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Il servo dei viandanti

Pubblicato da sabrina il 8 agosto 2007

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Ehi, tu. Puoi entrare se vuoi. Anche senza consumare niente.


Un caffé non costa molto, ma anche se non vuoi niente ci sono cose che si possono dare anche senza pagare. Tutto ha un valore, non ttto ha un prezzo.
Io ne ho offerti di caffé, e me ne sono state regalate di cose in cambio.


Lei, signorina, come ama bere il caffé? Quante varietà ne conosce?


 


Io sono Luigi, e sto in questo posto da quarantacinque anni. Lo so, sono tanti. Ma nell’arco di una vita non sembrano poi molti, specialmente se la tua storia si intreccia con quella di tanta altra gente. Così quarantacinque anni diventano cento, duecento, mille e più. E diventano chilometri anche. Come è possibile dici? Lei mi dica come ama bere il caffé. Non serve essere un commesso viaggiatore, o un giornalista di viaggio o di guerra. Non serve essere un, come dicono oggi i giovani, fotorep… fotoreport. Fotoreporter? Sì, quello, non serve essere quello. Basta anche solo stare quarantacinque anni in una bettola come questa e servire caffé. Dite che non è una bettola? Che è un posto carino e accogliente? È solo perché oggi questi posti vanno di moda, sono apprezzati come si apprezza l’antico, una cassapanca vecchia. Ma qualche anno fa, quando le luci soffuse erano solo buio e l’assenza di musica era solo silenzio e i mobili di legno grezzo erano solo vecchi, questo era solo una bettola, dove venivano immigrati e operai che prendevano un caffé nelle poche pause di lavoro.


Oggi, per mia fortuna si capisce, i posti frequentati da extracomunitari sono “etnici”, non solo poco raccomandabili, e il profumo delle donne africane è esotico, non più acre.


Ma dicevo, non serve viaggiare per andare lontano. Io in quarantacinque anni posso dire di aver percorso almeno cinquemila chilometri solo restando qui.


Prego si accomodi. Le preparo il caffé. Le piacciono queste lampade? Piacciono molto alle ragazze come lei, sempre per quella cosa che adesso chiamano gusto dell’etnico. Me le ha regalate proprio Mama Rula, una donna africana dall’odore acre, o esotico, lo dica come le pare.


Ecco il suo caffé. Noi italiani crediamo che il caffé sia un punto cardinale della nostra identità culturale. Beh, certo che è vero. Ma se solo sapessimo quanto questa cosa nera, brutta direi, significa per altri popoli, altre genti, che definiamo lontani da noi! Ci compiacciamo quando uno straniero apprezza la nostra tazzina di caffé, perché pensiamo di aver vinto una piccola battaglia sulla loro cultura. Italiani, sempre pronti a dire che gli altri sono meglio di noi, vediamo in quel riconoscimento un punto in più in una storia fatta di umiliazioni.


E invece nemmeno immaginiamo cosa quella specie di pozzo oscuro significasse per un africano prima di approdare nella nostra calda e aromatica tazzina.


Mama Rula è una donna grassa e imponente venuta dall’Etiopia. Ho visto delle sue foto di quando aveva 18 anni. Era bellissima, un cigno nero, nera e bella come la grande lunga notte africana. Io non ci sono mai stato, ma con lei, con Mama Rula, è l’Africa che entra qui, ingombrante e aromatica, calda come solo lei sa essere.


È venuta qui a raggiungere i suoi figli. Non voleva accettare i soldi che loro mandavano senza poter fare nulla in cambio. Uno dei tre figli ha lavorato qui per un po’. Quando il giovane Lai arrivò da me a chiedermi di poter lavorare io rividi me stesso mille anni fa, quando lavoravo come garzone. Lui era un figlio del continente nero, il più ricco del mondo. Il figlio della terra dell’oro veniva da me a chiedermi di offrire il suo lavoro. E lui, con quello sguardo fiero e le spalle larghe mi sembrava proprio il figlio di un re e di una regina. La regina era proprio l’Africa, questa divinità nera della quale leggiamo, leggiamo senza sapere poi mai nulla. Un giorno quella divinità venne qui. Era Mama Rula, il volto che io do all’Africa. Iniziò a lavorare per una ditta di pulizie, poi, tramite un mio amico, come commessa in un negozio di alimentari. Io le offrivo un caffé ogni domenica.


