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IL COLLOQUIO

Pubblicato da rossanocrotti il 16 giugno 2008

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La sveglia suonò puntuale e isterica nel mondo reale e Roberto si svegliò. Quella mattina aveva il suo primo colloquio per un lavoro che sembrava serio. Nella metropoli quella mattina il sole era intrappolato dietro gigantesche nuvole e dal quattordicesimo piano si vedevano i soliti palazzi avvolti dallo smog e le ciminiere delle fabbriche che producevano smog, oltre allo svincolo della tangenziale con una colonna di auto di poveri cristi che si recavano al lavoro. Nonostante il paesaggio avvilente, quella mattina era più sveglio del solito, camminò scalzo sulla moquette sino al bagno e si guardò allo specchio.

Roberto era pronto a fare qualcosa per dare un tocco di personalità alla sua vita. Realizzarsi in qualcosa. E sperava fosse la volta buona. Si lavò sotto le ascelle, si mise la cravatta di suo padre  con un nodo che non riuscì mai più a slegare e dopo una sana colazione buttò la Uno color oliva sbiadito in pasto al traffico.

Arrivò puntuale.

Ottavo piano del palazzo .Una delle segretarie era programmata per ricevere con frasi di rito chiunque entrasse. Le persone, fatte accomodare a seconda dell’importanza  su poltrone o in salette più o meno prestigiose, si sedevano e aspettavano. Roberto si accomodò e venne inglobato da una poltrona di pelle nera  in un angolo del salone, mentre segretarie più o meno avvenenti con fogli di carta in mano  gli passavano davanti ignorandolo completamente.

(E che cazzo, pensò). Nonostante la posizione assurda che aveva assunto la sua colonna vertebrale, il nostro eroe riuscì ad accavallare le gambe, assumendo così un’aria distaccata ma professionale, disinvolta ma attenta, caparbia ma socievole.

E tutto questo a chi gli passava davanti non importava una mazza.

A nessuna di quelle impiegate con tre chili di trucco in faccia poteva interessare chi fosse e da dove venisse. Una di queste , pure carina , inciampando nella sua gamba accavallata dal tono caparbio, lo guardò in faccia e con la sola espressione del viso gli trasmise un chiarissimo “vaffanculo”. Si tirò la gonna sotto al culo più che poteva e se ne andò a rinchiudersi in una stanza.

La segretaria addetta alla ricezione rispose all’interfono e urlò il cognome di Roberto, che cercò di staccarsi dalla mega poltrona mantenendo un contegno umano e simulò  nel rispondere all’appello un’allegria un po’ troppo fuori luogo.

Quella sciatta donnetta che lo aveva chiamato, all’incirca aveva più del doppio dei suoi anni ma non volendo essere da meno alle strafighe che le orbitavano attorno si vestiva con minigonne superaderenti che le fasciavano le chiappe ormai tristemente appassite dando un effetto pressoché vomitevole.  Probabilmente nessuno glielo aveva fatto notare. Roberto si avvicinò. Puzzava di sudore.  Gli fece da guida attraverso i corridoi e lo accompagnò alla stanza del megadirettore. Entrò.

Lo ricevette un distinto signore baffuto sulla quarantina con falso sorriso stampato in faccia, parzialmente coperto dai baffi.

“Benvenuto fra di noi!”, (frase più idiota non poteva dirla, pensò).

Chiamò l’impiegata all’interfono e ordinò due caffè. Solo dopo si ricordò di offrirglielo, sottolineando che era per fargli compagnia. Nelle mensole alle pareti della stanza era riposta con cura la campionatura di tutti i prodotti che la ditta alimentare produceva. Scatolame vario, vasetti di sugo, sacchetti di patatine, zucchine congelate e altre assurdità. Iniziò il colloquio e il simpatico signore baffuto, prendendo un tono orgoglioso e fiero attaccò a parlare della storia della ditta, di suo padre, la sua famiglia, la crisi, suo zio, i suoi figli, la concorrenza, (a me che cazzo me ne frega, pensò Roberto), i nuovi investimenti, la tecnologia, i clienti .. ecc….ecc…

Quando si ricordò di lui (parte del monologo lo fece dandogli le spalle) chiese al suo giovane interlocutore della famiglia, come va e come non va. Probabilmente non pretendeva risposta perchè le sue frasi quasi sempre vennero troncate a metà. 

Fu in quel momento che Roberto  ebbe la netta sensazione che in quella ditta sarebbe diventato un numero, un piccolo numerino di contorno ad un organigramma dove tutto era già deciso e programmato, come probabilmente lo era stata la vita di quel fiero signore. Un uomo di plastica. Roberto perse tutta la voglia di fare bella figura e teneva sempre meno al giudizio che su di lui avrebbero potuto avere in quella ditta. Si mise a suo agio e assunse un atteggiamento più disteso. Un raggio di sole uscì da dietro le nuvole e gli picchiò direttamente in faccia passando dalla finestra.

“Le faremo sapere qualcosa”, disse il megadirettore ……..

(Vai a cagare), pensò Roberto ……….

“Grazie mille, ci vediamo”, rispose invece.

