Gli occupanti
Pubblicato da poetto il 31 luglio 2009
Da quando sono rimasto solo passo le mie giornate a fare passeggiate, a guardare la tivu’, a non far nulla.
Non ho mai avuto un hobby, una passione, un qualcosa, la mia passione era andare in giro con mia moglie, Marta, da quando lei se ne andata il mio mondo è cambiato.
Abito, da 23 anni, in una casa popolare, al secondo piano di un palazzo che i giovani vandali della zona hanno ridotto in uno stato pietoso, i citofoni vengono regolarmente rotti, l’ascensore è perennemente guasto…avessi soldi avrei già abbandonato questo posto.
Lunedì mattina, il telefono squilla.
. Pronto… signor Mario! – c’è una voce femminile all’altro capo del telefono, non riesco a riconoscerla.
. Si! Chi parla?
. Sono la figlia di Carlo…Carlo Martelli. Signor Mario la chiamo per dirgli che mio padre è stato ricoverato…sta male…
Conosco Carlo da una vita, siamo in pratica cresciuti insieme, non faccio terminare, capisco quello che la voce di Chiara, la figlia, rotta dall’emozione, vuole che faccia.
Mi preparo per andare in ospedale.
Chiudo la porta, sul pianerottolo Patrizia, la figlia del signor Rotta, quello del piano di sopra, mi guarda, segue i miei gesti.
L’ascensore arriva.
La visita a Carlo è finita, fortunatamente è stato preso in tempo, forse tra due settimane tornerà a casa, comunque non è, a detta dei cardiologi, in pericolo di vita.
Arrivo a casa.
L’ascensore si chiude dietro di me, prendo la chiave e la infilo nella serratura.
Stranamente non gira.
Riprovo, non è possibile che la porta non si apra, continuo ad armeggiare incredulo su quella serratura, domandandomi come possa essere possibile che la chiave non giri.
Dopo cinque minuti, che sembrano ore, sento da dentro la mia casa una voce: Vattene! Ora ci siamo noi.
La voce è quella di Patrizia.
Resto senza parole, lo shock mi blocca, non riesco a dire nulla, anzi non riesco neanche a crederci.
Un’altra voce si aggiunge, questa volta è maschile, è del marito: Vattene via…noi abbiamo più diritto di te ad avere questa casa.
Al sentire quella voce qualcosa da dentro mi scuote, incomincio a battere contro la porta, a gridare di liberare immediatamente la mia, e ribadisco urlando, mia casa.
Il palazzo si anima, un capannello di gente assiste alla scena, gente di parte, infatti molti sono parenti di Patrizia, assistono comunque in relativo silenzio, almeno nell’agitazione del momento non mi accorgo quasi di loro, sento solo la loro presenza.
I minuti passano senza che gli occupanti escano dalla mia casa.
Mi rendo conto di quanto sia grave la situazione.
Esco fuori del palazzo, davanti al portone d’ingresso chiamo, al cellulare, la polizia dicendogli che delle persone hanno occupato la mia abitazione.
Mi siedo nella mia macchina per aspettare l’arrivo dei poliziotti.
Quei delinquenti l’hanno studiata bene.
Fiducioso che le forze dell’ordine ristabiliscano le cose, riesco a trovare un po’ di calma.
Arrivano due auto della polizia.
Un agente, con i capelli neri ed un pizzetto ben curato, mi domanda cosa è accaduto, gli spiego la situazione.
Saliamo insieme.
I poliziotti bussano alla porta.
Da dentro la casa si sentono delle urla.
Patrizia apre, ha in mano una tanica con del liquido, vicino a lei il figlio di quattro anni, il marito e, dietro di loro, la madre del marito in carrozzina.
I poliziotti si avvicinano alla ragazza, improvvisamente questa si versa il liquido addosso, che dall’odore direi essere benzina, grida con tutta la voce che ha in corpo.
. Se mi portate via da qui mi do fuoco…mi do fuoco! – urla Patrizia.
. Signora si calmi! …stia ferma…non faccia così…cerchiamo di ragionare – cerca di riabbattere uno dei poliziotti.
. Andate via! Lo vedete come sono? Siamo in quattro disperati, senza casa, senza nulla e lui solo…in una casa di 120 metri quadri…vi sembra giusto?…no! Non me ne vado …andate via o mi do fuoco.
Il lui era riferito a me.
