Category: Narrativa


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Variazioni sul tema

Freddo.
Era quella l’unica parola che non lasciava spazio ad altre nella sua mente. L’uomo era avvolto nei cartoni resi ormai fragili e molli come fogli di carta da quella pioggia che continuava a cadere, incessante. Doveva combattere, lasciarsi andare sarebbe stata per lui la fine.
Tentò di scaldarsi le mani tremolanti sfregandole l’una contro l’altra, ma non bastò. Si schiacciò contro l’unica parete che lo proteggeva dal vento gelido, ma il cartone assecondò quel movimento alzandosi dal terreno e permettendo ad un soffio di aria gelida di raggiungere la sua schiena.
I suoi pensieri erano confusi, appannati. Si doveva muovere stava congelando, il suo corpo come accortosi dei suoi pensieri gli rispose con un fremito che durò diversi secondi, non ce la faceva più.
Così l’uomo si alzò ed abbandonò quel giaciglio, se così poteva definirlo, rivolse lo sguardo al cielo e le gocce di pioggia scivolarono lungo i lineamenti duri della sua fronte, dei suoi zigomi, per poi scomparire sotto la folta ed ispida barba nera e ricomparire lungo il suo collo.
Si guardò attorno, non aveva idea di dove andare, ma un po’ di movimento lo avrebbe scaldato e magari con un po’ di fortuna avrebbe trovato un rifugio migliore.
Iniziò a camminare sotto l’incessante pioggia che parve aumentare di intensità quasi a scoraggiare la sua ricerca. Imboccò un vicolo, lo percorse cercando di stare quanto il più possibile vicino alle pareti dei vecchi palazzi. La pioggia, raccolta dai tetti degli edifici, raggiungeva la strada scendendo velocemente lungo le grondaie, l’uomo non poté evitare di inzupparsi i piedi mentre vagava per quelle strade deserte. Un fulmine squarciò il cielo donando alla strada un temporanea colorazione bluastra il tuono che seguì fece vibrare le finestre dei piani più alti. Sentì la voce di una tv accesa che filtrava attraverso una finestra, rumori di normalità, di gente che non aveva la benché minima idea di cosa volesse significare vivere in strada, vivere giorno per giorno, anzi, sopravvivere.
Non poteva andare avanti così, doveva trovare un posto asciutto. Notò una rientranza in un muro, era l’ingresso di palazzo che aveva l’aria di aver almeno due secoli, la raggiunse e si fermò lì a riflettere, forse l’aver abbandonato i cartoni non era stata proprio una bella idea.
Si strinse nei suoi abiti bagnati, di nuovo quel fremito, non riuscì a fermarlo.

Qualcuno aprì il portone e permise all’uomo di entrare.

