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L’isola di Penelope

Pubblicato da sabrina il 1 agosto 2007

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Non so più, cara Alice, come mi immaginavo che fosse la terraferma prima di lasciare Chrono. Quando vivevo su quest’isola, pensare al continente era come immaginare un’essenza eterea di cui si sente nei racconti degli anziani, in cui non si sa mai quanto sia vero e quanto no. Non ci poniamo il problema e ascoltiamo, per il semplice piacere di sognare. Poi però con la tua lettera trovata in quella soffitta, come se fosse stato un antico codice segreto, ho pensato che quell’inconsistente mistero poteva essere una realtà. E la realtà è come un tarlo, che inizia a corroderti e a scavarti dentro, come un tunnel che ti si chiude dietro appena entri, e puoi solo andare avanti, per quanto si abbia paura.


Dalla realtà non si torna indietro.


 


Ora non so perché sono tornata qui a Chrono, dopo un anno. Non ho ancora chiamato nessuno, nessuno lo sa. Sono ancora ferma al porto, e sento il bisogno di scriverti, perché anche se qui sono nata, cresciuta, anche se qui ho vissuto sino a 19 anni, è come se non capissi bene dove sono. Mi sento estranea e fuori luogo. Scriverti mi da una parvenza di contatto con la realtà. Mentre solo un anno fa leggendoti dalla mia realtà fuggivo.


 


In questo periodo i pescatori sono via, per mare o nel continente a svolgere gli affari che permettono loro di mandare avanti le famiglie e tutta l’isola. Le donne staranno come un anno fa alle prese con tutto il resto. Mia madre e mia nonna gestiranno ancora l’unico emporio alimentare del luogo, la signorina Lalla starà insegnando alle elementari, la signora Spolito insegnerà ancora letteratura al liceo; Margherita è ancora lì vicino al porto a vendere pesce e Lucrezia fiori e frutta. Tutto è come prima.


Ma io no.


E penso a mio padre e al suo sguardo pieno di rughe, quando al suo rientro dal mare, con mio fratello e gli altri marinai, non mi ha trovata più quì.  Mi avrà creduta persa nell’unica via che anche io potevo prendere, il mare.
Strano, ma la sola srada che andava verso di lui è stata quella che ci ha allontanati per sempre.
 E Gino, come avrà reagito Gino? Lui aveva promesso di tornare ed io di… aspettare, come mamma a papà, come Lalla a Rocco, come la nonna al nonno, finché un giorno non è più tornato.


Questa era la forza delle donne di Chrono; la forza della laboriosità nel mandare avanti questo piccolo universo, la pazienza dell’attesa, la calma… dell’abitudine di quell’eterna consapevolezza di un ritorno che ben presto sarebbe stato nuova partenza.


Eppure non sempre gli uomini tornavano. Vittoria, l’insegnante di musica al liceo, aspettava da anni il ritorno di Paolo, che si diceva fosse rimasto nel continente, anche se nessun uomo spiegò mai il motivo. Allora, alimentata dalla speranza lasciata dal dubbio, lei continuava e molto probabilmente continua ad aspettare il suo marinaio, mentre la sua gioventù sfiorisce nonostante gli occhi sognanti di chi crede nelle favole e il sorriso spento di chi sa che le favole sono ormai il solo appiglio per sopravvivere.


E poi, quì a Chrono, c’ero io. E negli ultimi due anni anch’io aspettavo le lettere sporadiche di Gino. Pensavo a lui anche a scuola, tanto che i risultati ne risentivano.


Ero sempre stata brava, la prima della classe, sino all’età di 16 anni. Amavo la letteratura e la matematica allo stesso modo, anche se non mi ero mai posta davvero il problema di cosa avrei fatto da grande; a Chrono non ce lo si chiede spesso.


