piehasen

Una raccolta www.storydrawer.org

Ricordi Complessi – 9 – Simona: Io e i brutti anatroccoli

Pubblicato da piehasen il 25 settembre 2010

Scarica come ePub

1 Star2 Stars3 Stars4 Stars5 Stars (Nessun voto)
Loading ... Loading …

*** “Ricordi Complessi” è una raccolta di racconti che un piccolo editore fa scrivere a quattro vecchi amici rintracciati dopo molti anni (siamo nel 1989 – 1990) per comporre un’opera sugli “anni folli” del Sessantotto. Inframmezzati tra i racconti sono riportati anche i verbali delle riunioni di redazione.  ***

IO E I BRUTTI ANATROCCOLI

 

C’é bisogno di un riassunto della puntata precedente? Avevo raccontato la storia di come Puccio e Patrizia si fossero messi insieme, anzi, di come avessero fatto fin­ta di mettersi insieme, che poi non era mica tanto per finta, va beh, andatevi a ri­leggere quello che ho scritto l’altra volta. Certo che Paolo in fondo ha ragione a vo­ler scrivere i racconti dettando al registratore, si guadagna in immediatezza e ci si mette molto di meno. 

Mi pare che avessi concluso con la scusa – un po’ labile per la verità – che sic­come entravo in prima persona in questa storia, era meglio soprassedere. Che poi tanto labile non é come scusa, visto che serve ad aprire questo raccontino inqua­drandomi come ero in quell’estate del Settanta.

Dunque, per chi non lo sapesse, io ero, anzi sono, per carità, mio fratello fa­rebbe gli scongiuri, la sorella minore di uno del giro, e per la precisione di quel ta­le Alberto che organizzò con Andrea la spedizione alle Orsoline, quello che aveva un talento speciale per fare scena. Ci abbiamo litigato una vita su quella storia, io gli davo del buffone, lui sbuffava che ero troppo seriosa per la mia età, come se a quindici anni una dovesse pensare solo alla discoteca; e invece hai voglia, quella é proprio l’età in cui ti piombano addosso le malinconie meno giustificate, ti alzi una mattina e hai voglia di buttarti sotto il primo tram che arriva alla fermata. Ma a quell’età, dico quella di Alberto, diciannove o giù di li, si vedono le sorelline an­cora come quando lui aveva sei anni ed io due. E anche l’amico che bazzica per ca­sa da una vita non si accorge che stai crescendo e se ti allunga le mani addosso é solo per farti il solletico come ad un gattino.

Non credo che capiti a tutte le ragazze con un fratello un po’ più grande, ma io passai un periodo, più o meno verso i quattordici, in cui volevo dimostrare al mondo (che poi per me si riduceva in Al e nei suoi amici) che ero diventata una donna. E il modo migliore di farlo, visto che nessun ragazzo ancora mi filava, nes­sun ragazzo vero, intendo, lasciando stare gli sbarbati della mia età, dicevo che il modo migliore per sentirmi cresciuta mi sembrava quello di impicciarmi nei pa­sticci sentimentali dei più grandi. In retrospettiva mi rendo conto che così mi davo la zappa sui piedi e sortivo l’effetto opposto, ma allora non me n’accorgevo.

Nell’estate del Settanta avevo tredici anni e mezzo e ne dimostravo dieci. Non avevo ancora sviluppato nel fisico, e quindi davo poco nell’occhio se stavo nei pa­raggi di una coppietta: in pochi credevano che potessi interessarmi a quello che fa­cevano. E invece avevo acquistato un certo occhio nel valutare una coppia, tra me e me facevo dei pronostici: quelli reggono una sera e basta, a quegli altri gli do due settimane, questa qui invece é una cotta da sei mesi – che allora mi sembrava un’eternità, specie in vacanza, dove superare il mese voleva dire stare insieme an­che in città, il che equivaleva pressoché a fidanzarsi ufficialmente. E il più delle volte ci prendevo.