Si appoggiò involontariamente al grosso portone in legno e sentì un click, si aprì. Poteva entrare si, ma poi se fosse stato scoperto? Potevano avvisare la polizia e probabilmente sarebbe stato portato via come un cane randagio, i guai erano sempre dietro l’angolo. Ma aveva freddo, troppo freddo e dunque decise di entrare.
Aprì il portone lentamente, la luce dell’ingresso lo colpì in pieno volto e il suo viso si contrasse in una espressione di dolore, la luce dell’interno era troppo forte rispetto all’oscurità della strada. Richiuse la grossa porta dietro di se, il suono della pioggia scomparve quasi completamente.
Guardò l’enorme lampadario da cui scendevano eleganti gocce di vetro, la scala in marmo bianco ricoperto di venature nere che portava al piano superiore e il cancello in ferro sapientemente battuto dell’ascensore, pensò a quanto fosse raffinato l’interno di quel palazzo, anche se le pareti erano completamente scarne, di un bianco che lo accecava.
Il silenzio dell’atrio fu rotto dal parlare fievole di due persone, una delle due voci era sicuramente femminile ma non aveva il tempo di mettersi a spiare quella conversazione, abbandonare i cartoni era stata una cattiva idea ma entrare in quell’edificio era stata pessima. Ed ora cosa poteva fare?
Il portone era chiuso, provò a cercare un interruttore o qualcosa di simile per riaprirlo ma non ebbe successo. Mentre i rumori dei passi accompagnati dallo sfregare dei loro abiti si facevano sempre più vicini, si infilò nell’ascensore. Fece appena in tempo a richiudere il cancello e la porta più interna quando le due figure giunsero al pian terreno. Pienamente impegnati nella loro conversazione non fecero caso alle impronte che l’uomo nell’ascensore aveva lasciato sul pavimento. Sentì il tintinnare di chiavi e lo scattare della serratura, i due uscirono dal palazzo e il clochard almeno per questa volta fu accarezzato dalla fortuna.
Guardò con curiosità il resto dell’ascensore che stonava rispetto alla porta che aveva appena chiuso, notò che le pareti assomigliavano molto a quelle degli ascensori ospedalieri, riusciva quasi a specchiarsi su quella superficie di acciaio opaco. Sopra alla sua testa diversi faretti circolari proiettavano la sua ombra sotto i suoi piedi, ma quello che lo fece raggelare quasi si trovasse di nuovo sotto la pioggia, fu scorgere la pulsantiera.
Gli balzò immediatamente agli occhi la stranezza dei tasti, mentre qualche pulsante era del tutto normale con numeri in bassorilievo, altri presentavano curiosi simboli, non aveva mai visto nulla del genere e poi ce ne erano troppi. Quell’edificio poteva avere tre forse quattro piani, ma li davanti ai suoi occhi c’erano almeno una ventina di tasti. Si domandò a cosa potessero servire, magari per raggiungere qualche piano sotterraneo o forse erano pulsanti che semplicemente non funzionanti, era quella una possibile spiegazione. Ma la sua curiosità era tanta e ancor più grande la tentazione di premerne uno, così fece la sua scelta tra quelli che definì strani e schiacciò, ma non accadde nulla.
L’ascensore non si mosse di un solo centimetro ma lungo il bordo del tasto che aveva premuto prese a lampeggiare una luce rossa, come a segnalare che quel pulsante era stato appena selezionato.
Pensò di schiacciarne un altro, lo scelse a caso. Come era accaduto per il primo anche intorno al secondo comparve quella luce rossa, ora erano due i tasti selezionati.
Tentò con il terzo, l’ascensore questa volta si spostò silenziosamente. Non era mai stati fortunato e forse l’aver indovinato una delle poche combinazioni possibili non era stata una vera fortuna.
Capì che si stava muovendo solo grazie alla percezione dalle piccole vibrazioni sotto ai suoi piedi, scese sotto terra di diversi livelli e un breve tono acustico lo avvisò che era il momento di scendere così aprì le porte ed abbandonò quella scatola di metallo.

Qualcuno sapeva dell’uomo uscito dall’ascensore ma lo lasciò fare.

Iniziò a percorrere un lungo corridoio, lungo i due lati c’erano diverse porte. Le pareti erano completamente bianche del tutto simili a quelle dell’atrio, tra una porta e l’altra piccole abatjour dorate rendevano l’ambiente discretamente illuminato. Le porte erano di noce e le cornici intorno erano dello stesso colore, le maniglie dorate riprendevano lo stile delle lampade e affianco ad ogni porta erano presenti tre simboli di quelli che aveva già visto nell’ascensore..
Aveva percorso almeno cinquanta metri ed ora il corridoio svoltava verso destra dove una rampa di scale portava al piano inferiore. Si domandò se non fosse giunto il momento di tornare indietro, ma sentì il cigolare delle cerniere di una porta e vide un uomo uscire da una di quelle stanze, terrorizzato si nascose dietro l’angolo. Chiunque fosse, ora stava procedendo verso di lui, non aveva altra scelta che scendere al piano inferiore.

