Solo Storie…

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Non più di 38 minuti

Pubblicato da sabrina il 20 agosto 2007

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Non più di 38 minuti


 


Guardare dal finestrino di un treno fermo, come guardare una scena di un film senza audio. I protagonisti sono i passanti, che vivono ogni quotidiano addio dimentichi che qualcuno, da qualche parte, li osserva.


Gente che guarda con gli occhi lucidi i propri cari che partono, gente che aspetta il giorno di poter prendere quel treno, che aspetta il coraggio. Coraggiosi cosa poi? Della liberà forse? Tutto per l’inutile attesa di andare via e aspettando di sapere dove, resta a guardare i binari fumando una sigaretta.


L’uomo che fuma in attesa di salire che si chiede dove andrà mai quella ragazza bionda e sola che sale sul treno, più vulnerabile che mai.


Un’immagine della vita, null’altro. La vita stessa. C’è che guarda da fuori aspettando di fare una scelta, avere una destinazione e salire. C’è chi va via con rammarico, con la voglia di tornare.


C’è chi sale e non ha una meta. Ha sentito il richiamo e va.


 


Ecco che il mio treno parte nell’odore delle sette del mattino. L’odore di caffè e di ulivi. Fuori tutto scorre veloce e dentro sembra tutto fermo e in silenzio. Ma siamo noi a muoverci, in teoria lo sanno tutti. In teoria.


Guardar fuori dal finestrino non sempre piace. Ad alcuni, vedendo la corsa delle cose fuori dal treno viene un senso di capogiro, nausea. Non possono fermare le cose che vedono scorrere e allontanarsi e questo provoca profondo malessere.


Ad altri piace, diverte. Si distendono nel vedere quel movimento lineare. Come se la corsa delle cose che ci si lascia dietro fosse la felice attesa di quelle che verranno dopo, o che forse non vedremo mai. Ma l’importante è viverne l’attesa.


Altri non ci fanno affatto caso, guardano quello che sta fuori senza vedere. Pensano ad altro e se gli si chiede cosa è passato davanti ai loro occhi non lo sanno ripetere.


E scorrono fuori paesaggi in cui il percorso umano è presente nelle radici degli alberi allineati, nelle forme regolari dei campi, nei muretti a secco, nelle case bianche, dove si trovano storie lunghe il tempo di intere vite, che lasciano quelle tracce che noi vediamo per pochi secondi, pochi attimi.


Nel verde non troppo scuro del paesaggio che mi scorre davanti spunta una fiammata improvvisa di rosso. Un albero di loto, di un colore così vivace da dare malinconia, di foglie d’autunno, di foglie stanche.


E fa passare lo sguardo sulla casa alle sue spalle e l’orticello antistante. Forse una semplice rimessa, dato l’aspetto vecchio e decadente. Forse è solo un deposito degli attrezzi, oppure… dentro, dietro quella finestra piena di spifferi, si nasconde qualcosa, si narra una storia.


Un bambino che sta guardando questo treno passare. Poi il bambino torna ad osservare quell’albero di loto che lo affascina tanto da un po’ di tempo a questa parte. Ormai ha 12 anni, e sembra stia crescendo, cambiando. È sempre stato molto vivace. Sino a qualche tempo fa passava un po’ sbuffando una parte dei suoi pomeriggi facendo i compiti, nell’attesa impaziente di andare a giocare a pallone con i suoi amici oppure di guardare i cartoni alla tele.


Ma da un po’ di tempo questo non succede più e sua madre si preoccupa per lui.


Dopo aver studiato, percorre a piedi o con la sua bici i circa 2 chilometri da casa sua alla campagna dei suoi genitori e a quella casetta ereditata dal nonno. Va li e sta da solo. A volte torna a casa con qualche disegno, a volte si porta un fumetto da leggere. Ma perché improvvisamente vive questa solitudine che sino a poco tempo prima non lo affascinava affatto?


Il ragazzino passa ore a guardare quel loto che è stato li per anni, ma solo quest’anno ha fatto caso alla sua diversità.


Perchè, si chiede, altri alberi così vicini sono tutti sempre verdi anche ora che inizia a fare freddo e quello invece ha le foglie che sono diventate dello stesso colore del fuoco del camino che tra un po’ avrebbero acceso? Perché quelle foglie si appoggiano al vento per farsi portare via?


Quella diversità lo incanta e turba profondamente allo stesso tempo.


Per ogni raffica di vento che passa dietro i vetri vede quelle foglie danzare tremanti e il fiato si ferma finché non vede che qualcuna cade, altre continuano a tenere duro.


I suoi amici lo cercano a casa sua e chiedono a sua madre di lui e se può andare con loro a giocare a pallone. La mamma dice che suo figlio è in campagna. Vede tutti gli altri ragazzini continuare a fare i giochi di sempre con gli amici di sempre. Perché suo figlio no?