 


Poi, l’estate a cavallo tra i 16 e i 17 anni, io e Gino scoprimmo che l’amicizia che ci legava da sempre era diventata qualcosa di strano. Lui mi aveva sempre parlato con ansia del giorno in cui sarebbe stato grande abbastanza per prendere la via del mare con suo padre e diventare un uomo, non pensava ad altro. A 14 anni, come tutti gli uomini di Chrono, fu pronto. Partì e ci vedemmo sempre di meno per poi ritrovarci in quell’agosto.


Lo vidi con occhi nuovi, sembrava davvero un uomo, ed io mi sentivo abbastanza simile ad una donna, o almeno, era più facile fingere di esserlo. Ma lui parlava sempre del mare, poi di noi; e del continente, poi ancora di noi e di un nostro futuro se… avessi promesso di aspettarlo. Io promisi.


Quanto mi è costato non rispettare quella promessa. E ora , sarei ancora in tempo per rimediare?


Se lo cercassi ora, lo troverei? Lui mi avrebbe attesa?


Quando lui partì, lo vidi piangere per la prima volta. Non si capiva se di gioia o dolore, o entrambe le cose. Avevamo passato assieme l’ultima estate della nostra adolescenza. Sapevamo che dopo avremmo fatto i conti con le scelte da grandi. Ci sentivamo così soli, eppure non avremmo mai voluti l’intrusione di qualcun altro in quel piccolo universo a due. La nostra vulnerabilità era ciò che ci univa. Volevamo crescere assieme. Quando è partito, sono sicura, piangeva anche perché si allontanava da me.


Io ho promesso che lo avrei atteso.


L’anno scolastico iniziò nella distrazione, nella svogliatezza di rimettermi sui libri.


A scuola pensavo a lui, quando il pomeriggio dovevo iniziare a dare una mano alla mamma e a nonna nell’emporio rischiavo di tener male i conti e sistemare male le merci perché pensavo a quei giorni, a quelle promesse.


Le mie insegnanti si accorsero ben presto di quanto il mio precedente interesse per la letteratura fosse calato, assieme alla mia concentrazione nel calcolo. Dopo l’ennesima sufficienza strappata sulla base del mio glorioso passato scolastico, la signora Spolito andò a parlare con mia madre.


Lei le spiegò, con la tranquillità di chi vive un fatto normale, che il motivo era che ormai la mia mente era tutta presa per Gino, il figlio di amici di famiglia, in viaggio con gli altri uomini.


Anche la professoressa allora smise di preoccuparsi, se pur sperava che la passione e l’interesse precedente potesse col tempo tornare da sé. Anche lei riconobbe nel mio cambiamento un percorso normale. Simile a quello di ogni donna di quell’universo parallelo al nulla che era Chrono.


Io, dal canto mio, iniziai a trascorrere buona parte del mio poco tempo libero dall’emporio, in riva al mare, sulla scogliera, a immaginare cosa potesse esserci dietro il velo dell’orizzonte da cui mi divideva il mare.


Io non so nuotare, ma allora avevo addirittura terrore dell’acqua. Una cosa assurda per chi vive su un’isola. La sola cosa che mi divideva dal continente era l’ostacolo più insormontabile, da quando all’età di cinque anni rischiai di affogare, portata via da un’onda. Fu in uno dei pochi periodi in cui mio padre era a Chrono.


Allora lo vedevo ancora più alto e forte di adesso, e fu lui a riafferrarmi con la sua mano ferma e sicura da quell’onda che voleva portarmi via. “Stai attenta sempre- mi aveva detto a casa dopo la disavventura, quando ancora tremavo dalla paura- il mare io lo conosco bene e so che ti può portar via in un battibaleno.”


Quanto aveva ragione.


 


Ma un giorno di novembre, quando l’autunno avanzava nel periodo più cupo, in un pomeriggio troppo piovoso, non andai alla scogliera e rimasi a casa. Non mi andava affatto di studiare, la mia demotivazione non diminuiva. Ormai non pensavo più tanto a Gino, ma restava un buon alibi per non farmi fare troppe domande dagli altri. Neanche io sapevo bene il motivo della mia apatia.