Quando vidi Puccio e Patrizia mettersi insieme quella fatidica sera, non mi ac­corsi di nulla, anche perché non c’era nulla di cui qualcuno potesse accorgersi: due che si mettono insieme, fossero anche i Cenerentoli della compagnia, non davano nell’occhio più di tanto, a meno che non fossero due persone dello stesso sesso. Non é una boutade, era capitato a due ragazze del giro, mie amiche intime, di svi­luppare un’amicizia che rasentava la sessualità, e in compagnia erano state subito chiamate “Les Biches”, pronunciato sia in francese (con riferimento al film), sia molto più crudamente in italiano. Ma loro non c’entrano con questa storia, anche se é abbastanza vero quello che dicevano di me, e cioè che quando c’era qualcosa di anomalo, di diverso dal solito, io avevo sempre a che vederci. 

E alla fin della fiera anche la storia di Puccio e Patrizia non fece eccezione alla regola: io ebbi qualcosa a che farci, perché fui io che scoprii il trucco; ed é da quanto i due mi raccontarono quando misi le carte in tavola con loro che ho rico­struito gli antefatti della scorsa puntata.

Nei primi giorni che stavano insieme, e dopo le forche caudine che la compa­gnia gli aveva fatto passare quella prima sera, Puccio e Patrizia iniziarono subito a dare nell’occhio come una coppia abbastanza sfacciata. Stavano sempre appiccicati, ma non si appartavano quasi mai: tutto quello che dovevano fare lo facevano in pubblico, anche se non era gran che. Ma dopo un po’ quei due limonatori folli iniziarono a mettere tutti in imbarazzo, anche perché sembravano divertirsi un mondo non solo a quello che facevano, ma alla situazione in sé. Non era raro che, se uno dei due stava già in compagnia, arrivava l’altro e si accoccolava ai suoi piedi o si appollaiava sul bracciolo della sua poltrona, e cominciavano a tenersi per mano e a scambiarsi bacetti e carezze che sembravano distratti perché nessuno dei due perdeva il filo del discorso, ma nello stesso tempo non lo erano per nulla a giu­dicare dalle loro reazioni. La cosa era, in effetti, attentamente studiata e ripetuta­mente provata in separata sede, perché entrambi avevano preso un gusto matto a recitare quella parte, e volevano fare le cose per bene. Ma siccome nessuno lo sape­va, P&P (come iniziarono ad essere chiamati) davano l’idea di una coppia affiatata e felice sotto tutti i punti di vista. 

Un altro cambiamento che si vedeva a prima vista era quello che oggi si direbbe il loro look. Prima di mettersi insieme erano, preso ciascuno per sé, due tipi assolu­tamente incolori; da quando filavano stavano lentamente trasformandosi. Puccio aveva cominciato a portare camicie aperte sul davanti, e un giorno si era fatto pre­stare da Mimmo un vecchio paio di Rayban che da quel momento non aveva più smesso; mentre Patrizia s’era tolta qualche chilo di golfoni e un bel giorno era tor­nata da Milano con i capelli stirati e senza baffetti. Ma più che questi particolari, era il loro diverso atteggiamento che aveva cambiato il loro aspetto fisico. 

Puccio si era gradatamente indurito, aveva smesso di giocherellare e sorridere sempre come un mentecatto, s’era fatto man mano meno loquace ed estroverso, aveva iniziato, lui, il disponibile Puccio, a rifiutare di fare piccoli favori a tutti. Puccio, mi prendi da bere? No, guarda, il bar é là che ti aspetta. Puccio, mi accom­pagni a casa? No, devo già portare la Patti.

Di converso, Patrizia si era fatta più morbida, languida, aperta, spigliata, sba­razzina, e chi più ne ha più ne metta. Rideva molto più di prima, partecipava a qualche scherzo, sembrava ringiovanita di un paio d’anni. E le altre ragazze comin­ciavano ad aprirle i loro giri più esclusivi, in cui lei accettava di entrare, ma senza lasciarsi coinvolgere più di tanto. E poi aveva sempre pronto quel disarmante sorri­so della Gioconda, che con i capelli stirati sembrava ora proprio quello del celebre quadro, da tirar fuori ogni volta che qualcuno tentava di imbarazzarla. 

Per farla breve, il fatto di essersi messi insieme aveva aperto a Puccio e Pa­trizia le porte della compagnia. Non erano diventati nulla di trascendentale, ma per lo meno erano accettati “pares inter pares”.