Qualcuno permise all’uomo di giungere al secondo piano sotterraneo..

Discese le scale rapidamente e si ritrovò in un altro interminabile corridoio, solo che questa volta non c’erano porte lungo le due pareti ma ce n’era soltanto una in fondo.
L’uomo percorse quel tratto correndo come un pazzo, giunse davanti a quella porta con il cuore in gola, anche su quella c’erano tre simboli, provò ad aprirla ma era chiusa. Si girò, pensava di trovare qualcuno alle sue spalle, ma non vide nessuno evidentemente il suo inseguitore era entrato in qualche altra stanza del piano superiore. Ma non poteva tornare indietro, era troppo rischioso. Riprovò con la maniglia che scosse più volte e il risultato fu sempre lo stesso, la porta rimase chiusa.

Qualcuno decise che era il momento di far entrare quell’uomo.

La porta si aprì e questo lo spaventò, era sicuro che sino ad un attimo prima fosse ben chiusa, pensò che forse era stata aperta dall’interno e che presto ne sarebbe uscita una figura di almeno due metri di altezza pronta a ributtarlo fuori come spazzatura. Non accadde nulla. Aprì la porta ed entrò in quella stanza.
Al centro un grosso tavolo in legno era imbandito di ogni ben di Dio, tra piatti di fine porcellana e calici di cristallo bordato d’oro svettavano bottiglie di vino rosso e bianco come piccoli grattacieli. I numerosi piatti contenevano carne, verdura e frutta, non vedeva tanto cibo messo insieme dall’ultimo Natale passato in famiglia. Non perse tempo neanche a sedersi, si gettò sul cibo come un cane affamato, ne portò tanto in bocca da far sembrare che le sue guance contenessero due palle da tennis. Deglutì un grosso boccone e rimase in apnea per qualche secondo nel tentativo di farlo scivolare lungo l’esofago. Con le mani colme di cibo diede un ulteriore sguardo alla stanza. Le pareti erano colme di quadri, grandi e piccoli, notò che tutti avevano la stessa cornice e ritraevano il medesimo soggetto, un uomo di spalle che camminava in strada sotto la pioggia.
Si chiese per chi fosse stata preparata quella tavola imbandita, ma in fin dei conti non era importante saperlo. Prese una bottiglia di vino e bevve, il fluido rosso che defluì nel suo corpo lo scaldò. Ripose la bottiglia e vide qualcosa sul tavolo che non aveva notato prima, vicino ad un piatto c’era busta da lettere. Era stata sigillata, con della ceralacca che ne impediva l’apertura. Guardò meglio il sigillo notò che conteneva gli stessi simboli della porta, ora ricordava, erano gli stessi che aveva premuto nell’ascensore.
Sotto al sigillo era scritto: “Per l’uomo senza fissa dimora.”
Spezzò il sigillo piegandolo a metà, piccole schegge di ceralacca rossa caddero a terra. La busta conteneva dei fogli di carta ripiegati, li estrasse e li aprì. Iniziò a leggere.
“ Qualcuno voleva che…”
Svoltò la prima pagina ed ancora quella successiva con gli occhi che si spostavano freneticamente da una lato all’altro. Gli sembrò di ripercorrere l’ultima ora della sua vita e in effetti era così. Il suo sguardo tornò su i quadri, quell’uomo era forse lui? Temette di sì.
Lesse le ultime righe.
“…il suo sguardo tornò su i quadri, quell’uomo era forse lui? Temette di sì…”
Lasciò cadere i fogli a terra in preda al panico, ebbe l’impulso di rimettere tutto quello che aveva mangiato ma riuscì a trattenerlo. Corse verso la porta e tentò di aprirla ma fu tutto inutile era di nuovo bloccata.
Si voltò. Assistette incredulo allo svanire di ogni cosa. Vide scomparire nell’aria i quadri, lo stesso accadde per i fogli che poco prima aveva stretto nelle mani. Poi toccò alle sedie, alla tavola imbandita e al resto del mobilio. Le pareti e il soffitto svanirono, tutto intorno a lui divenne nient’altro che bianco, il silenzio divenne rumore.
L’uomo accecato chiuse gli occhi. Poi scomparve.