Mi ritrovai, non ricordo bene per quale motivo, in soffitta. Non salivo lassù da anni e mi guardai un po’ attorno come se volessi orientarmi. Trovai dei libri vecchi, su uno scaffale ancora più logoro, e presi un piccolo volume sperando di trovare qualcosa di interessante. Dal libro caddero delle carte, due fogli, due lettere. Le tue lettere, quelle che avevi spedito a mia madre senza mai avere risposta. Quelle lettere cambiarono gradualmente tutto il mio mondo. Nasconderle non era stato sufficiente a ridare un finto, perenne equilibrio.


 


Mie care Mara e mamma Lucia, spero che l’indignazione che provate nel pensare a me non sia tale da farvi strappare questa lettera prima ancora di aprirla. Spero altrettanto fortemente che almeno l’affetto che mi lega indissolubilmente a voi possa attenuare il vostro risentimento più di quanto le parole possano sperare di fare.


Sono andata via senza una parola di saluto, senza dirvi nulla, ma credo in un angolo della mia mente che voi in fondo sapevate cosa stessi pensando da tempo. Forse facendo quello che ho fatto ho reso tutto più facile anche a voi, perché sarebbe stato assurdo e inutile chiedere ad altri spiegazioni o rimedi al mio malessere; neanch’io ho mai saputo spiegarlo. Non voglio attenuare il mio senso di colpa profondo con questo, ma so che non meritavate di essere caricate anche della mia partenza, oltre che da quella di papà, di Tommaso e di tutti gli altri. La mia partenza, lo so già, sarà senza ritorno, dunque senza attesa.


Se avete voglia di sapere qualcosa sulla mia vita attuale andate oltre nella lettura, altrimenti fermatevi pure qui, mi considero già graziata se posso illudermi che abbiate aperto la busta pur leggendo il mio nome sull’intestazione.


Arrivare sul continente non è stato facile, anche se è stato sicuramente meno dura che salire sul battello partenza da Chrono. Dopo aver percorso il pontile di imbarco sentivo che nessuno sforzo sarebbe stato più audace e difficile.


Qui non conoscevo nessuno, e non è stato facile trovare un impiego per mantenere l’affitto della stanza in cui vivo. Ma la donna proprietaria della casa è molto dolce ed è stata comprensiva sinché dopo due mesi non sono stata accettata come insegnante di sostegno per alcuni bambini nella scuola elementare della città.


Qui tutto è diverso dall’isola. Tutto si muove, ma non tutto è meglio di li.


Non voglio andare oltre, per ora. Vi lascio il mio recapito sperando di tutto cuore che vogliate mandarmi vostre notizie, e magari, chiedermi di me. Spero inoltre che il cuore di una mamma e di una sorella, non tanto diversa da me in fondo, possano essere tanto forti da perdonare quello che non è stata una fuga, se pur non so ancora io stessa come definirla.


Con l’immenso affetto di sempre, la vostra


Floriana.


 


Qualcosa che dovrebbe farci conoscere meglio una realtà, una storia, una situazione, una persona, inizialmente non fa che rendere tutto più intricato e complesso. Non sapevo nulla di te prima di leggere quella lettera, compresa la tua esistenza; sembra assurdo, ma leggendola sentivo di sapere ancora di meno. Ma non solo di te, bensì di tutto. Tu chiamavi mamma, la madre di mia madre, ma lei non mi aveva mai parlato di una sorella. Come era possibile?


Chi eri? Perché eri andata via da Chrono? Cosa ti legava alla mia famiglia?


Non potevo fare altro che leggere la seconda lettera, e poi, forse, cercarne delle altre.


 


Carissime mamma e Mara, e, se mi è concesso, un abbraccio anche a tutti voi, miei cari papà e Tommaso.