Non basta, diceva Puccio quando la sua partner gli faceva notare che ormai il loro scopo era raggiunto: vedi quanto é stato facile, avevo ragione io. E allora dammi retta, e andiamo avanti ancora un po’. O non ti diverte più? Non é questo, rispondeva Patrizia, é solo che non ne posso più di stare sempre in tensione, come se fossi sotto interrogazione. Quando non siamo sotto i riflettori stiamo a provare la parte, vorrei rilassarmi un po’.

Puccio convenne che era giusto, e riuscì a farsi prestare il 470 di Francesco per uscire insieme in barca a vela. Fu un pomeriggio indimenticabile: al largo, da soli, liberi, con la breva in faccia, la barca inclinata ad un pelo dalla scuffiata, forse per la prima volta si trovarono insieme con naturalezza. E gli venne quindi naturale iscriversi alla regata a coppie miste che il circolo organizzava di lì a qualche gior­no.

Ci ho iscritti perché mi piace andare in barca, sbuffò Puccio alla richiesta di spiegazioni da parte di Patrizia, e mi sono accorto che piace anche a te: ci sai fare molto più di me.

Patrizia sospirò di sollievo: per una volta non c’era sotto un intrigo. Sono stata alla scuola di Caprera l’altr’anno, si giustificò, ma anche tu non sei poi una schiap­pa. Sono comunque contenta che per una volta non ci sia sotto un intrigo. 

Altolá, ribatté il buon Puccio, io non faccio mai nulla a caso! Adesso é venuto il momento di far vedere che sappiamo fare qualcos’altro insieme oltre che limonare, e questa é una cosa che riesce bene a tutti e due. Va beh, scherzavo, non te la pren­dere, volevo solo mostrarti come le cose vadano ormai avanti da sole, che noi lo vogliamo o no.

La regata fu memorabile sia per la suspense con cui si concluse, sia perché la coppia vincitrice – sul 470 di Francesco, che per quella volta preferì stare nel comi­tato organizzatore – era formata da Patrizia al timone e Puccio di prora, cosa que­sta che contraddiceva tutte le regole non scritte sui rapporti gerarchici tra maschi e femmine.

All’ultimo bordo Puccio e Patrizia, anzi, Patrizia e Puccio, in testa dall’inizio grazie ad una partenza intelligente, conducevano di un paio di lunghezze su una coppia ravvicinata di imbarcazioni. A metà del bordo Mimmo riuscì a recuperare lo svantaggio e a portarsi in testa, ma Patrizia dosò meglio le vele e si portò per prima alla boa finale, che affrontò sopravvento in virata strettissima. Puccio si buttò sull’altro bordo senza neanche far sbattere il fiocco, mentre lo scafo strideva contro il metallo della boa, e per evitare la collisione Mimmo fu costretto a dare un colpo di barra che gli mandò a carte quarantotto la virata. Poteva ancora profittarne Alessandro, ma proprio in quel momento Stefania s’impicciò con la scotta e gli fece perdere quel minimo di potenza che consentì a Patrizia di prendere mezz’acqua e mantenerla sino al traguardo, che tagliarono abbracciati e ridendo felici.

Alla premiazione quest’insolito armo – era curioso sentire prima il cognome di lei e poi quello di lui – fu fatto oggetto di qualche sporadica corbellatura antifem­minista, ma Puccio mise le cose a posto affermando che quello che contava era il risultato, e che lui cedeva volentieri il timone a una che veniva dalla scuola di Ca­prera. Siccome non lo sapeva nessuno, la cosa lasciò tutti di stucco, ed il prestigio di Patrizia ci guadagnò qualche gallone. Lo stesso Mimmo venne a stringerle la mano, e azzardò anche una cameratesca pacca sulla spalla, chiedendole di inse­gnargli quella diabolica virata.

L’aver preso confidenza in questo modo con la compagnia dava ora a Patrizia qualche problema aggiuntivo, perché tra la sua cameratesca disponibilità e la pubblicità che dava ai suoi rapporti con Puccio, a qualcuno venne voglia di allungare le mani.

E qui si vide quanto Patrizia si fosse immedesimata nella parte: appena se n’accorse, e prima di manifestare la benché minima reazione, chiese lumi a Puccio. Non se ne parla neanche, rispose lui un po’ sopra le righe, ceffoni e calci negli stinchi a chiunque si azzardi! Meno male, rispose Patrizia, avevo paura che mi di­cessi che dovevo starci. E tu ci saresti stata? chiese lui, e restò di stucco quando Pa­trizia gli restituì il sorriso della Gioconda.