I poliziotti mi guardano, le ore passano, la baraonda è tanta, poi uno di loro, sicuramente il superiore, mi dice: Signor Mario lei ha ragione ma noi non possiamo buttare fuori queste persone.
. Come non potete buttarle fuori? La casa è la mia e loro se ne sono appropriati senza diritto…c’è tutta la mia roba…è la mia casa!
. La situazione non è così semplice.
. Cosa?! Come sarebbe a dire?!
Il poliziotto mi dice che non possono buttarli fuori con la forza, mi spiega allora la procedura che in questi casi si deve seguire.
Resto incredulo ad ascoltare.
Sono senza vestiti, senza mangiare, senza nessuno che mi possa ospitare.
Ha figli? Mi domanda l’agente col pizzetto.
No! gli rispondo, in tono decisamente sgarbato.
La soluzione provvisoria, in attesa di sbattere fuori gli intrusi, è quella di dormire, almeno per oggi, così mi dice l’agente, in un albergo, gli spiego che gli occupanti si sono impossessati anche dei 700 euro che tenevo in casa, con me ho solo 20 euro, pochi per un albergo, mi dice di non preoccuparmi, facile per lui…la casa non è certo sua.
Sono passati tre anni, dico tre anni da quel giorno.
Loro sono ancora lì, ma non per molto.
Domani mattina le forze dell’ordine libereranno quella che per 23 anni è stata la mia casa.
In questi tre anni sono rimasto in un ospizio comunale, dividendo la “mia” stanza con due anziani pieni di acciacchi, che scambiavano la notte per il giorno, che…è stata dura.
Ogni tanto avevo notizie della mia casa.
La suocera di Patrizia è finita in un ospizio chissà dove, il figlio è stato tolto alla coppia.
Le mie cose sono finite al mercatino dell’usato.
Si sono venduti tutte le mie cose, tutto quanto, lì dentro non c’è più nulla che ricordi la mia presenza.
Il signor Rotta è deceduto, suo figlio più piccolo, Dario, occupa, assieme alla propria famiglia, la casa.
I rimanti quattro figli sono andati a vivere da altre parti.
Due giorni fa sono passato per vedere come andavano le cose, ero da molto che non passavo, questa volta lo spirito della visita è diverso.
Maurizio, il figlio di Dario, un ragazzetto di sedici anni, si è avvicinato, mi ha sorriso.
. Ci sei riuscito?! – mi dice con aria spavalda, guardandomi dritto negli occhi.
. Come dici?
. Ti sembra giusto che uno viva in un buco del centro con tutta la famiglia?
. Senti…perché non vai a farti un giro? – gli dico con voce calma, vorrei tanto prenderlo a pedate.
. Voglio solo dire che ad una certa età possono succedere tante cose…buona giornata.
La minaccia è chiara, non sono il benvenuto, temo che il mio rientro in quella che era stata la mia casa potrebbe rivelarsi un percorso pieno di ostacoli, per usare un eufemismo.
Passo quella notte insonne decidendo cosa sia meglio fare, se ritornare in quella casa, che quei delinquenti hanno completamente svuotato di tutte le mie cose, oppure sia meglio rimanere in questa struttura, dove, anche se faccio fatica ad ammetterlo, mi trovo, tutto sommato, bene.
Le ore passano, cerco di pesare i pro ed i contro.
Alle quattro del mattino decido di lasciarla ad altri.
Il giorno dopo ne parlo con i responsabili del comune, spiego loro la mia situazione, i miei dubbi, le mie ansie, loro, due signore sulla cinquantina, ascoltano in silenzio, senza interrompere il mio lungo monologo.
La casa viene assegnata alla famiglia Gatti, un nucleo famigliare di sei persone.
Rimarrò qui, ho ottant’anni, anche se ora sto bene in salute quanto mi resterà ancora? Voglio terminare la mia esistenza in modo tranquillo, quelle persone, ne sono certo, mi avrebbero reso gli ultimi anni della mia vita un inferno.
Non sono contento di questa decisione, per me è una sconfitta, un vero insulto alla giustizia, uno schiaffo a piene mani…non sono un coraggioso come certi personaggi del cinema e anche se mi pesa tantissimo ritengo che questa sia la soluzione migliore.
31 luglio 2009 alle 14:38
Ciao poetto,
interessante il tema che tratti qui, non ricordo di averlo mai letto in un racconto. La tua scrittura diretta e senza fronzoli da un tono quasi giornalistico, di cronaca, che dona un non so che di autentico al tutto.
Grazie per avercelo fatto leggere