Aveva provato anche a chiederglielo, ma lui le sorrideva docilmente e le aveva detto con una malinconia che ad una madre difficilmente sfugge “mi va di andare là. Per un po’ voglio giocare da solo”. Una sera, tornato dalla campagna e seduto riluttante davanti alla cena aveva chiesto “Mamma, perché alcuni alberi perdono le foglie e altri no?”. Lei per qualche motivo aveva capito che suo figlio, dallo sguardo con cui aveva posto la domanda non voleva una risposta scientifica, ma qualcosa di diverso, qualcosa di più.


“Perché alcuni alberi sono un po’ più forti per natura e non hanno bisogno di liberarsi delle foglie che non possono più nutrire”.


“Ma anche gli alberi poi muoiono?” Dopo quella domanda la mamma fu davvero convinta che qualcosa di diverso dalla botanica si nascondeva dietro le domande del ragazzino.


“La maggior parte vivono per molti anni, altri sono più deboli e muoiono prima. Alcuni anche molto giovani”.


Il ragazzino non disse più nulla. E quando continuava le sue visite di solitudine alla campagna e al loto, la mamma andò a parlare con altre mamme dei suoi compagni di scuola. Chiese alle altre mamme se i loro figli avessero parlato di eventuali litigi col suo piccolo, ma non seppe nulla.


In compenso fu chiamata dalla professoressa di italiano, che passava molte ore di lezione con la classe di suo figlio.


“Lui ha cambiato atteggiamento. A scuola continua a rendere, ma è così silenzioso. Non è più irrequieto come prima, sembra quasi triste. Da quando è morto il loro compagno….”


“Chi, chiese la mamma sbigottita, quello che lo scorso fine anno si era ammalato di leucemia?”


“Sì. Noi avevamo detto ai compagni che presto sarebbe guarito. Non volevamo sconvolgerli dall’entità della reale gravità della malattia e abbiamo detto loro che dopo l’estate sarebbe tornato. Ma il poverino non ha passato l’estate.”


E così è stata la realtà a sconvolgere qualcuno di loro.


 


La mamma all’inizio non chiese più nulla a suo figlio. Si limitò a guardare da lontano e con discrezione la dinamica di quelle visite malinconiche a quell’albero strano, che perdeva foglie tra mille altri sempre forti e verdi.


Un pomeriggio però raggiunse il ragazzino al suo malinconico rifugio.


Lo trovò seduto accanto al loto, quasi a volerlo accarezzare. Sembrava volesse dar coraggio alla natura stanca.


Lei gli si sedette accanto.


“lo sai come fa il nostro orto a dare i suoi frutti ogni anno?” Lui la guardò in silenzio, come chi attende una risposta. “Grazie al concime. E sai che quelle foglie servono proprio a concimare la terra? Quegli ulivi così grandi si mantengono così grazie alle foglie che cadono da questo albero”.


Il ragazzino non rispose, voleva che la mamma continuasse a parlargli. Voleva sentire ancora parlare da chi gli dava la vita ogni giorno, del perché delle foglie morte.


 


Forse era questa la storia che immaginava il vecchietto con la barba incolta che un po’ più in là guardava gli alberi correre fuori. E aveva gli occhi malinconici, ma non di chi è triste; solo di chi guarda un passato che ogni tanto finge di tornare, il tempo di sentirne l’odore, e poi via.


Il bambino che è in braccio a lui, e che lo chiama nonno, ha sonno ma non riesce a dormire.


“Me la racconti la storia del Guriuz, di quando sei andato in quel posto lontano?”


Il vecchio ride, leggermente. “Ma non era poi così lontano quel posto. Il posto si chiama Friuli, e i Guriuz ci sono davvero”. Bisbiglia il vecchio. Ma quanto è bella la sua voce. Come quella del tempo, quando ti fermi ad ascoltarlo senza paura di quello che ha da dire.


Con la voce del tempo inizia la sua storia.


“Riccardo era un bambino studioso e diligente; a scuola andava molto bene, sapeva sempre tutto… forse anche troppo dato che dopo aver studiato la lezione passava il tempo libero ad approfondire quanto aveva studiato ed arrivava a sapere di più degli stessi professori.


Se doveva studiare la Rivoluzione Francese approfondiva cercando su internet tutti i quadri che raffiguravano quegli eventi; se doveva leggere un brano di due paginette lui leggeva tutto il libro da cui il brano era tratto e così via.


Ma non si limitava a studiare! Tre giorni a settimana andava a scuola di karate, suonava il piano forte e la sera leggeva o continuava a fare ricerche su internet.


Le maestre si sentivano in imbarazzo quando lo interrogavano perché a volte sapeva addirittura più di loro.