Morale della favola: chi ci provò con Patrizia ci beccò qualche ceffone e qual­che calcio negli stinchi, e non in senso figurato; e Claudio, che oltre ad essere uno del posto aveva un fisico da culturista e una gran faccia di tolla, e non si rassegnava così facilmente, dovette essere affrontato personalmente da Puccio.  

Fu un match memorabile, anche perché assolutamente inatteso e di durata bre­vissima: all’ennesima avance Claudio si sentì sollevare di peso e scaraventare lon­tano senza una parola. Si rialzò immediatamente, pronto a dare una lezione a quel pivellino con dieci centimetri di spalle in meno; ma se Patrizia era stata alla scuola di Caprera, Puccio era cintura marrone di judo, e Claudio e tutti i suoi muscoli si fecero un bel volo per aria e atterrarono pesantemente su un tavolino. Non ci riprovò: si rialzò e se ne andò mogio mogio, mentre Puccio si risedeva accanto alla sua donna tra le acclamazioni dei presenti. 

Era anche la vittoria della città sulla campagna, del cervello sulla forza bruta. Senza fiato più per l’adrenalina che per lo sforzo, Puccio si chiedeva dove avesse trovato il coraggio di affrontare quel bulldozer vivente e l’abilità per impostare quel perfetto seoi-nage che gli aveva fatto concludere l’incontro così in fretta. 

Ma se già ti sapevi difendere, obiettò Patrizia, perché non ti sei fatto valere an­che prima? E a te, rispose lui, perché non ti avevo mai vista su una barca a vela? Perché non avevo nessuno con cui andarci, non ne valeva la pena. Appunto, con­cluse lui, prima non ne valeva la pena.

Questi episodi andavano al di là di quanto era stato concertato da Puccio all’inizio, ma loro non se ne accorgevano: stavano insieme per finta, per fare scena, in fondo anche al cinema gli attori iniziavano proprio in quel periodo a girare qualche scena scabrosa, ma non per questo gli attori dovevano venir coinvolti emo­tivamente. Se avessi già saputo il retroscena e fossi andata a chiedere a ciascuno dei due se per caso si stesse incottendo dell’altro, ciascuno dei due avrebbe risposto ma no, che dici, noi stiamo insieme per finta, per fare scena, anche gli attori al ci­nema…

Comunque, sebbene li tenessi d’occhio come facevo con tutte le coppiette, non mi accorsi di nulla per un bel pezzo, vale a dire sino al giorno in cui i due mani­goldi tentarono il trucco della cabina. 

Non mi ascrivo meriti di grande investigatrice, anche se crescendo mi hanno detto in parecchi che assomiglio a Miss Marple: fu un fatto assolutamente casuale che la cabina di Patrizia fosse adiacente a quella mia. Il trucco della cabina, se ben vi ricordate, era una trovata di Puccio per convincere l’opinione pubblica che loro due facevano sul serio. La sceneggiatura richiedeva qualche avance più audace del solito, un dolce ma fermo diniego, una parolina sussurrata all’orecchio, un filarsela all’inglese – ma mica troppo – verso la cabina. 

Avevo appena fatto una nuotata e mi stavo cambiando il costume e strofinando vigorosamente i capelli con un paio di asciugamani, quando sentii chiudersi la porta accanto alla mia, e le voci di Puccio e Patrizia iniziare un concerto di risa soffocate. Possibile che siano arrivati a tanto? mi domandai, e con la morbosa curiosità dei tredici anni e mezzo incollai l’orecchio al divisorio. Se qualcuno mi avesse vista in quel momento avrebbe avuto di che ridere: una “fanciulla in fiore” completamente nuda, con una gran massa di capelli umidicci e stoppacciosi tutti ti­rati da una parte, folgorata in posa da pellerossa contro la parete di legno.

Non ne sapevo gran che del sesso a quei tempi, ma con un fratello grande era inevitabile che mi fosse capitato all’orecchio qualche discorso e per le mani qual­che giornaletto vietato ai minori, da cui mi ero fatta una certa idea – vaga e distorta – della cosa, che naturalmente il mio animo romantico rifiutava in blocco. Ma ero ad esempio convinta che il farlamore implicasse gemiti e sospiri, se non belati di passione, e comunque qualcosa di diverso dalle risatine e bisbigliamenti che mi pa­reva di captare in quella sede.