Non so se loro sapranno mai di questa lettera, cui non seguiranno atre, dal momento che la vostra mancata risposta mi fa capire che davvero voi non volete sapere più nulla di me e che la mia scelta ha compromesso per sempre non solo le dinamiche della mia vita ma anche gli affetti più profondi. Continuo tuttavia a sperare che la vostra lettera sia andata perduta nel viaggio lunghissimo dall’isola al continente. Io sto discretamente bene, dal punto di vista economico, ho trovato i mezzi per il mio sostentamento. Ma non è di questo che vorrei scrivervi. Non so cosa potrebbe interessarvi, ci penso spesso e a lungo, ma davvero non so capirlo. Allora confesso a voi e a me stessa che vorrei solo trovare un modo per sentirmi più vicina a voi, per potervi chiedere perdono anche se non capite e non condividete ciò che ho fatto. Tutto sarebbe un po’ più facile se potessi almeno contare sul vostro appoggio. Forse basterebbe sapere che provate almeno un sussulto di gioia dimessa e silenziosa nel sapere di me.


Non so se così sarà mai, ma come io vi ho costrette a prendere per un dato di fatto la mia decisione di andar via, ora anch’io devo accettare la vostra decisione di non volerne sapere più nulla.


Non riceverete altre mie lettere, ma anche se ci proverete, spero che non possiate mai dimenticare una sola cosa di me; l’affetto che proverò sempre per voi.


Per sempre vostra


Floriana.


 


Poche parole che parlavano di cose forse troppo astratte per poterle capire e giustificare; perdono, rimorso, decisioni definitive, una partenza senza ritorno. E poi il silenzio.


Il silenzio di quella persona sconosciuta e soprattutto il sospetto che qualcosa di importante mi fosse stato taciuto. Cercai per almeno un’ora nello scaffale e nel resto della soffitta qualsiasi altra cosa che potesse ridarmi qualcos’altro di lei, di Floriana, di te.


Non trovando nulla, neanche un ritratto, un biglietto, delle iniziali, decisi che in fondo non sarebbe stato assurdo semplicemente chiedere di te.


Lo feci quella sera stessa, quando la mamma e la nonna tornarono dall’emporio stanche ma felici di trovare già la cena in tavola. Ma la serenità sparì da quelle espressioni che non dimenticherò mai quando chiesi a bruciapelo: “chi è Floriana?”


 


Non capii il motivo del loro lungo e interdetto silenzio, della loro cupa occhiata e della loro risposta. “Nessuno, vai a dormire, è tardi e domani c’è scuola e poi ci devi aiutare all’emporio”.


Perché quel silenzio?


Non dormii per diverse settimane, e a scuola non pensavo ad altro se non a chi avrei potuto chiedere, visto che ogni volta che provavo a riformulare la domanda a mia madre lei se ne accorgeva prima ancora che aprissi bocca e cambiava argomento prima ancora che io lo potessi proporre.


Un pomeriggio mi avvicinai a nonna mentre lavorava; volevo prenderla all’improvviso, quando non si aspettava alcun tipo di domanda. Ma mentre la osservavo temendo il suo snervante silenzio, notai accanto ala cassa una persona che, pur avendo tante cose di cui parlare, per sua indole stava solitamente muta, parlava il meno possibile.


Non so perché ma se mai avessi voluto o potuto dare un volto al mio astratto concetto di verità gli avrei dato il viso bianco e dimesso di Vittoria, l’insegnante di musica, la Penelope che ancora non aveva visto il ritorno del suo marinaio.


La seguii per un po’, e mi palesai solo una volta giunta nei paraggi di casa sua.


“Ciao,- mi disse- finalmente mi dirai come mai mi segui da un po’”. Aveva un sorriso candido e spontaneo. Le dissi che volevo solo scambiare due parole. Sino a due settimane prima sarei arrossita all’idea di rivolgermi così amichevolmente ad un’insegnante, ma lei era per me in quel momento qualcosa di diverso da questo.