I suoi genitori, voi penserete, erano fieri di lui, orgogliosissimi di quanto fosse bravo il loro figlio! Infatti erano felici di poter dire ai colleghi di lavoro dei bei voti che portava a casa e di quanto fosse in gamba, ma la sua mamma a dire il vero non poteva passare molto tempo con lui e chiedersi se alla sua vita mancasse qualcosa. Lei viaggiava spesso per lavoro e quando non viaggiava tornava abbastanza tardi. Quello che passava più tempo col piccolo Riccardo era suo nonno Peppone e lui… non sempre era del tutto felice della vita che il suo nipotino preferito conduceva.


Egli infatti aveva condotto un’infanzia del tutto diversa. Non era stato il primo della classe e a dire il vero non era andato oltre la terza media perché la sua famiglia non poté permettersi di mandarlo a scuola. Non aveva avuto tanti impegni come suo nipote: niente karate, niente ricerche sul computer, niente recite a scuola. Appena compiuti 16 anni nonno Peppone dovette andare a lavorare ma la sua infanzia la visse nella libertà spensierata dei giochi tra i boschi e sulle montagne.


Anche se era molto fiero della bravura del suo nipotino, nonno Peppone era a volte dispiaciuto nel vedere il ragazzino sempre così serio e troppo ligio al dovere per la sua età. E ciò che più lo preoccupava era il fatto che mai, dico mai in vita sua, il piccolo Riccardo aveva creduto alle favole o all’esistenza del piccolo mondo degli gnomi e degli elfi.


 


Nonno Peppone veniva ascoltato con interesse dai nipotini più piccoli quando raccontava delle sue avventure vissute da bambino; era infatti convinto che un bimbo non può essere completamente felice se almeno una volta non si è lasciato trasportare da una storia magica, e che un adulto non sarà mai sereno se non può ricordare la serenità del primo giorno in cui ha creduto ad una favola.


 


Ma Riccardo era troppo preso dalle cose dimostrate dalla storia e dai manuali di scienza per interessarsi di ciò che non si poteva sempre vedere e spiegare.


Allora il nonno Peppone, che era uno  che non si lasciava abbattere da niente, prese una decisione. Una mattina dopo aver pensato tutta la notte pensando a come fare per rapire la fantasia di suo nipote disse:


- Riccardo crede solo a ciò che legge e che vede? Bene, allora andrò a trovare ciò che dimostra l’esistenza degli elfi.


Così partì verso il Friuli. La sua terra di origine, dicendo che andava un paio di giorni a trovare un amico con cui aveva lavorato in miniera. In realtà voleva tornare nei boschi del Friuli per ritrovare  il suo amico Guriuz.


 


I Guriuz sono degli elfi che abitano nei boschi o tra le rocce Friulane e che si possono intravedere, se si fa attenzione, nei periodi autunnali, perché è quella la stagione che preferiscono.


Quando Peppone aveva nove anni lo trovò nella credenza di casa sua, che rubava un pezzo di formaggio.


Il piccolo omino cercò di fuggir via, ma rimase impigliato in un chiodo che sporgeva dal vecchio mobile che stava derubando.


Peppone, allora bambino, era già di indole molto buona e curiosa, quindi non gli fece del male e non chiamò i grandi perché altrimenti ne avrebbero fatto chissà cosa! Allora gli chiese:


- E tu chi sei, piccolo essere?


Ma quello non rispose.


- Hai fame?


Silenzio…..


Il piccolo Peppone pensò che forse l’esserino non capiva il linguaggio degli umani, ma capendo che aveva fame e non era cattivo gli riempì la piccola bisaccia di tela di formaggio e lo lasciò andar via.


Qualche giorno dopo, camminando nel bosco sentì un fruscio alle sue spalle. Si girò di scatto e vide sbucare da dietro un frassino una donnina alta non più di un metro e dieci. Però era davvero molto bella. Aveva capelli biondi e lunghi e occhi quasi trasparenti. Il suo vestitino era verde e aveva i polsi adorni con dei fiori di campo.


Lei gli sorrise e lui non ebbe paura.


-Chi sei? – lui le chiese.


- Sono una Diade, un elfo del bosco e sono qui a nome del piccolo Guriuz che hai incontrato ieri.


- Ah, si, mi ricordo di lui.


- I guriuz non sono cattivi, rubacchiano dalle case per mangiare ma non fanno del male e sono benevoli. Se non ti ha risposto è perché loro non parlano quasi mai, ma capiva la tua lingua.


Allora la bella Diade gli diede un pennino fatto di foglie di pino e frassino come regalo da parte del Guriuz.


 


Peppone non fece vedere a nessuno quella penna; non era uno sbruffone e non gli piaceva vantarsi della cose incredibili che gli accadevano. Sino all’età di 27-28 anni andava sempre nei boschi e a dire il vero non di rado gli capitava di incontrare strani esseri quali i così detti Mainteillons, Salbanelli e via dicendo. Anche quando una volta andò in Francia vide un elfo che dalle sue parti non aveva mai visto; era un esserino davvero strano a vedersi la cui specie scoprì essere Corred.