Quando, qualche anno fa, il locale era frequentato da poveracci, io non potevo permettermi di offrire un caffé ogni giorno a chi mi stava simpatico e chi mi stava simpatico non poteva prendersi tutte le pause caffé che voleva.


Un giorno le chiesi: allora, buono il nostro caffé eh? A lei come piace?


Lei alzò il suo sguardo nero e grave su di me.


“Il vostro caffé?” mi chiese. Aveva l’espressione di chi ti becca mentre le stai rubando qualcosa, ma io sentivo che non le stavo rubando proprio niente.


“Questo caffé è buono, ma è amaro. Molto amaro”.


“Puoi metterci un po’ di zucchero in più, mica stiam qui a fare i tirchi”, le rispose questo povero scemo.


Eh, sì, perché il sorriso basso che fece Mama Rula fu proprio quello di chi pensa che a un povero scemo non si possono raccontare cose nell’arco di tempo chiuso nella tazzina del “nostro” caffé. Ma su questo aveva torto. Ero scemo, sì, perché non sapevo, ma nessuno è mai abbastanza ignorante e scemo sinché ha voglia e tempo di sapere.


“Sai da dove vengo io Gigi?”


“Dall’Africa”, risposi.


“L’Africa è grande. Io vengo da Jima, nella regione di Kaffa, in Etiopia. Ricorda qualcosa il nome di mia regione? Lì coltiviamo tanto caffé, anche quello che voi bevete.Il “vostro” caffé. Ci sono quasi solo contadini a Jima. E tantissimi producono i chicchi di caffé, della coffea arabica, quella che a voi piace tanto. La pianta fa quasi tutto da sola perché clima è caldo, buono, è adatto. I contadini passano l’anno a coltivare, lavorare e spezzarsi la schiena ma, io non lo so perché, alla fine siamo sempre poveri. Eppure voi lo bevete, ne prendete tanto. Lo pagate no? Allora perché noi non abbiamo soldi, non abbiamo nulla? Boh, io non lo so. Quando lo vendiamo a voi, non possiamo mai in contrattare, e accettiamo i pochi soldi che ci danno, perché ci servono”.


Ora mi sentivo quasi in colpa. Ma nemmeno sapevo il motivo perché ne sapevo poco del caffé che bevevo. Forse la cara Mama Rula se ne rese conto. Ne aveva passate tante, ma era sempre buona.


“Eppure, io non lo so, – aggiunse sorridendo e mostrando i suoi denti grandi e bianchi – noi siamo poveri ma cantiamo sempre, siamo sempre felici. Voi avete tutto e siete sempre incazzati”.


Io risi con lei.


Allora mi raccontò la leggenda della scoperta del caffé che si racconta in Africa.


“Il pastore Kaldì portava sempre a pascolare le sue capre. Un giorno queste, brucando come sempre facevano cominciarono a mangiare le foglie e le bacche di una pianta. Era una pianta di caffé. La notte le capre non dormivano ma erano irrequiete e vivaci. Il pastore, che era un buon osservatore, tornò sul prato del pascolo e cercò le piante con le foglie mangiucchiate e vide che erano diverse da quelle di altri pascoli. Provò allora a raccogliere quelle sane e abbrustolì i semi. Poi li macinò è li infuse. Così ha inventato… o a scoperto caffé”.


Poi quel giorno Mama Rula rimase un po’ più a lungo perché aspettava che suo figlio Ualì tornasse dalla fabbrica dove lavorava. Abbiamo parlato dell’Africa e di Kaffa. Poi quando la tazza del suo caffé ormai bevuto da tempo era diventata fredda mi disse:


“Comunque sì, mi piace il vostro caffé. È buono, nero e amaro. Come l’Africa”.