Qualcuno ebbe un’altra idea.

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Quel paio di guanti

Prendeva quel treno tutte le sere, ma forse questa, sarebbe stata l’ultima volta.
Lavorava ormai da due anni in un bar, gli piaceva quel lavoro, anche se a volte era davvero duro. Ma andava bene così, d’altronde studiare non era stato mai il suo forte.
Camminava sul marciapiede con le mani nelle tasche del suo giubbetto, il vento soffiava forte e il cielo si era tinto di un grigio inquietante. Sarebbe nevicato? Non lo sapeva, ma la temperatura doveva essere proprio intorno allo zero. Si sistemò meglio la sciarpa per proteggere meglio le vie aeree, notò i passanti emettere sbuffi di aria calda dalla bocca e dal naso, mentre le auto imitavano quel comportamento emettendo nuvolette bianche dai tubi di scarico. Per raggiungere la stazione doveva camminare per almeno dieci minuti, era convinto che ci fosse una remota possibilità di congelarsi anche prima.
Svoltò l’angolo, abbandonando la strada secondaria per immettersi in quella principale che terminava proprio nella piazza della stazione. Guardò l’orologio.
“Oh cavolo, ma sono in ritardo.” Pensò.
Affrettò il passo, non poteva perdere quel treno, solo l’idea di aspettare per venti minuti la corsa successiva lo fece rabbrividire. Attraversò la strada, per poco non venne investito da un taxi, ma alla fine giunse incolume nella piazza della stazione. Tra lui e quel treno c’erano ormai un centinaio di metri. Entrò nell’edificio e controllò rapidamente il tabellone degli orari. Il treno era in perfetto orario.
“Mai un ritardo quando ti serve.” Disse tra se e se.
Imboccò il sottopassaggio, affrontando gli scalini a due a due. Mentre percorse il tunnel una voce maschile annunciò l’imminente arrivo del convoglio, a quel punto stava praticamente correndo. Mentre saliva le scale più rapidamente di quanto non le avesse discese poco prima, sentì l’acuto dei freni del treno e il vibrare del terreno sotto ai suoi piedi.
“Si, ce l’ho fatta.” Realizzò con evidente soddisfazione.
Riemerse dal sottopassaggio. Il suo respiro si era fatto più intenso, l’aria gelida che respirava gli bruciava nei polmoni. Le porte si aprirono ed entrò nel treno dove la temperatura risultò piuttosto piacevole.
Era salito nella carrozza centrale. Attraversò rapidamente i diversi vagoni, quasi tutti deserti, varcando le porte scorrevoli. Si sistemò nel vagone vuoto di coda, il suo preferito, mentre la città prese a scivolare via lungo i finestrini. Si tolse la sciarpa arrotolata attorno al collo e si sbottonò la giacca. Si rilassò. Trascorse così qualche minuto sentendo affiorare nel suo corpo tutta la stanchezza di una giornata di lavoro. Incantato dal rumore quasi ipnotico del treno e dal tepore della cabina, rischiò di addormentarsi. C’erano parecchie fermate prima della sua stazione, ma la prima era già visibile in lontananza. Il treno cominciò a decelerare, poi, si arrestò completamente. Dopo qualche istante si aprì la porta della cabina, entrò una ragazza, una corrente di aria fredda accompagnò il suo ingresso. Lo ignorò completamente e prese posto sull’altro lato della cabina rivolgendo da subito il suo sguardo verso il finestrino. Lui fece lo stesso. Ma poi mentre il treno partì, tornò a guardarla, non tentò neanche minimamente di resistere a quella tentazione. La vide mentre si tolse il cappello, i suoi capelli le scivolarono lungo le spalle, e sfilarsi i guanti che poggiò sul sedile affianco. Incrociò per un breve istante il suo sguardo, i suoi occhi azzurri erano in perfetta armonia con il freddo di quella sera.
