UOVA PAZZE E STRAPAZZATE

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IL VESTITO

Pubblicato da suddenhush il 24 giugno 2008

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IL VESTITO  

Il mio primo racconto noir… siate buoni!!! 

 

Dire che detesto la pioggia non è esatto; io ne sono terrorizzato. Quando le tinte celesti s’incupiscono nel grigio acquerello, e quell’orribile pioggia si precipita, esecutrice, sull’asfalto e sugli abiti, io mi sento oppresso da una morsa che mi schiaccia le meningi e mi violenta, finché non urlo. Se mi trovo in strada, le scimmie sotto gli ombrelli, maschi e femmine, mi guardano come fossi pazzo. Che diavolo volete? Lasciatemi in pace! Ignoratemi! È tutto ciò che voglio.

Mi precipito in casa e mi seppellisco sotto una coperta, come se quelle stille venefiche potessero penetrare attraverso il soffitto, ed uccidermi.

 

Ada. Maledetta! Abitava in una casa squadrata, con due balconi striminziti e fioriere di ferro fissate alla parete bianca, che colavano ruggine come sangue su vello di pecora. Era affetta da una displasia dell’anca che con gli anni era andata peggiorando, fino a ridurla ad una patetica vecchia, ricurva come una gruccia e piccina come se aspirasse a stare tutta intera in un guscio di noce.

Non faceva che cucire.

Punto croce, punto a giorno, tessuti, filati, merletti.

Le facevo visita tutti i dannati pomeriggi, non certo per amore o spirito di carità, ma perché elargiva sommette a cadenza oraria, piuttosto che perdere il lume parlando coi santini dei cari estinti. Mi sentivo quasi un gigolò, anche se il solo pensiero di sfiorare le sue guance di tacchino secco mi ributtava.

Nella minuscola stanza dove se ne stava rintanata, stagnava l’odore aspro della muffa, che mischiato a quello pungente delle sue pantofole, usurate dai decenni, generava un’alchimia mefitica, come trovarsi chiusi in un sacco di spazzatura, senza il minimo foro per respirare fresco.

 

Mi aveva consegnato le chiavi di casa, per evitare di alzarsi dalla poltrona, diventata ormai parte integrante del suo corpo decaduto. Io entravo, mi sistemavo di fronte alla sua faccia seminata di lenticchie, fingevo interesse per le sue ciance, e quando aveva deciso che, finalmente, poteva star zitta e cucire, prendevo un tomo dalla sua biblioteca e m’immergevo nella lettura, aspirando il giallo stantio delle pagine. Tre ore, poi soldi. E libertà.

 

Tutto quel cucire un giorno m’incuriosì. Che diamine poteva infischiarmi dei deliri amanuensi di una bacucca? Domanda assillante, mentre mi sforzo di ricordare che libro stessi leggendo quel pomeriggio; doveva essere un trattato di filosofia, perché difficilmente, in altri casi, avrei concesso al mio cervello di perdersi in interrogativi idioti.

 

-         Cosa cuci? – fu LA DOMANDA.

-         Il mio vestito. Quando il Signore mi vorrà chiamare, io mi presenterò a Lui col mio abito più bello.

 

A quella risposta rimasi sbigottito. Gli occhi mi si svuotarono, come se quell’assurdità avesse succhiato la mia carne, dall’interno.

 

Sorrideva, la vecchia.

 

Qualcuno avrebbe coperto la sua carcassa col vestito che lei stessa aveva confezionato mesi, anni prima della dipartita, per il giorno della sua estrema e ingloriosa notorietà… e ne era felice!

COSA TI DIVERTE, PAZZA? COSA?

Godi al solo parlarne, coi tuoi denti marci esposti in un orrido museo di antiche lussurie alimentari.

ECCO COSA!

Tu hai sconfitto la Morte, maliarda, con armi cretine come stoffe ed aghi!

 

-         Ti piace? – continuò, senza interrompere il suo lavoro.

Era stato tagliato in una stoffa nera, quasi sicuramente velluto; i polsini ed il colletto erano di gusto rococò, fatti di trine arricciate con presunta grazia, che altro non era se non stucchevole eccesso. Non l’avevo mai notato prima e invece ora sembrava inondare tutta la casa, come un oceano di petrolio, che si alimenta da se stesso e ingoia tutto ciò che lo teme.

 

Sorrideva, la vecchia.

 

Sorrideva, mentre l’ago passava parte a parte la stoffa, e il filo scivolava come la barca di Caronte sul fiume infernale. E quei bottoni madreperlati, come lacrime da deridere, quando li aveva scelti, se non usciva di casa da almeno quattro anni?

 

La sera della rivelazione rincasai sconvolto. Pioveva, e mi coprii il capo col cappuccio del giaccone a vento. Allora la pioggia rappresentava per me un fastidio, tuttavia sopportabile, nulla di più.

Dovetti strizzare gli orli dei miei pantaloni e asciugarli accanto al camino. Cominciai a fissare le lingue di fuoco; non pensavo che a quell’abito, e a quanto avrei riso nel vederlo bruciarsi, riducendosi in cenere, a poco a poco, mentre sventolava la sua manica in segno di pietà.

 

La Morte va temuta.

La Morte non è un giochetto per bambocci.

La Morte è Paura, Delirio, poi Incoscienza e Abbandono Eterno.

La Morte è una minestra di visceri e putredini, e la devi mangiare.

La Morte va temuta.

 

Il giorno seguente tornai dalla vecchia. Appena misi piede in quell’atmosfera nauseabonda, cominciai ad avvertire un senso di mancamento e credetti d’impazzire quando vidi che, anche quel pomeriggio, il Vestito per Morire se ne stava morbidamente buttato su quelle ginocchia fragili come ossicini di pollo. A quel punto non sapevo se era quello o Ada a ferirmi di più.