Solo con le parole di Mama Rula avevo percorso in poche ore tutta l’Africa, le potevo dare un odore, un colore, una voce e un paio di occhi. Lo so, si sente che ho sempre avuto un debole per lei. Ma la mia ammirazione sa stare al suo posto, e mi basta aspettarla qui ed essere il servitore che porta un caffé buono, nero e amaro alla regina e ai suoi figli.


 


Ma Mama Rula non è stata la sola a regalarmi la sua storia e quella di un paese.


Per circa sei mesi un ragazzo Siriano venne ad abitare nel bilocale che è proprio sopra al bar. Parlo di cose avvenute almeno quindici anni fa. Si chiamava Tukaram, e viaggiava per studio. Mi raccontava cose bellissime sull’Asia, l’aveva vista quasi tutta, così giovane. Aveva l’aria stanca ed emaciata di un viandante. A casa lo aspettavano una moglie e una figlia. Bravo ragazzo Tukaram. Preso dalla malattia della curiosità dell’altrui vita, attaccatami anche da Mama Rula, gli chiesi se gli piaceva il nostro caffé. Io ormai lo sapevo che la risposta che mi interessava era un’altra. Non volevo sapere se gli piaceva il nostro caffé, anzi non me ne fregava proprio niente. Ma volevo che la storia partisse da lui. Quella era una frase magica.


“Sì, mi piace”, ha detto lui.


“Nel mio paese amiamo così tanto il caffé che ci sono enormi caffettiere sparse per strada. Sul ciglio delle strade ci sono delle grandi caffettiere arabe, come dei monumenti.” Sorrideva perché sapeva che sarei stato sorpreso. Lo ero. E quando sono sorpreso faccio davvero ridere.


Quando parlava non si capiva poi bene quale fosse il suo paese. Iniziava parlando della Siria e poi finiva in Giordania. Saltava dall’Afghanistan all’Egitto come se fossero due passi. A volte temevo addirittura che fosse un giovane imbroglione, un saltimbanco, magari un’australiano così abbronzato da sembrare un’orientale. Eppure, se avessi saputo con certezza che era solo un’imbroglione io avrei finto di credergli ancora, come i bambini che capiscono che forse Babbo Natale non esiste, ma chi se ne frega? Dicono io ci credo lo stesso, non basta la realtà per abbattere un sogno. Io sarei stato servitore anche delle sue bugie.


“Sai che i primi caffé – mi raccontò un giorno –  come luoghi di ritrovo e discussione, anche di politica, nascono in Egitto? E quando gli egiziani vanno in un bayut qahwa loro dicono anche che tipo di zucchero mettere. Lo servono in tazzine piccolissime e ci si possono metter dentro tanti diversi tipi di zucchero. Infatti è strano per me poter scegliere solo tra due o tre tipi qui in Italia. Allora lo bevo… Murrah, amaro. In Siria lo bevo murrah solo ai funerali”.


Eh sì, il caro Tukaram mi disse che loro il caffé lo devono offrire e accettare in tutte le situazioni più importanti, anche quelle luttuose. Ma anche in quelle estremamente felici. Mi disse:


“Per noi offrire il caffé è un obbligo morale e spirituale, legato non tanto all’abitudine quanto alla ritualità. Prima di sposarmi mi sono fatto leggere i fondi del caffé, come quasi tutti i giovani sposi. I fondi dicevano che era bene che sposassi Ina, e l’ho sposata. Quando un amico o un ospite ci offre un caffé, noi rispondiamo daïmé”.


“E che vuol dire? Grazie?” chiesi io.


“Non proprio. È una parola simile al vostro per sempre”.