Ma notò qualcosa in quegli occhi, tristezza, malinconia o disperazione. Cosa poteva rattristarla in quel modo? Non lo sapeva. Ma gli sembrò, almeno per un istante, di percepire le sue stesse emozioni. Doveva parlarle, si fece coraggio, si alzò. Percorrere quel tratto di corridoio fu come attraversare, sospeso a decine di metri, un ponte fatto di sole corde. Era agitato.
Giunse lì, davanti a lei. Lo guardò e prima che lui potesse dire una sola parola lei disse:
“Siediti”.
Così fece senza esitare. Il silenzio tornò prepotente tra loro. Per qualche minuto i due ragazzi rimasero a fissare lo stesso finestrino, lo stesso paesaggio, la stessa città.
“Stai bene?” Non trovò niente di meglio da dire.
I loro sguardi si incrociarono ancora una volta. Notò quanto fossero dolci i lineamenti del suo viso, giurò che poche cose al mondo potessero sperare di eguagliare quella particolare bellezza.
“Si, grazie. Ho solo avuto una brutta giornata.”
“Mi dispiace.”
“Non ti preoccupare. Può capitare a tutti.”
I due parlarono per più di mezz’ora. Avvertirono da subito una certa sintonia, attrazione, qualcosa che entrambi non avevano mai provato per nessun altro. Il tempo così, passò velocemente, il paesaggio intorno a quel treno mutò, la città lasciò il posto alle case di campagna e ai campi coltivati.
“La prossima fermata, è la mia.” Disse la ragazza.
“La mia è quella dopo.” Gli rispose lui.
I freni entrarono in azione, il treno si fermò.
“E’ stato bello incontrarti.”
“Si, lo è stato anche per me.”
Si alzarono entrambi, poi rimasero fermi, come sospesi nello spazio in assenza di gravità. Lei fece un passo verso di lui, i loro respiri si intrecciarono. Il suo viso si inclinò su un lato e lei lo baciò su una guancia, il calore delle sue labbra riscaldò la pelle di lui.
Lei scese dal treno, lui la seguì sino alle porte.
“Ciao”
“Ciao” Rispose lui
Le porte si chiusero.
“Aspetta, non conosco neanche il tuo nome…” Urlò, ma ormai era troppo tardi.
Non si erano presentati, non conosceva il suo nome, non aveva un suo numero di telefono. Si rese conto che non aveva nulla per poterla rintracciare.
Lo salutò dalla banchina agitando una mano, lui fece lo stesso. Si spostò verso l’interno della cabina dove attaccato al vetro che spannò con una mano, continuò a salutarla, poi lei svanì oltre il profilo del treno. Forse l’aveva persa per sempre.
Il ragazzo si mise seduto, raccolse un giornale, di quelli distribuiti gratuitamente. Lo sfogliò. Un articolo catturò la sua attenzione.
“Ragazza deceduta ieri sul treno, colta da improvviso malore..”
L’articolo era corredato di una foto della ragazza. Quasi gli prese un infarto. Era lei ne era sicuro.
“Ma non è possibile…”
Girò lo sguardo, vide i suoi guanti ancora lì, poggiati sul sedile affianco a quello dove poco prima era seduta lei.
“Allora non mi sono sognato tutto?”
Li raccolse e li strinse nelle mani, non era diventato pazzo, l’aveva incontrata veramente.

Quella ragazza prendeva quel treno tutte le sere, ma quella, fu l’ultima. Percorse la banchina in direzione opposta a quella del treno, passò sotto l’insegna ed attraversò le deboli luci della stazione, poi continuò. Ormai giunta alla fine della banchina, dove l’oscurità era più forte della luce, il suo corpo scomparve nel nulla, abbandonando per sempre la dimensione terrena.