Dunque per lui gli abitanti del piccolo mondo erano cose tanto incredibili quanto, per così dire….quotidiane! Ecco perché non le raccontava in giro. Poi un giorno si sposò ed ebbe dei figli e le nuove preoccupazioni legate alla famiglia, al mantenere i figli e la serenità familiare lo avevano un po’ allontanato dal suo piccolo mondo. Solo quando i suoi figli iniziarono ad essere un po’ più grandi e lui un po’ più vecchio ebbe di nuovo il bisogno di raccontare e di essere ascoltato.


Raccontando le sue avventure magiche si rendeva conto che era molto più bello regalarle agli altri di quanto forse non fosse stato l’averle vissute.


 


Una volta arrivato in Friuli lasciò la sua roba nella vecchia casa della sua infanzia e si inoltrò nei boschi per cercare in lungo e in largo il caro vecchio Guriuz. Ma nonostante conoscesse quei boschi come le sue tasche e si fosse messo sulle rocce in silenzio ad aspettare…niente, il Guriuz non si faceva vedere.


Dopo un’intera giornata tornò mogio mogio alla sua vecchia casa, ma sulla strada incontrò uno strano e bellissimo essere dalla parvenza familiare. Ma sì, era proprio lei, la Diade che aveva incontrato tanti anni prima e che gli aveva regalato la penna di frassino e pino!


- Continui a inoltrarti nel bosco per buone cause…..guarda nel vecchio stipite della tua vecchia casa – disse la Diade col vestitino verde.


Nonno Peppone fece proprio così. Fiducioso di quanto l’elfetto gli aveva consigliato andò ad aprire il vecchio mobile e rimase incredulo vedendo che tra i la polvere e qualche scorza di formaggio riposava il Guriuz. Fu così felice che lo svegliò di soprassalto facendogli prendere un bello spavento!


- Amico Guriuz, -disse- mi devi aiutare! Devi raccontare a mio nipote Riccardo di te e del piccolo popolo, o lui non sarà mai un bimbo felice! Posso portarti con me così che lui ti possa vedere? Poi giuro che ti riporto qui!


 


Ma il piccolo essere lo guardava attonito e …in silenzio.


Già accidenti! Il silenzio. Non aveva considerato il fatto che il Guriuz non parla, quasi mai!


Che fare allora? Si mise il piccolo amico sulle spalle e tornò nel bosco in cerca di una soluzione. E di nuovo si presentò davanti ai suoi occhi la bella e bionda Diade con un saggio consiglio.


- Forse tuo nipote crederebbe se vedesse un bel libro, scritto dal Guriuz, in cui si descrive la sua storia e le tue avventure!


- Questa sì che è un’idea! Riccardo pare creda solo ai libri!


- Ma noi possiamo scrivere solo con le penne dei boschi!


- Io ho sempre con me quella che tu mi regalasti tanti anni fa! – Rispose entusiasta il caro Peppone.


La Diade sorrise.


- Se non l’hai mai mostrata a nessuno è possibile che la tua sia ancora magica e che scriva ancora.


- Infatti non l’ho mai fatta vedere a nessuno, e non l’ho mai usata per scrivere per timore che si rovinasse.


Anche stavolta la modestia e il buon cuore di Peppone lo avevano portato a qualcosa di buono.


Il Guriuz iniziò a scrivere e disegnare su dei fogli di carta di foglie di frassino tutta la sua storia e la storia della sua stirpe sino al giorno dell’incontro con Peppone.


Il vecchietto non sapeva come ringraziare i due strani amici.


- Ora tutto dipende da tuo nipote – disse la Diade. Ma Peppone era così felice da non riflettere sul significato di questa frase.


Tornò tutto gongolante dalla sua famiglia e corse accanto al camino dove Riccardo, felice di riabbracciare il nonno, interruppe di fare i compiti. Gli diede in mano lo strano libro e disse


- Ora leggi questo e vediamo se non credi alle favole.


Riccardo era felice di ricevere un libro in regalo, ma aprendolo non lesse nulla. Tante pagine tutte bianche. Eppure il nonno ci leggeva su un mucchio di cose, vedeva le lettere, le virgole, i punti e le illustrazioni. Ma Riccardo no.


Peppone era davvero dispiaciuto. Si accasciò sul divano pensando che il viaggio non fosse servito a nulla.


Ma il nipotino gli andò vicino e disse:


- Nonno, è la prima volta che ti allontani per così tanto tempo. Temevo non tornassi più. Temevo non potessi più chiedermi di raccontare le tue storie. Ma per fortuna sei tornato. Ora me ne racconti una?


- Ma come, non vuoi continuare a studiare? – chiese Peppone incredulo.


- I compiti li faccio dopo. Ora voglio una favola.


- Be, -rispose il nonno- quand’è così….- Si mise il nipotino sulle ginocchia e iniziò


…C’era una volta…


 


Quando Peppone ebbe finito di raccontare Riccardo rimase ancora lì, in silenzio con gli occhi spalancati dalla curiosità per qualche minuto. Poi provò a riaprire il libro di fogli di frassino e….MAGIA! riusciva a leggere e vedere ciò che sino ad un attimo prima non vedeva.