Allora, ce la facciamo per davvero la partitina a briscola? diceva Puccio, io le carte me le sono portate dietro. Ma va’?! rideva Patrizia.  Adesso te lo faccio vede­re: ecco qui, ribadiva lui. Io ero perplessa: o era un loro linguaggio in codice, per cui partita a briscola poteva essere una qualche figura sessuale, le carte chissà che erano, e te lo faccio vedere era selfesplanatorio, oppure P&P s’erano davvero chiusi in cabina per giocare a carte! Ma in tal caso si stavano divertendo troppo: ci doveva essere sotto dell’altro. 

Quella dannata parete non aveva uno straccio di fessura per poter vedere cosa succedeva, dovevo restare immobile e continuare ad ascoltare. Tra l’altro ero nuda come un verme e ancora mezza bagnata, e nell’ombra della cabina stavo comin­ciando ad avere freddo; ma la prospettiva di scoprire qualche primizia sul rapporto più chiacchierato del giro valeva bene un raffreddore, anche se la mamma mi avrebbe strillato per l’ennesima volta per non voler mai usare il föhn.

Non si capiva granché, ma sembrava che stessero davvero giocando a carte. La cosa aveva dell’incredibile, ne ero affascinata. Quanto tempo passò? Non avevo l’orologio, ma calcolai una ventina di minuti, finché Patrizia disse: adesso non é ora di tornare? Sì, disse Puccio, ma aspetta, mi é venuto in mente il tocco finale: dovresti levarti il reggiseno. Il reggiseno? Il tono di voce di Patrizia era perplesso e un po’ incredulo. Sì, lo lasci qui, in fondo la cabina é tua. Ma ho la camicetta che traspare. No, non traspare, fai vedere, va benissimo. E se poi mi vede mia madre? Le inventi che ti sei versata dell’acqua addosso, non mi sembra un problema. E va bene, esci che faccio in un momento. Vuoi scherzare, siamo entrati insieme e in­sieme dobbiamo uscire, aspetta che mi volto. No, va beh, mi volto io, strano, ma con te non mi vergogno. Fai come vuoi, basta che ci spicciamo. Reggimi la cami­cia, per favore. Ehi, ma lo sai che non sei per niente male da quelle parti? Dai, non fare il cretino, ridammi la camicia. Va bene, tieni, peccato però.

Ero senza fiato. Mi volto, non mi volto, ma allora Puccio non aveva mai visto Patrizia… come si dice, a torace scoperto!? Il tocco finale, aveva detto: di che cosa? C’era qualcosa che non quadrava, qualcosa di grosso: sembrava che quei due non stessero neanche insieme. Eppure tutti quanti li avevamo visti baciarsi appassiona­tamente non una, ma migliaia di volte. Che si fossero piantati? Ma allora che si erano chiusi a fare in cabina insieme? Ero decisa a scoprirlo.

Il trucco della cabina riuscì benissimo sotto l’aspetto propagandistico, e fu la de­finitiva consacrazione della coppia P&P all’interno della compagnia. Servì a fugare ogni residuo dubbio che quei due potessero non fare sul serio. Se ne parlò per gior­ni, e Puccio aveva indovinato che il fatto del reggiseno sarebbe stato notato.  Pensa, non ce l’aveva, segno che… É evidente che si sono rivestiti in tutta fretta… Però, hanno avuto un bel coraggio… Per me sono esibizionisti e basta… Ma stai zitta, che piacerebbe anche a te avere un ragazzo con due palle del genere… Praticamente in faccia ai grandi… Oh, quando tira, tira… Non facevo che sentire conciliaboli del genere. E, strano a dirsi, la reputazione di Patrizia non ne aveva minimamente ri­sentito, forse perché episodi come quello di Claudio avevano mostrato chiaramente che la ragazza si dava sì senza riserve, ma soltanto al suo uomo.

Puccio non si era mai sentito così bene in vita sua: viveva in una perenne eufo­ria, si godeva il successo e la popolarità come un divo del cinema o un cantante fa­moso, ma non aveva per questo perduto il senso della misura. Sapeva benissimo che più si andava avanti, più il castello di carte rischiava di crollare da un momento all’altro. 