 


Anche Albeetar, mi ha detto cosa simili. Ma lui l’ho conosciuto almeno dieci anni dopo che il caro Tukaram è tornato nel suo paese. Albeetar è un insegnate Egiziano che per un po’ è venuto qui ogni tanto il pomeriggio. I tempi erano già cambiati. Questo posto già iniziava a piacere anche alle persone dell’università. A quelli che studiano. Chissà poi perché. Io questo locale l’ho fatto restare uguale a se stesso per quarantacinque anni, a parte i lampadari di Mama Rula. Sa che le dico, a volte non è il caso di affannarsi per seguire i gusti della gente. Quelli cambiano, e questo cambiamento ti fa diventare da periferia a centro del mondo, e poi di nuovo baraccopoli. Ma anche quando diventerò di nuovo periferia, e la gente tornerà nei ristoranti di lusso, io spero sempre che persone come Mama Rula e Tukaram continuino a venire a raccontarmi della loro vita. Ci vuol poco in fondo come vedi a raccontarti di una vita. Basta dire come si beve un semplice caffé. E anche persone come Albeetar. Ah, sì, ma io le stavo dicendo di Albeetar. Lui è Egiziano, e pensa un po’, anche nel suo palese si produce caffé. Ma Albeetar mi ha detto sempre che il suo unico modo di pensare al caffé è quello italiano.


“Non esiste una mia visione egiziana del caffé. Anzi, sai che ti dico? Non esiste una mia visione Egiziana di nulla”. Il caro Albeetar per diversi anni ha rifiutato tutto del suo paese.


Da giovane lui era innamorato di una donna, di una ragazzina a dire la verità. E cresceva nell’idea di volerla sposare. Ma lei apparteneva ad un’altra estrazione sociale, più alta, ed era difficile per lui, figlio di contadini poter aspirare ad avere la giovinetta come consorte. Allora Albeetar decise di lavorare sodo per poter essere degno di lei.


Partì per Falluja per andare all’università; il povero Albeetar ha lavorato davvero sodo per mantenersi gli studi. Poi un giorno, dopo cinque anni di sacrifici, mani doloranti per il lavoro e notti insonni per lo studio tornò nella sua piccola regione, della quale, abbia pazienza ma non ricordo il nome. Ma quale fu la triste sorpresa nel vedere che la sua amata era andata in sposa ad un altro! Il povero Albeetar decise di partire per l’Italia, completare i suoi studi e dimenticare il suo paese, legato solo alla fatica e al ricordo dell’amore perduto.


Beh, io ora dico che spero di cuore un giorno vorrà parlarmi del suo caffé egiziano; Attenderò per sempre quel giorno, perché quando accadrà vorrà dire che un uomo si è riconciliato col suo passato… e anche con i suoi fallimenti.


 


Man mano ho iniziato ad annotare tutte queste piccole storie. Come le h detto io da giovane ero un garzone in un bar. Non avevo voglia di studiare, ma non perchè non mi piacesse. Non amavo confrontarmi con il figlio del medico o dell’avvocato, ché tanto studio o non studio, quelli erano sempre più bravi di me. Ma mi piaceva leggere e osservare. E in un bar se ne osservano di cose. Forse avrei dovuto fare lo scrittore. Forse un giorno, quando non ci sarò più, qualcuno dovrebbe pubblicarli i miei appunti sulle persone normali e straordinarie che mi hanno fatto percorrere quei diecimila chilometri solo restando fermo qui.


 


Mi lasci rubare un’altra goccia del suo tempo raccontandole di Lucas. In cambio le offro un’altra goccia di caffé.


Lucas, pace all’anima sua. Il povero Lucas è morto in un incidente in fabbrica. Era messicano ed è venuto qui. Faceva l’operaio nella fabbrica dove lavoravano i figli di Mama Rula, e ne abbiamo fatti di discorsi di politica, io e lui. Tipo sanguigno lui, pareva arrabbiarsi ad ogni cosa che diceva.


Un giorno gli chiesi se lui aveva mia visto una delle tante piantagioni del Messico. Anche quella volta mi rispose ché sembrava davvero incazzato. Ma probabilmente lo era.


“Se ho mai visto una piantagione? Per molti indios del Messico il caffé è sopravvivenza, è vita, persino dannazione. Io ci sono cresciuto in uno dei quei paradisi infernali”.


Ah, il caro Lucas. Un poeta rabbioso che ha imparato l’italiano solo per esprimere anche qui le sue idee e le sue parole talvolta deliranti, talvolta troppo sagge per essere credute. Insomma, un poeta maledetto. Maledettissimo.


