me ne sarei preoccupato. I rossi
della zona, però, evidentemente non la pensavano come me. Avevano paura, era
chiaro. Non è che poi il sermone di Don Luciano avesse migliorato le cose;
rendere di pubblico dominio la vicenda di Don Ariosto, con annessi e connessi,
aveva gettato ancor più nello sconforto i miei concittadini. Le maledizioni
venivano prese ancora maledettamente sul serio.

Le
poche persone che incontrai, manifestarono col loro muto comportamento un’ansia
da catastrofe imminente. Notai pure parecchi poliziotti che, con la loro
presenza, tentavano di rassicurare la popolazione, ma solo in minima parte
riuscivano nell’intento.

Imboccai
il consueto sentiero che si lasciava alle spalle il centro abitato, per
addentrarsi nel bosco. In pochi minuti, mi immersi nel verde. Se la paura
serpeggiava fra le case, figuriamoci lì, a pochi passi dal luogo del delitto.
Non c’era anima viva in giro, come avevo supposto. Giornata ideale per poter
catturare farfalle.

Mi
lasciai guidare dall’istinto, ed un paio di volte impattai nel nastro rosso
teso dalla polizia. Fui tentato di violarlo, tanto nessuno m’avrebbe visto, poi
invece decisi di esplorare tutt’attorno. Magari, una capatina al suo interno
l’avrei fatta più tardi. Non so se più o meno volontariamente, raggiunsi il
punto in cui un paio d’anni prima avevo trovato il corpo senza vita di Giulio
Spasenti, ed in conseguenza a quello ero riuscito a far mia una magnifica Lepidotterus Stingentis. Era una zona di
bosco fitta di betulle, con un grosso castagno piazzato nel mezzo della piccola
radura che si era venuta a creare. Mi fermai ad osservare.

Ancora
una volta, mi chiesi chi potesse essere il responsabile di quell’uccisione, ma
come le volte precedenti non giunsi a nessuna conclusione. Non ce l’aveva fatta
la polizia, d’altronde.

Ripresi
a girovagare, ma di farfalle, a parte qualche esemplare comune, non ne vidi.

Dopo
un po’, però, ebbi la sgradevole sensazione d’essere seguito, spiato. Mi
sentivo gli occhi di qualcuno addosso. Che fosse l’assassino?

Mi
trovavo a percorrere un sentiero che zigzagava fra bassi cespugli, con alberi
d’alto fusto a schermare i raggi del sole. Il luogo ideale per un agguato.

Il
cuore prese a battermi più forte e, seguitando a guardarmi indietro, accelerai
il passo. Il bosco assunse dei connotati minacciosi; persino i richiami fra gli
uccellini mi parvero urla laceranti. Le farfalle, come d’incanto, le avevo
relegate in qualche recondito angolo del cervello, dimenticate.

D’improvviso,
ad una svolta, una figura mi si parò innanzi.

A
momenti, dallo spavento, temetti un infarto, tanto era il colpo che m’ero
preso.

Era
un poliziotto, lo stesso che mi aveva consigliato di stare alla larga dal
bosco.

Udii
del trambusto alle spalle. Mi voltai: un altro poliziotto mi sbarrava la
strada.

Tornai
a guardare avanti, con aria assolutamente stupita: l’uomo in divisa stava
facendo ondeggiare delle manette.

-
Lei è in arresto. Ci deve seguire.

4 Commenti a “Farfalle di morte (1)”

  1. Bernardo d'Aleppo dice:

    Complimenti!
    Mi cimento!
    BdA

  2. MOSTARDA dice:

    Per ora posso solo farti i complimenti.
    non so se mi ci metto.
    …?

  3. wildant. dice:

    uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuhhhh bello

  4. Andrea dice:

    Ammazza che bello!
    Certo l’hai lasciato un po’ troppo aperto forse: di possibili finale ce ne sono a bizzeffe, anche perché non è che ci presenti tanti possibili colpevoli.
    Vedrò cosa riesco a fare :)

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