 

-         Gli mancano le rifiniture. – fece lei, mentre un lampo argentino le correva negli occhietti di criceto.

Strinsi i pugni. Avrei dato vent’anni della mia vita perché quel Vestito non venisse completato; ma era impossibile, come sfuggire al destino che esso rappresentava. La megera e il Vestito si stavano burlando di me. Andai in cucina a versarmi da bere.

Vino rosso. Alcool mischiato a sangue. Vertigine.

Scagliai in terra il bicchiere, mentre il liquido amaranto si allargava sul pavimento, simile alla colpa sulla coscienza. La vecchia sobbalzò, chiedendomi, dall’altra stanza, cosa fosse successo, poi, rassicurata, riabbassò gli occhi sul sudario. Mi chinai sul pavimento, raccogliendo i frammenti di vetro uno ad uno. Li scaricai in cucina, conservandone uno in tasca.

 

Tornai nella stanzetta, improvvisamente rimpicciolitasi. I quadretti del Cristo si erano sbiaditi, i fiori finti coi petali sfilacciati e la colla a fungere da rugiada erano svaniti, sciolti nel fetore, i mobili tarmati avevano preso la consistenza dell’etere; c’eravamo solo io, la vecchia, il Vestito.

Esso era ormai un’entità a sé stante, con una vita propria, che si partoriva, filo dopo filo, giorno dopo giorno, bottone dopo bottone, con una lentezza che mi angosciava. Immersi le dita nel ripostiglio del vetro, e vi sfregai il pollice contro, sentendo il dolore trafiggermi la pelle. Come se barattare quello strazio mentale col dolore fisico fosse possibile!

 

Fuori, oltre le tendine pacchiane della stanza, il cielo cominciava ad ingrigirsi.

L’escoriazione che mi ero procurato mi aveva ricondotto alla realtà, almeno. Cercai di farmi forza e cominciai a farfugliare qualcosa sul tempo, ma la vecchia m’interruppe.

-         Adesso è proprio finito!

 NO! NON PUO’ ESSERE! 

Ostaggio di un moto involontario, mi strappai un’intera ciocca di capelli con la mano insanguinata.

Lanciò un gridolino, appena percettibile. Poi, come nulla fosse, tornò a rimirare il lugubre Vestito, esaminandolo nella sua interezza.

Il Vestito stava già sortendo il suo effetto. Prima il fracasso del bicchiere, ora il mio gesto folle; da questo momento, il suo potere sarebbe cresciuto a dismisura, finché più NULLA avrebbe turbato la sua SIGNORA.

 

-         Indossalo, fammi vedere come ti sta. – le dissi.

 

Mi guardò stranita, senza muoversi.

-         Ada, indossalo. – le ordinai.

-         Non posso, non si fa.  – rispose, serafica.

 Oewoewl skeji! oewrjeojrq eiwrjewot hewioewoc!! Jkhgh! 

Quei due mi stavano facendo uscire di senno.

 

-         INDOSSALO! – ripetei, con gli occhi rossi d’ira.

-         Ti ho già detto che non si fa, mio caro…

-         INDOSSALO, CAZZO!!!

 

Non ne volle sapere. Presi il pezzo di vetro che avevo in tasca.

In un fulmine, afferrai la vecchia e le trafissi al gola.

Si accasciò sul pavimento. Vincendo il ripugno, raccattai il Vestito, spogliai la morta e glielo infilai.

 

-         Ti sta benissimo.

 

Uscii fuori dalla casa, lasciandomi alle spalle l’odore ferroso del sangue. Nel momento esatto in cui richiudevo la porta, fui assalito da un temporale terribilmente maestoso, annunciato dal tuono più potente che avessi mai udito in trentacinque anni di vita. Luci abbaglianti scuotevano il cielo ad intermittenza ravvicinata, come in una serie natalizia di proporzioni abnormi. Le gocce urlavano, come miliardi di giudici inquisitori.

Panico.

La pioggia aveva visto! Sapeva!

E se mai avessi dimenticato il mio delitto, quell’orribile pisciata trasparente me l’avrebbe ricordato fino alla fine dei miei giorni, trascinandomi sotto un treno, scaraventandomi giù da un terrazzo, appendendomi a un albero!

Rientrai immediatamente a casa della vecchia, e mi sentii subito al sicuro, nonostante tutto.

Guardai Ada, col suo Vestito di velluto nero striato di rosso.

 

Sorrideva, la vecchia.

3 Commenti a “IL VESTITO”

  1. caterina dice:

    brrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr.
    scritto benissimo.
    un po’ violento :)
    del restoe’ un noir e quando sono entrata , sapevo DI CHE MORTE SAREI MORTA!!!!

  2. andrea dice:

    Molto ben riuscito direi!
    La descrizione dell’appartamento di Ada, della sua persona, e’ molto cruda (forse un po’ troppo) ma sicuramente molto efficace.
    Il paragrafo iniziale sulla pioggia mi aveva lasciato un po’ perplesso, e benche’ alla fine riesci in qualche modo a dargli un senso, secondo me ilr acconto fila benissimo anche senza.
    Vabbe’ sto proprio cercando il pelo nell’uovo, lo ammetto :)
    Grazie per avercelo fatto leggere!

  3. fabio dice:

    Ciao Suddenhush,

    complimenti, sei riuscita a descrivere molto bene il conflitto interiore del protagonista che lo porta a compiere quel tremendo gesto.

    bel racconto! :)

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