Adesso é ora di lasciarci, disse a Patrizia in un momento di intimità. Dobbiamo piantarci con una bella litigata, in modo da rendere evidente che ci lasciamo per incompatibilità di carattere e non per noia. 

 Strano a dirsi, questa volta fu Patrizia a sollevare difficoltà, lei che aveva sem­pre tirato a concludere in fretta la missione. Diceva che non si sentiva pronta ad af­frontare il mondo, cioè a diventare territorio di caccia, ammesso e non concesso che tutta la baracca fosse servita a qualcosa. E poi, gli disse chiaro e tondo, si era stufa­ta di essere pilotata come una marionetta: per una volta voleva essere lei a decidere come e quando fare una cosa. 

Vuol dire, rispose lui, che stai bene insieme a me? Oh, dannazione, ma noi due non stiamo insieme, l’hai sempre detto tu! sbottò lei. Insomma, poco mancò che non litigassero sul serio. Come vuoi tu, concluse Puccio, possiamo soprassedere ancora un po’.

In realtà Puccio non voleva soprassedere proprio per niente, e studiava il modo per creare il famoso litigio senza la collaborazione di Patrizia.  Se fosse riuscito a provocarla tanto da farla arrabbiare… ehi, ma era semplicissimo, l’uovo di Co­lombo! Come tutti i furbi, o presunti tali, a cui riesce bene qualche astuzia, anche lui pensava ormai di poter leggere nelle menti altrui, prevederne tutte le mosse, e di queste disporre a proprio piacimento. 

Poche sere dopo la compagnia si riunì nella darsena di Alessandro per una fe­sticciola, con quel tanto di roba da mangiare per appoggiarci su l’enorme quantità di vino a disposizione. Avevo lottato disperatamente contro i divieti genitoriali e gli sbuffi di Alberto, ed alla fine avevo ottenuto di accompagnare il fratel­lone; ed ora mi trovavo in quella stanza in penombra, un po’ spaesata nell’habitat notturno dei più grandi, un po’ di vinello nel bicchiere per darmi forza & coraggio, e decisa a far luce sul caso. 

Puccio sembrava essere tornato indietro di tre settimane: ciondolava da un gruppetto all’altro ridacchiando e trascinandosi appresso un bicchiere di carta che ogni tanto riempiva da un fiasco personale che aveva poggiato in un posticino ap­partato, alle dieci di sera sembrava già notevolmente alticcio. Patrizia per una volta non gli stava appiccicata e cicalava con altre ragazze senza curarsi di quanto stesse bevendo il suo uomo; ma la sua allegria sembrava un po’ forzata.

Come d’altronde quella di tutti: era chiaro che si attendeva solo il momento in cui la temperatura della festa iniziasse a salire – e l’intensità delle luci a scendere; ed intanto la popolazione si dava da fare con cibarie e bevande per accelerare il processo. Quel giro – nel Settanta era anche un po’ presto – non faceva uso di spinelli.

Credo che fu mio fratello Alberto a lanciare l’idea di fare un’indianata. Per chi non se lo ricordasse, l’indianata era un gioco di società che si prefiggeva il chiaro scopo di far ubriacare i partecipanti. Ci si sedeva tutti in cerchio e ciascuno sce­glieva un nome in codice ed un gesto collegato (erano permesse anche oscenità, e molti ne approfittavano). Si metteva un bicchiere di vino colmo al centro del cer­chio, e si iniziava a richiamarsi l’un l’altro: il prescelto doveva prima dire il pro­prio nome/gesto, poi quello di un altro; costui doveva fare lo stesso, e così via, molto velocemente, finché qualcuno non sbagliava qualcosa in un nome o un gesto. A questo punto il gioco si interrompeva, ed il malcapitato doveva  scolarsi il bic­chiere prima di ripetere il tentativo. 

Per evitare che qualcuno facesse il furbo e non vuotasse per intero il bicchiere, c’era il meccanismo della verifica. Ogni giocatore poteva chiederla, e allora si ca­povolgeva il bicchiere vuoto: se ne cadevano più di tre gocce, il reprobo doveva ri­petere l’operazione; altrimenti il bicchiere pieno toccava al malfidato. 