Ora poteva godere del regalo fattogli dal nonno, dalla Diade e dal Guriuz, ma solo ora che, per la prima volta il piccolo Riccardo ha creduto in una favola.


 


 


 


Le regole della diffidenza e dell’estraneo anonimato, della prudenza forse, dell’indifferenza senza dubbio, vengono quasi del tutto regolarmente infrante nei lunghi viaggi in treno. Ho calcolato che, nel mio paese, approssimativamente le persona non sanno stare per più di 38 minuti sedute frontalmente senza iniziare a comunicare. Ed è sconvolgente pensare al senso di naturalezza che si prova quando si inizia a parlare con un perfetto “estraneo” che racconta cose della sua vita, anche personali e talvolta dolorose o delicate. Confessioni che non si fanno a persone di famiglia si raccontano a persone di cui forse non si saprà mai il nome e che non si rivedranno mai più.


Chi viaggia su un treno non può avere fretta. Per una volta non corriamo. È il treno che corre e noi possiamo che stare fermi ed aspettare che la corsa si fermi.


E tante ore non possono restar vuote, così che il racconto di una vita diventa prezioso. Il solo posto in cui, come in un romanzo, ogni vita è sempre degna di essere raccontata. Almeno ogni 38 minuti.


Dopo non più di 38 minuti di silenzio, intervallato da qualche parola di cortesia o circostanza la donna di fronte a me trova il corridoio che porta dalle parole al racconto.


 


- Io non sopporto i viaggi troppo lunghi. Non so stare ferma, devo muovermi.


Ha gli occhi vispi e un po’ arrossati dopo la lunga lettura di un libro di un filosofo russo.


Si accorge della disposizione delle altre tre persone sedute ad ascoltare. Io sorrido con gli occhi di un bambino che capisce che gli si sta per raccontare qualcosa, ed incoraggia il cantastorie ad andare avanti.


- Ma per i figli, si sa, si fa questo ed altro. I miei ragazzi vivono tutti in Toscana, tranne la piccola che lavora in Abruzzo e tra un po’ si sposa. Io vado da lei perché vuole che stia con lei a scegliere il vestito da sposa.


Non si fida nemmeno del giudizio di sua sorella più grande. Pensa che è andata in Abruzzo proprio per stare più vicina a me. È quella che vedo più spesso.


A me dispiace che siano loro a venire a trovarmi;dovrebbero scappare per il fine settimana perché lavorano e fare un viaggio così lungo per due giorni… preferisco sopportare io sei ore di attesa.


Loro mi chiedono di continuo di andare da loro, di prendermi una casa su, ma io al mio paesino non ci rinuncio. Ho vissuto sempre li dove ho le mie attività, la mia vita. Io lì non mi annoio mai, sono sempre fuori di casa.


La signora fa una risata più sonora e più lunga di quelle che interrompono di tanto in tanto le sue frasi.


- Poi si preoccupano perché chiamano a casa e non mi trovano, e quando provano sul cellulare e lo trovano spento iniziano a chiamarsi tra di loro. Sono troppo apprensivi! Se io sono in parrocchia o al centro di assistenza agli anziani non posso rispondere al telefono e allora lo tengo spento!


Il racconto attira quasi l’invidia di chi ascolta.


- Anche la buon’anima di mio marito era così! Pensa che quando era vivo io non sono mai andata a pagare una bolletta, non ho mai guidato, non ho mai fatto commissioni. Quando è morto ero come una bambina uscita di casa per la prima volta.


Certo è stato un matrimonio con i suoi alti e bassi proprio perché lui era troppo geloso. Daltronde ci toglievamo 18 anni. Quando ci siamo sposati era davvero come un secondo padre. Ma ci siamo amati tanto! Nonostante i problemi di ogni matrimonio.


Chi lo avrebbe mai detto che me lo avrebbero portato via dopo 42 anni. In soli sette mesi, tutto finito.


Ora pausa non la fa per ridere, ma per guardare fuori, lontano, inseguendo un ricordo da far uscire o chiudendo strette le lacrime per non lasciarle andare. Allora si attende in silenzio senza chieder nulla.


Un cantastorie non va manovrato, perché la storia prende vita e cresce da sé.


- La fede mi ha aiutata a superare quel momento. Ora ho un’altra vita. Sono autonoma, non sto mai in casa. Mi diverto tanto e i miei amici quando parto per andare dai miei figli mi chiamano per accertarsi del giorno del mio ritorno.


Ma anche i miei figli e i miei nipoti devono avere la loro parte.


Mi mancano, ma non mi allontanerei mai dai posti dove ho vissuto la vita. Li avrei la gioia dei miei figli, ma poi che farei durante il giorno? Sono tranquilla perché loro sono vicini e sono contenta quando so che si vedono e passano tempo insieme. Io so che parlano di me e mi sento più vicina a loro.