“Ci sono più di trecentomila produttori, quasi tutti piccoli coltivatori indigeni.


E sapessi quanti dal caffé sono stati portati al suicidio. Persino il mio povero nonno. Dopo le ore di lavoro ingrato e così faticoso che per me a confronto la fabbrica è un paradiso, doveva vedersela anche con quei bastardi dei coyotes”.


“Con i coyoti?”


“I coyotes! Sono degli speculatori che approfittano della mancanza di soldi in contanti per scroccarti prezzi infimi e vendere agli esportatori. Mio fratello, ancora in Messico ora fa parte di uno dei caracoles, una specie di municipio indigeno. I miei compaesani hanno finalmente capito che per evitare altre infamie bisogna potenziare l’autonomia economica delle comunità imponendo un prezzo equo al caffé. Promuovere la cultura del caffé fatto da noi in maniera dignitosa. Ecco sì, la dignità di chi lavora.


Io ricordo mio nonno. Prima che la rovina si abbattesse sulla sua sorte, eravamo felici. Le piante fresche, ancora non raccolte hanno un odore diverso, completamente diverso da quello macinato ed essiccato. È l’odore che sento ogni volta che arrivo in Messico e che mi fa tornare bambino. Non torno più bambino da almeno cinque anni ormai. Bisogna avere i soldi per farlo. Mia nonna fabbricava e ricamava i sacchi per mettere il caffé raccolto, assieme alle sue amiche. Mia madre imparava da lei, per gioco. Ora mio fratello ha preso il terreno di mio nonno e sua moglie, assieme a mia madre e ad altre donne della comunità hanno messo su una piccola bottega e commerciano bluse, gonne, camicie. Donne come mia madre lavoreranno nonostante le malattie e la stanchezza sino alla fine dei loro giorni, ma a quanto dicono le lettere stentate di mio fratello le cose iniziano a cambiare, forse in meglio. Finalmente iniziano a capire qual è la sola via per salvarsi: non svendersi, mai! Nemmeno nei momenti più tragici. Ogni volta che un agricoltore messicano svende il suo lavoro la ballata degli impiccati, delle anime di mio nonno e dei suicidi come lui, riprende con un cappio ancora più stretto”. Il caro Lucas è morto in una manifestazione sindacale. Lui non si è voluto svendere, non ha voluto vedere arrivare la ballata degli impiccati.


Credo che serberò in me, per tutta la vita, la scena che le parole illuminate di Lucas mi suggerirono. Una scia di anime di impiccati che torna ogni volta che un lavoratore non paga col giusto prezzo ogni sua goccia di sudore.


Ed ecco che con Lucas, ho raggiunto i miei mille milioni di chilometri. Regalati da passanti, da chi non aveva da darmi nulla, se non un briciolo del suo tempo e un mozzicone della sua storia, che io ho raccolto con avarizia come un fumatore in astinenza con una cicca ancora fumante. Io continuerò a non muovermi da qui. Attenderò sempre una regina africana, un professore esule, un poeta indios; resterò qui, in attesa dei miei nobili viandanti, ai quali poter fare da servitore, in cambio della loro storia.


 

4 Commenti a “Il servo dei viandanti”

  1. fabio dice:

    Complimenti Sabrina. Ho seguito con estremo interesse le storie che ci hai raccontato e che ruotano attorno ad un piccolissimo chicco di caffè, ne ho sentito perfino il profumo! ^_^

  2. Andrea dice:

    Ciao Sabrina, grazie per avercelo fatto leggere. Bello lo stile semplice, pacato, che pero’ va avanti inesorabile come un treno. Affascinanti le tre storie che racconti, come pure la figura del narratore.

  3. oroboros dice:

    Le tue storie sono belle, tanto che ti stancherai presto di scriverle, perché hanno raggiunto una completezza che ha bisogno di passare oltre. Dal senso dell’emozione… a quello del significato profondo dell’esistenza che la forma, quell’emozione. Un augurio che capirai più avanti.

  4. Chris84 dice:

    Bello, bello, bello! Si legge che è un piacere! Mi ha fatto pensare a Marquez!

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