Tante cose da un po’ stavano assumendo altri significati e connotazioni.


Parlammo per un po’ nella sua casa, non molto grande per viverci con una famiglia ma immensa per una persona sola. Parlammo di diverse cose, tra cui dei miei cambiamenti recenti, dei quali lei non sembrava però preoccupata. Ma soprattutto Vittoria non ebbe l’espressione incupita alla solita domanda che ronzava nella mia mente:


“Tu sai chi è Floriana? Ho trovato due lettere di una donna con questo nome, tu sai per caso dirmi chi sia?”


 


In perfetta coerenza con la sua personalità lei non si scompose; come se non attendesse altro che quella domanda, come se fosse stata la cosa più banale del mondo. Ma non rispose subito. Si alzò e scomparve dietro la porta della cucina. Ricomparve dopo non molto con una teiera piena di te fumante e un album di fotografie.


“Per anni ho pensato che prima o poi avresti in qualche modo saputo di lei, e come tutti qui a Chrono mi chiedevo se te ne avessero mai parlato. Non so se è giusto che tu lo sappia da me- continuò porgendomi l’album – ma tanto prima o poi la storia la si conosce, o perché qualcuno te la dice o perché la verità si racconta da se”.


Tra le foto dell’album riconobbi subito quelle in cui c’era anche mia madre, vecchia amica di Vittoria. In alcune erano solo loro due, in altre, le figure sgualcite e abbracciate in quelle tonalità grigie e seppia sbiadita erano tre. Due erano mamma e Vittoria, e la terza…?


“Si, lei è Floriana”. Mi disse quando la guardai, senza chiederle nulla.


C’era poi una foto in cui riconobbi mia madre bambina e mia nonna nel fiore dei suoi anni, raggiante accanto a mio nonno. Tra loro c’era anche un’altra bambina, che ormai potevo riconoscere. Floriana, eri tu, sorella di mia madre, figlia dei miei nonni.


Improvvisamente capii il motivo del dissidio con la mia famigli e il tuo chiedere perdono: “Perché è andata via da Chrono? È partita col suo uomo?”


“Sì e no. È partita da sola, lasciando il suo uomo che era per il mare con gli altri, per il semplice fatto che ne sentiva il bisogno. Era come se sentisse di avere un male che non poteva curare qui”.


 


Scoprii così che andasti via appena diciannovenne su un battello, simile a quello che mi ha riportato qui adesso. Simile a quello che tra un po’ passerà di nuovo.


Non capivo come fosse possibile rinunciare ad una figlia solo perché essa ha deciso di andar via, ma allo stesso tempo era strano anche pensare all’immagine di una giovinetta che con una valigia e le mani tremanti per il freddo e la paura potesse prendere la via del mare. E andarsene. Non capivo il perché di quel silenzio durato per anni e che sarebbe continuato ancora se… la realtà non si fosse raccontata da sé, prepotentemente.


Tornai da Vittoria il giorno seguente, facendomi raccontare ancora di te, venendo a conoscenza di uno spirito irrequieto, solo nel suo bisogno di vivere, lacerato dal suo bisogno di amare ed essere amata.


Cercai di affrontare di nuovo mia madre e mia nonna, perché anche se ormai sapevo, non tolleravo quella solitudine e quel senso di prigionia in cui la loro reticenza mi aveva fatto piombare.


Per un periodo litigai con mia madre come mai era accaduto prima. Ero sempre stata una persona silenziosa, quasi ritenessi che i miei pensieri continui potessero essere inopportuni. Loro non potevano perdonare il tuo abbandono, il tuo esilio volontario, la strada che tu avevi deciso per te, e questo mi faceva sentire soffocata come tu ti sentisti a tuo tempo. Solo tu potevi capirmi, e solo io potevo capirti, anche se sino a pochi giorni prima ignoravo la tua esistenza e tu ancora ignoravi la mia. Fu allora che ti scrissi la prima lettera.