Per me il solo problema arriva quando la sera devo tornare a casa.


Pausa.


Il tono della storia cambia.


- Appena metto la chiave nella toppa dalla porta sento un forte freddo. Non mi sono mai abituata alla grandezza di quella casa vuota.


Non è perché ho paura. Ma è l’unica cosa che mi ricorda di essere rimasta sola.


Chi lo avrebbe mai detto che sarei rimasta sola, dopo cinque figli, un marito e tre nipoti. Mi dico sempre che devo venderla e prenderne una più piccola. La casa dove io vivo era abituata ad un sacco di rumori, via vai, disordine. Ora è solo vuota.


Adesso ho un’altra vita. Per carità di Dio, non mi voglio lamentare; ho cinque figli sistemati, delle nuore d’oro e dei nipotini che mi vogliono bene. Ma ora ho una vita diversa da quella di dieci anni fa ed è difficile viverla nella casa di un’altra donna, con la sua famiglia, con un’altra vita.


 


Lo sguardo è freddo. Gli occhi della donna nel sedile sul lato del corridoio è algido sotto le lenti opache degli occhiali. E vede che io e la ragazza bionda e silenziosa accanto a me abbiamo gli occhi bassi e lucidi. Come quelli della signora che ha appena terminato di rivivere la sua vita.


Parla a voce bassa e soffusa, qualcuno penserebbe spenta.


Non ho più vent’anni…– dice –  da più di vent’anni. Era vero quando da ragazza mi dicevano che col tempo si impara a convivere col mondo. Era vero quando mi dicevano che sarei diventata saggia e che tante cose le avrei accettate così come sono. Anche la morte ora è ragionevolmente una parte della vita. Anche la malattia. Non mi dicevano che la saggezza sarebbe diventato cinismo. O stanchezza. O apatia. Ma sono molto più serena ora rispetto a quando – si rivolge a me e alla ragazza bionda – avevo la vostra età. Cambia così tanto la vita quando cambiano le aspettative!


La vita è come un giardino. Se si nutrono i germogli con l’estratto di humus, forte, potente, loro si aspettano quello che la terra non può dare… e muoiono presto.


Mi convinsero che sulle cose, io, ci pensavo un po’ troppo, che rischiavo di farmi del male, anche fisico, se avessi continuato a rimuginare su tutto ciò che sembrava non andasse. E invece, mi dissero, “vedrai che forse il mondo non è come lo vuoi, ma è così e basta”. Ora ho quasi cinquant’anni e tutto è diverso da allora. Ora non mi chiedo da dove vengono le cose che sono nel mio piatto e che sto per mangiare.


Comunque sia stata uccisa e dovunque sia stata allevata quella mucca, ormai è morta. Era in un pacchetto o su o in una scatola, ora è nel mio piatto.


Col tempo la vita mi ha fatto capire che degli altri non ci si può fidare. A nessuno importa davvero di me. Da ragazza mi preoccupavo troppo di ciò che pensavano gli altri. Mi ci sono voluti cinque anni di psicanalisi per farmi capire che la cosa più importante ero io. Noi siamo i soli deputati alla cura, alla salvaguardia, alla tutela di noi stessi. Nessun genitore, nessun marito o figlio o fidanzato, solo noi. Mi fecero capire che il tempo che passa è l’emblema di noi stessi e non ha senso pensare a cosa è giusto o sbagliato perché tanto le cose vanno come devono andare.


Avevo poco più di vent’anni e le domande che avrei fatto al mondo e la rabbia delle risposte mancate mi rendeva vulnerabile.


Ora sono forte, ora sono adulta.


Le due signore di mezza età non sembrano essere d’accordo, e infatti iniziano una discussione che io, e forse nemmeno la sconosciuta di fronte a me, possiamo capire. Ma la donna con gli occhiali opachi sembra pensare ad altro mentre parla, e ogni tanto, forse mi sbaglio, ma ogni tanto pare guardare me con la coda dell’occhio. La mia sciarpa della pace, la mia spilla di Emergency, forse anche la fedina al mio dito. Non ci giurerei, ma lo forse lo fa. E chissà cosa pensa… Cosa aggiunge al suo saggio discorso, senza proferir parola…


 


Lo dico bisbigliando, anzi mi limito a pensarlo, in modo che io stessa non possa sentirmi: potessi tornare indietro, non so se mi farei convincere di nuovo, non so se accetterei di diventare così forte, saggia… cinica. Non so se crescerei.


 


Non piangere, non alzare la voce se sei arrabbiata, mantieni la calma. Rifletti sulle cose, conta sino a cento e troverai una spiegazione a tutto. Ecco uno dei primi comandamenti che l’essere adulti comporta… o dovrebbe comportare.