Naturalmente chi più sbagliava, più beveva, e quindi rischiava vieppiù di im­pappinarsi; nel complesso tutto il gruppo raggiungeva uno stato di calda euforia, e l’atmosfera cresceva sino al punto in cui bastava una smorfia per scatenare risate da spaccare anche i bicchieri di plastica, e si iniziava a non far più caso a cosa poteva succedere. Poi alla fine subentrava il sonno, e di solito l’indianata si esauriva da so­la.

Puccio e Patrizia si sedettero per terra, lei appoggiata contro di lui, lui che l’ab­bracciava da dietro, e come al solito si scambiavano innocenti bacetti e carezzine. Puccio sembrava sempre più bevuto, ma si impappinava meno di quanto non avrebbe dovuto: nessuno s’era accorto che buona parte del  vino era finita ai pesci, e lui sapeva fare benissimo l’ubriaco.

Il suo piano era di fare a Patrizia tali avances da provocare in lei una  reazione negativa; poi sarebbe stato facile gonfiare la cosa sino ad una scenata davanti a tutti. Bastava aspettare che l’atmosfera si scaldasse abbastanza, in modo da far sembrare naturale qualche approccio al di là del  consueto.

Fatto sta che – li stavo sempre tenendo d’occhio, ero venuta apposta – ad un certo punto vidi le mani di Puccio strecciarsi dalla vita di lei e salire sino a coprirle i seni a coppa, mentre il volto si tuffava tra i capelli in cerca di un punto sensibile sul collo. Vidi chiaramente Patrizia irrigidirsi, ma fu solo un attimo: si abbandonò contro di lui e gonfiò il  torace con un sospiro, in modo da offrirgli miglior presa.

Naturalmente la compagnia cominciò a bersagliarli di chiamate, ma loro riu­scivano sempre a rispondere con sufficiente prontezza: una sola volta Puccio venne colto in fallo, e due Patrizia. E ogni volta, immancabilmente,  riassumevano la po­sizione precedente.

Puccio era sconcertato: aveva tenuto d’occhio Pat per tutta la sera, non gli sem­brava che avesse bevuto tanto da non accorgersi di cosa succedeva. Proviamo qual­cos’altro, pensò, e si mise a massaggiarle i capezzoli con i pollici. E Patrizia chiuse gli occhi con un languido sospiro. Io ero a dir poco allibita, tant’è che venni colta in fallo e dovetti scolarmi il bicchiere regolamentare, e già mi girava un po’ la te­sta. Uno spiritoso voleva chiedere la verifica, e ci avrebbe senz’altro azzeccato, ma mio fratello lo dissuase, lasciala stare, poi devo portarmela  a casa in spalla, e i vec­chi domattina me li sento io.

Sulla moquette eravamo tutti a piedi nudi, le scarpe ammucchiate da una parte (e gli ubriachi se le sarebbero bisticciate alla fine della serata), e Puccio ne approfittò per tentare l’ultima carta: se lei voleva fare la spiritosa, lui sarebbe stato al gioco, che gli costava? Fa salire un piede sino ad incastrare alla perfezione il tal­lone nel cavallo dei jeans di Patrizia, ed inizia a muoverlo impercettibilmente, deli­catamente, sincronizzandolo con il moto dei pollici. E lei incrocia le gambe, tende le braccia in alto, gli gira la testa, torce il collo e lo bacia appassionatamente. Così, avviluppati come Amore e Psiche, i due scivolano distesi, lui sotto e lei sopra. La compagnia non si stupisce più di tanto: la stanza é quasi buia, già qualche coppia si é appartata nello stesso modo: qualche commento tipo amen, fuori altri due, e l’in­dianata continua senza di loro.

Puccio era imbarazzatissimo, non capiva dove lei volesse andare a parare. Que­sto non l’avevano mica concertato, che le prendeva a Patrizia? Lo stava pigliando in giro, o era tanto ubriaca da volersi spingere in territori pericolosi?

Che c’é, grand’uomo, abbiamo staccato i fili? mormora lei con voce roca. Oppu­re sei buono soltanto a fare per finta?

Che ti prende, sei sbronza? balbetta lui allarmato. Non, non c’é bisogno di tutto questo, é, é buio e nessuno ci vede. 

Ma guarda, lo canzona la maliarda, il poooverino sta perdendo il controllo della situazione! Non era previsto, vero, la braaava obbediente Patrizia doveva in­cazzarsi, farti la famooosa scenata, così tu la piantavi  davanti a tutti e festa finita.