Nonostante tutto, il nostro eroe teneva a quell’impiego, che anche se non definitivo si accumulava ad un bagaglio di esperienze anche misere e di cui comunque aveva bisogno. Ne aveva bisogno per avere elementi di giudizio, parametri di scelta, basi su cui appoggiarsi anche economicamente. Per portare a casa uno stipendio che non venisse dalle tasche del padre. Orgoglio personale. Desiderio di realizzazione. Voglia di fare qualcosa. Voglia di trovare la cosa giusta. Al più presto possibile.

Tornando a casa, Roberto pensò al piccolo paese. Pensò se mai potesse esistere un posto dove esiste un briciolo d’armonia.

Il sole esplose completamente e le grosse nubi lentamente scorrevano in cielo diradandosi. Roberto pensò ai suoi sogni, ai suoi desideri. E pensava se percorrendo la strada che aveva iniziato sarebbe arrivato a realizzarli.

Roberto pensò a me. Pensò alla sua vita parallela e inesistente che considerava come guida ed esempio per le decisioni da prendere nel suo mondo. Ma aveva paura che qualsiasi fossero le decisioni  che prendesse, queste si rivelassero un vicolo cieco.

Aveva paura che fosse il suo mondo ad essere chiuso in una dimensione senza uscita.  Pensava, ormai, che non bastasse più sognare, ma bisognava cambiare realmente le cose. Ma trovare la  strada giusta per lui, era come trovare un ago in un pagliaio, dentro la cui cruna era appena passato un cammello  (?).

Quella notte, Roberto sognò; e il piccolo paese in provincia di Reggio Emilia prese di nuovo vita, con le sue storie e le sue persone.

Sognò di notte una notte. Sognò una notte diversa, diversa negli odori, negli spazi, dove il vento portava via i dispiaceri del giorno, dove i silenzi potevano far riflettere, dove si poteva capire dove si stava andando. Se la strada era quella giusta. Roberto sognava il bar della piazza  e i vecchi seduti all’aperto col maglione sulla spalle che parlavano a voce alta e giocavano a carte. Sognava il piccolo parco di fianco alla piazza e pensava ci si potesse anche innamorare in quel parco.  Roberto  sognava forte, quasi piangeva nella solitudine della sua notte. Roberto era solo, a Roberto mancava tutto. Roberto voleva essere il suo sogno. Intorno a lui era tutto calmo. Tutto piatto.

Nessuna emozione. Tutto a posto.

Ore una e ventisei, quattordicesimo piano di un anonimo grattacielo in una caotica metropoli qualsiasi.

Gli occhi del nostro amico si sgranarono all’improvviso. Non riusciva a stare in pace con se stesso, non riusciva a stare fermo senza fare nulla mentre intorno a lui tutto quello che era il suo mondo gli orbitava attorno ignorandolo. Aveva paura che una mattina svegliandosi non potesse più fare niente, circondato da chi era stato al gioco.

Da chi aveva scelto la sua strada senza farsi troppi problemi. E per Roberto ora l’unica prospettiva era quella di diventare un numero. E di alzarsi tutti i giorni  vedendo dalla sua finestra solo fabbriche e traffico. 

La sua fronte era imperlata di sudore. Uscì.

Rifletté sul fatto che tutte le persone che incrociava avevano lo sguardo basso e teso. Com’era diversa la Bologna pettinata la Domenica mattina. Valeriana …..forse esisterà. Forse non qui. Roberto camminava con passo blando nel nulla e senza una meta. Davanti a lui una strada diritta illuminata da lampioni. Il quartiere periferico era abbastanza squallido ma tranquillo. Sul lato della strada un chiosco di panini ancora aperto era il punto di arrivo di scooter impazziti. La rugiada bagnava i sacchi dell’immondizia che trasbordavano dai cassonetti, punto d’arrivo di gatti in calore che arrivavano da tutte le parti. Quella strada, il suo quartiere, la sua città, a Roberto non gli diceva niente. Non gli era d’aiuto. Era solamente un universo di piccoli microcosmi che ciascuno si doveva costruire combattendo con la unghie e con i denti per conquistarsi il proprio territorio e la propria felicità. Proprio come i gatti.

“Non c’è più dignità” pensò, “è solo una singola lotta di ciascuna persona, nessuno divide niente con nessuno”. Roberto respirò forte quell’aria, fresca e umida,  a pieni polmoni. E chiuse gli occhi. Sognando che tutto sparisse  e comparisse il suo mondo. Anzi, il suo sogno.

2 Commenti a “IL COLLOQUIO”

  1. mattiekian dice:

    Davvero molto bello…non sai quante volte anch’io sogno che tutto sparisca…che comparisse il mio mondo…
    Grazie di avercelo fatto leggere
    A presto

  2. caterina dice:

    caro Rossano, noi non ci conosciamo ma io aspetto sempre gli stralci del tuo romanzo che tu puntualmnete pubblichi.
    ma forse quetso e’ un racconto a se’.
    ad ogni modo l’ho trovato cosi’ realistico, anzi, cosi’ vero nella descrizione di quel sentimento di angoscia e smarrimento che quasi me lo sento addosso.
    e’ scritto cosi’ bene, cosi’ perfetto, senza sbavature, con le parole giuste. eppure c’e’ dentro umanita’, desiderio delle coccole della cucina calda della mamma, dello sguardo di qualcuno che ridia la dimensione di cio’ che siamo, uomini e donne in cammino, ala ricerca di cio’ che fa bene a noi.
    e a me ha fatto un gran bene leggerlo, questo tuo.
    lo considero un pezzo eccellente del sito :)

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