Io, per un giorno, vorrei che chi non ottiene un perché riesca a piangere come un bambino che viene zittito “perché non capisce”, e vorrei che chi ha paura e non ha voce, riuscisse ad urlare. Vorrei che tutti gli adolescenti ormai adulti, calmi e saggi, riescano per un giorno, di nuovo, a provare la rabbia di un tempo, e urlare d’ira, seppur simbolo do debolezza.


Se avessi ancora sogni, come nei miei vent’anni, chiederei al mondo di provare qualcosa di forte, di non farsi scivolare le cose addosso. Indosserei i simboli della pace, dell’impegno, dell’amore… e forse non me li lascerei strappar via dall’età e dalla psicanalisi.


Ma non posso tornare indietro, e come questo treno devo andare avanti.


Compagno di banco, idealista di un tempo, ti chiederei di litigare di nuovo per le nostre idee diverse, eppure così uguali. Ti chiederei di slacciarti la cravatta che oggi ti soffoca e gridare di nuovo per ciò in cui credevi. Io sarei disposta a togliermi questi occhiali opachi e mostrarti che sto piangendo anch’io.


Amica che ho perso, ti chiederei di piangere un giorno ricordando le ore passate assieme; piangi e dimmi che il ricordo ti da ancora un’emozione.


Sognatore di un tempo, che hai perso quell’incanto che condividevamo, ti chiederei solo un minuto di senso di colpa.


Uomo che più non mi ami, ti chiederei, almeno, di odiarmi.


 


Sono sicura che per un attimo la signora dagli occhi scuri abbia guardato me e la ragazza bionda di fronte a me. Anche se io e lei non abbiamo nulla in comune, lei trova qualcosa che ci rende uguali.


E, ne sono certa, per un attimo ha sorriso. E forse ha pianto un secondo dopo.


 


 


Taccio alla fine del racconto. Sorrido alla donna di mezza età, con gli occhi lucidi. Fingo di non vedere gli occhi lucidi dell’altra.


Mi rendo conto che la vita viaggia veloce come questo treno, ed è una mistura tra la sua corsa, che non dipende da noi, e la nostra scelta responsabile di scendere a una stazione piuttosto che ad un’altra.


Guardo anch’io fuori dal finestrino, e mentre la terra scorre all’imbrunire la mia attenzione si sposta verso il riflesso sul vetro.


Osservo attraverso quel vetro, con maggiore attenzione la ragazza bionda, con gli occhi bassi. È giovane. Bella.


Così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza, con la sua nuvola di dubbi e di bellezza.


 


Angelica guardava dal finestrino di quel treno che correva. Non sentiva suoni provenire da fuori, nessuna voce dal corridoio ne dai vagoni attigui; non sentiva nulla perché era troppo il rumore che aveva in se. Perché era andata via? Da cosa stava scappando?


Non era da lei, mai avrebbe creduto di poter fare qualcosa di simile, non solo perché è da codardi, ma anche perché nessuno della persone che lasciava meritavano di soffrire per causa sua. Certo, forse solo per questo aveva scelto di cambiar vita, per non far più star male altre persone.


Meritava forse Luca di essere piantato così, di non ricevere sue notizie per due settimane, dopo che le aveva chiesto di sposarlo? Eppure erano stati felici assieme. Una decisione del destino, ecco cos’era stato il loro incontro. Lì in quella splendida Firenze, tutti e due in fuga dal passato. Lui l’aveva notata subito, e dal suo primo sorriso lui aveva saputo, con quella certezza che lei ignorava, ma che gli invidiava, che Angelica sarebbe stata… per sempre. Luca dal primo giorno, dalle prime interminabili confidenze era stato come un principe delle favole: colui che vive per proteggere chi ama. Angelica aveva accettato il suo nuovo stato di Principessa da salvare. Era difficile non cedere alla tentazione di farsi convincere da Luca che lei era quel tipo di donna. Ma allora perché scappava?


Forse tutto quell’idillio era stato distrutto quando dopo due anni, il passato era tornato, come sempre, sotto le belle spoglie di Francesco.


Tutto un altro mondo, lui.


Aveva gioito e sofferto per quell’uomo per quattro lunghi anni. Francesco a volte era lì con lei, altre volte fuggiva. Poi tornava ancora, per farsi salvare da Angelica che era il suo Angelo protettore, la sola che potesse salvarlo dalla sua solitudine, dal suo male di vivere. Chissà perché, in quel lontano giorno, sotto quella pioggia torrenziale, lui aveva scelto lei come ancora di salvezza. Angelica si era sentita per lui importante come solo uno scoglio in mare aperto potrebbe sentirsi.


Ma quelle sue sparizioni repentine le toglievano l’aria e la vita. Lo cercava per giorni per trovarlo solo quando Francesco davvero voleva farsi trovare, lì, nei meandri delle sue incertezze e del suo incurabile bisogno di libertà. Ma lei, ora non stava forse fuggendo come lui? Era davvero giusto? Questo pensiero non la faceva vivere. Proprio come diceva la signora dagli occhiali opachi; pensare agli altri non ti fa vivere.