Ti, ti assicuro, Patti, che non, non, non…

Oooh, ma davvero! Credi proprio di essere così furbo? Credi che non me ne sia accorta di quello che volevi fare? Ti sei preso un mese di palpeggiamenti e sbaciuc­chiamenti gratis, e adesso mi vuoi mollare così, senza neanche essere d’accordo per farlo? Ma chi ti credi di essere, Rodolfo Lavandino?

Ma, ma, ma se ho dovuto fare le fatiche di Ercole per convincerti a metter su questa baracca, eri tu che, che volevi sempre finirla prima del tempo, che, che in­somma, per farti fare la benché minima cosa lo so io il  sangue che ho sputato!

E che ti credi, che ho ancora cinque anni che mi piace giocare al  dottore? San­tiddio, Puccio, ma allora sei proprio cieco! Io credevo che te  ne fossi accorto e vo­lessi tenermi a distanza!

Accorto di che, scusa?

Ma guarda che salame in barca, che stronzo quadrato! Tutta la sua  filosofia, tutta la sua esperienza, e non riesce a vedere quello che ha  sotto il naso! E dire che ti ci ho messo persino le tette, sotto a quel  naso, e tu niente, come acqua fresca! 

Ma cosa avrei dovuto fare, perdio? Non mi verrai a dire che ti sei incottata di me? 

Oh, porcogiuda, piantiamola li. Volevi la scenata e l’hai avuta: se  vuoi adesso possiamo ripeterla un po’ più forte, in modo che se ne  accorgano anche gli altri.

No, perché se é così, siamo una bella coppia di salami! Per che cosa  credi che mi sia venuta in mente tutta quella messinscena? Perché avrei  dovuto scegliere proprio te?

Me l’hai spiegato quella prima sera: eravamo sulla stessa barca…

Già, e ci ho messo mezza giornata a trovare una spiegazione che potesse con­vincerti che ero disinteressato. E poi mi sai dire dove avrei trovato il coraggio per fare a botte con quell’elefante del Claudio, se non ci avessi tenuto davvero a te?

Ma allora…

Ma allora ho ragione io: siamo stati due salami. Se si risapesse,  poveri noi.

Ricominciamo?

Con la sceneggiata? No, semmai ricominciamo daccapo tra di noi.

Voglio recuperare tutto il tempo perduto.

Voglio imparare tutte le tue fantasie, mi sono accorto che ne sei ben  fornita.

Voglio stancarti le mani a forza di toccarmi.

Voglio baciarti dove non ti ha mai baciato nessuno.

Ma a me prima di te non mi aveva mai baciato nessuno.

Appunto, quindi ho tutto un corpo a mia disposizione.

Sai perché mi piaci? Perché con te tutto sembra pulito.

Omnia munda mundis.

Non so il latino.

Appunto, devi rispondere: Lei ne sa più di me.

Ah, Fra’ Cristoforo, vero? L’ho studiato quest’anno.

Ma dove stanno i bottoni di quest’accidente di camicetta?

Lei ne sa più di me.

Non si erano accorti che mi ero messa ad una ventina di centimetri e  che avevo captato tutto il discorso. D’altronde, come ho già avuto  occasione di dire, di me non si accorgeva mai nessuno.

Quando, felici e stremati, si ricomposero, richiamai la loro attenzione: Ehi, voi due! Sì? Vi siete messi insieme adesso, vero? Ma che discorsi sono, é quasi un me­se che stiamo insieme! Sì, ma quello era per  finta, invece stasera fate sul serio, ci ho azzeccato, vero?

Mi chiamarono in mezzo a loro, si fecero dire tutto quello che avevo scoperto, mi fecero giurare il segreto, e per tutto il tempo che stettero insieme giocammo alla famiglia: papà, mamma e una bimba discola e intelligente. Puccio mi portava a spasso in motorino, mi comprava il gelato, mi difendeva dagli scherzi cretini; Pa­trizia mi pettinava e truccava, riceveva le mie piccole confidenze, mi insegnava a comportarmi da  donnina.

Se con le mie indagini avevo voluto dimostrare di essere grande, mi ero proprio data la zappa sui piedi!

Lascia un commento

XHTML: Puoi usare questi tags: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>