Non pensai più neanche a Gino, trovavo la mia tranquillità solo nel senso di inquietudine che provavo guardando il mare, quel mare che avevo sempre temuto, che ero convinta di non poter neanche avvicinare senza il sostegno della mano di mio padre, ma che era la sola cosa che mi divideva da te, dal continente. La nonna mi riempia di mansioni all’emporio, cose che prima non avevo mai fatto. La mamma mi mandava a fare mille e più commissioni, ma nulla era così forte da impedirmi di venire qui al porto.


 


Ero qui quando lessi la tua prima lettera, in cui mi raccontavi tutto, persino delle tue lacrime nel sapere mie notizie.


Venni qui al porto quando la mamma trovò la tua lettera e andò su tutte le furie.


Venni a gettare in questo mare i brandelli in cui quella lettera furono ridotti.


Era qui che mi chiedevo la mattina seguente se fosse giusto quello che stavo per fare.


 


Chissà come lo immaginavo allora il continente.


Il vento soffiava in quella direzione, come oggi. Il battello lanciava i suoi ululati, sembrava solo quanto lo ero io. Sentivo che copriva le voci che litigavano in me; da un lato la mia paura di partire, dall’altro la mia voglia di vivere. Da un lato la mia incertezza su cosa fosse davvero una donna, dall’altra la mia stanchezza di aspettare.


Presi anch’io la via del mare, e mi sentii spaventata, atterrita e inebriata come se la mia vita fosse troppa in quel momento da poterla sostenere e trattenere tutta. Mi sentii come Ulisse, mi sentii forte come mio padre.


 


Ora non so quale vento, dopo tutto questo tempo mi ha riportata qui. So che ho passato due ore in questo porto da cui sono partita, lontano dal quale sono cambiata, scrivendo e ricordando.


Ho guardato di nascosto i rumori, le persone e i movimenti di Chrono, il luogo in cui sono cresciuta ma che ormai posso guardare solo da qui, da un angolo dimesso di questa zona franca che tra pochi minuti mi vedrà partire di nuovo. Sento già l’urlo del battello.


È giusto che io riprenda la via del mare, questo è il posto in cui non potrò fermarmi più.


 


 

3 Commenti a “L’isola di Penelope”

  1. fabio dice:

    Mi è sembrato di vivere almeno per un pò su un’isola! Complimenti, è un racconto un pochino triste ma molto bello! :)

  2. oroboros dice:

    Questo commento è conseguente alle tue considerazioni espresse nella presentazione personale che apre al tuo blog.
    Nulla è “lineare” nell’universo, ma tutta la realtà è necessariamente ciclica. Esiste una storia generale e globale e universale che è già perfetta ed è costituita dall’insieme delle disordinate storie particolari e individuali. La logica poi non è noiosa se non quando si crede, illudendosi, di possederne la chiave. L’incessante cambiamento rende la noia lusso di pochi svogliati al comprendere. Inoltre la logica è compresa dalla, e figlia della Verità e, per questo, non la può a sua volta comprendere nell’interezza della sua essenza, come il contenuto non può comprendere il suo contenente. Credo che il senso dello scrivere non debba dipendere dalla necessità di apprezzare l’imperfezione. Per quello che resta la storia che hai scritto è bella, nonostante la tua scarsa attenzione ai Principi universali che legiferano l’esistenza e che armonizzano la spontaneità con la regola, in una spirale di creatività non certo “lineare”… Auguri per la prossima storia.

  3. Andrea dice:

    Ciao Sabrina. Leggerti e’ sempre un piacere. Bello il tono malinconico della voce narrante, che pero’ non annoia, anzi invoglia ad andare avanti. Il finale, forse un po’ intuibile, comunque rende giustizia al resto del racconto.

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