Poi un giorno, quando credeva di essere ormai lontana da quei ricordi tormentati lui era tornato all’improvviso. Angelica aveva persino parlato a Luca di quanto il rivedere Francesco anche solo come amico, la stesse turbando; e lui era stato comprensivo e rassicurante come al solito. Lui l’avrebbe aiutata anche in quell’ampasso.


Francesco invece, strano come il destino, aveva di nuovo bisogno del sostegno di lei, della sua forza quasi celeste. Ma lei quella forza non l’aveva. O sì?


Fu così che tutto il mondo effimero che le avevano costruito attorno era crollato, e non le era rimasto che scappare.


Chi era lei? Non lo sapeva più. Voleva solo qualcosa che si avvicinasse alla libertà di essere se stessa, sempre a patto di capire chi era questa sconosciuta se stessa. Per la prima volta sentì che né Francesco né Luca avrebbero potuto dirglielo.


Non si sentiva l’angelo salvifico del primo ne tanto meno la principessa del secondo; forse era stato il destino a farle incontrare Luca, forse sempre il destino a farle ritrovare Francesco. Di certo non era stata lei a decidere quello che doveva essere… sino a quel momento.


Un pensiero quasi rassicurante le attraversò le vene, arrivò tramite il sangue sino al cuore e al cervello.


No, lei non fuggiva da nessuno, semplicemente inseguiva qualcosa. Qualche cosa eterea e poco chiara, così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza, con la sua nuvola di dubbi e di bellezza.


 


Passano non più di 38 minuti e la ragazza bionda mi chiede


- Sai qual è la prossima fermata?


No, le rispondo. So solo qual è il capolinea.


- Scendi a Torino?


Sì, le rispondo. Poi vado a Parigi.


- Bella Parigi. Romantica, anzi no. È bella ma mi ci sentivo sola.


- Io forse non ne avrò i tempo. Vado a un incontro internazionale dove selezioneranno giovani da mandare in Africa.


- In Africa? – Mi chiede.


- Sì. Ci sono dei progetti di ricostruzione e alfabetizzazione, cercano giovani volontari. Ho studiato lingue, ho studiato diritto internazionale e didattica. Ho lavorato per anni solo per pagarmi questa esperienza e se mi prendono… ma tanto io lo so che mi prenderanno, è un sogno che si avvera.


Mia madre non è d’accordo, mio padre non ne parliamo. Il mio ragazzo è disperato, ma forse era così che doveva andare. Anzi no, non è così. Sto facendo la più grande stronzata di tutta la mia vita, ma hai mai visto una persona più felice?


Per me è un cerchio che si deve chiudere. Non so cosa farò se non parto per l’Africa. È da matti essere in questo modo senza prospettive, lo so. Ma per ora voglio pensare solo a questo.


Non capisco se la ragazza è incuriosita dal mio entusiasmo o mi ritiene pazza da legare. Mi sento per un attimo un santone che parla della verità rivelata. Certo, le ho appena esposto la mia realtà rivelata.


- Pensi che avrei possibilità di essere presa anch’io? Conosco l’inglese.


- Il problema non è solo di lingua o di competenze, ma di quanto si è disposti a lasciarsi alle spalle, a perdere, a cambiare vita.


- La mia vita ha preso una svolta salendo su questo treno. Non ho una meta precisa, so solo che inseguo qualcosa.


- Tu credi davvero nel cambiamento? Le chiedo.


- Io non devo cambiare, ma se posso migliorare qualcosa… faccio del mio meglio.


Le sorrido, e trascorriamo le successive quattro ore parlando del progetto Africa, di quelli che sono stati i miei sogni per anni.


E narrandoli, diventano anche i suoi. Una che conoscevo una volta mi disse che ogni storia è degna di essere narrata. Forse è per questo. Perché se non serve a nulla non nuoce, ma se serve può cambiare la vita. In bene o in male, ma la cambia.


Alla fine anche lei, Angelica, sembra aver deciso il prossimo passo della sua vita. Non posso certo dissuadere qualcuno che inizia a credere in un sogno.


Tra un po’ cambierà, forse è bastato un piccolo racconto di vita, il mio, per cambiargliela.


Passa un controllore e chiediamo dopo quanto saremmo arrivate al capolinea.


- Poco, non più di 38 minuti.


 


 

Un commento a “Non più di 38 minuti”

  1. Andrea dice:

    Ciao Sabrina,

    molto belle le cinque/sei storie che ci racconti. Sarebbero belle anche prese singolarmente, e l’originale cornice del viaggio in treno aggiunge un tocco in piu’. Molto riuscito in particolare il passaggio dalla prima alla seconda, dalla terra “ferma” al treno in corsa, anche se, se posso permettermi una piccola critica, la storia di nonno Peppone e’ un po’ troppo lunga rispetto alle altre, e finisce con l’inserirsi non proprio benissimo nella raccolta.

    Grazie per avercelo fatto leggere :)

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