Category: Narrativa


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E’ sempre come la prima volta.

Ho le gambe che tremano, il cuore agitato come le bacchette di un batterista impazzito, il fiato corto e i muscoli rigidi come gelatina.

Non ce la farò mai. Ma perché sono così preoccupato?

Mi sono allenato e sono pronto per questa gara. Tre volte a settimana, un bell’impegno da far coincidere con la famiglia, il lavoro, gli amici, i parenti…

Alcuni pensano che sto soltanto perdendo tempo, che è soltanto il disperato tentativo di vivere ciò che non ho vissuto da bambino. Ma non è così, c’è dell’altro.

Ci siamo quasi, la prossima sarà la mia batteria.

So che questo sport può darmi molte soddisfazioni ed emozioni, oramai ha conquistato una fetta importante della mia vita, ho nel cuore l’idea e il desiderio che tutto questo non finisca mai.

Non tutti riescono a comprendere cosa vuol dire vivere uno sport in questo modo, allenarsi per diverse ore alla settimana, andare alle gare il sabato e la domenica rinunciando al riposo o ad una più tranquilla passeggiata. Vorrei che anche loro riuscissero a provare quello che provo io anche solo per qualche istante, in questo modo riuscirebbero a comprendere la mia scelta.

Un suono interrompe i miei pensieri e mi distraggo guardando gli altri nuotatori all’opera. Ancora qualche minuto e ci sarò io su quel blocchetto, sento il mio stomaco attorcigliato su se stesso come una bandiera attorno ad un palo in balia del vento.

Forse dovrei mollare, ma chi me lo fa fare? Mi sto torturando da solo…

Quanti dubbi prima della partenza. Tento disperatamente di spazzarli via dalla mia mente concentrandomi sulla gara appena iniziata.

Guarda quello come spinge! Bella virata… quello in prima si allunga davvero bene…

Uaho, riuscirò mai a fare quel tempo?

Ok, tra poco sarà il mio momento e devo concentrarmi sulla mia gara.

Controllo nella tasca del mio accappatoio il cartellino, gli occhialetti e la…

Dove è finita la cuffia?

Ma che scemo, ce l’ho in testa!

Ecco, ora i giudici fanno avanzare la mia batteria. Prendo posto dietro alla mia corsia poggiando l’accappatoio sulla sedia. Si, questa piscina è sicuramente più lunga di quella dove mi alleno, è interminabile.

No, non essere scemo, è soltanto il mio stato mentale a farmela sembrare così.

Indosso gli occhialini controllandoli e ricontrollandoli ripetutamente, non voglio di certo perderli con il tuffo.

Un fischio ed io ed i miei avversari ci avviciniamo ai blocchi, un altro fischio e saliamo sul blocco di partenza. Non sento le gambe ed il cuore continua a battere con forza nella cassa toracica quasi volesse uscire per gareggiare da solo.

Un giudice pronuncia le due paroline magiche con cui tutto ha inizio.

“…Al posto”

Un breve impulso sonoro dà il via alla gara ed in pochi istanti che a me sembrano interminabili mi stacco dal blocco ed entro in acqua.

E’ il momento di dare il massimo.

Fase subacquea lunghissima, in realtà di appena qualche centimetro, e subito a menar bracciate. Affronto i primi venticinque metri con la giusta cattiveria, sento l’acqua sotto le mie mani e la sensazione di spingere è forte. Credo di non essere mai andato così bene.

Ma dopo la virata è tutta un’altra storia e uscito dalla successiva fase di apnea sento mancarmi il fiato. Ho i polmoni in fiamme a dispetto dell’acqua nella quale sono immerso.

Non riesco a respirare, proprio ora che sono primo della mia batteria…

…con un gesto incontrollato allontano il cuscino dalla mia bocca e finalmente l’aria ricomincia a riempiere i miei polmoni. Apro gli occhi mentre a poco a poco il dolore e la fatica delle mie braccia svaniscono abbandonando il mio corpo. Vengo trascinato via bruscamente da quella dimensione immaginaria che chiamiamo sogno. Sono deluso e arrabbiato come un bambino tirato per un braccio davanti alla vetrina che mette in mostra il suo giocattolo più desiderato.

Non vale stavo andando fortissimo!

Mi siedo sul bordo del letto emettendo uno sbadiglio degno del re della foresta. Penso alla gara di che mi aspetta domani, quelle sensazioni che ho provato in sogno saranno vere come la fatica che mi aspetta, ma so che mi divertirò.

Questo è quello che conta.

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Il vento freddo mi costrinse ad alzare il colletto del cappotto, il cielo limpido e senza nuvole sembrava fosse stato da poco ridipinto come le pareti di una stanza pronta ad accogliere un maschietto appena nato.
Continuai a camminare accompagnato dal grattare della ghiaia sotto ai miei piedi, giunsi così davanti ad un enorme cancello in ferro incastonato tra due possenti colonne. Allungai una mano per afferrarlo ma il cancello iniziò ad aprirsi ancor prima che lo riuscissi a sfiorare. Rimasi fermo mentre si spalancò del tutto, e nel farlo non emise neanche un cigolio.
Mi accorsi dei numerosi cipressi che si ergevano attorno a me soltanto dopo che Eolo decise di scuoterli per bene, fu una folata così forte che fui costretto a tenermi ben stretto il cappotto. Oltre al cancello una scalinata di una ventina di gradini celava l’orizzonte alla mia vista. Iniziai a salire i gradini e dopo qualche istante giunsi alla sommità della scalinata. Il mio cuore ebbe l’idea di farsi una passeggiata sino alla gola e di mettersi a battere come un batterista impazzito.
Davanti ai miei occhi comparve una interminabile distesa di croci, di angeli pietrificati e di vecchie lapidi parzialmente nascoste dalla vegetazione troppo cresciuta. Mi domandai del perché mi trovassi in quel luogo ma non ne ricordai proprio il motivo.
Camminai in mezzo a quei sepolcri per istanti che sembrarono trascorrere veloci come millenni leggendo nomi, date e necrologi. Poi scorsi una donna nelle vicinanze di una enorme tomba, così grande da poter accogliere al suo interno i defunti di un’intera dinastia.
Mi fermai.
Lei entrò nella mia mente e tutto il resto sembrò sparire.
Sembrò non accorgersi della mia presenza. Non riuscii a vederla in viso poiché non era voltata verso di me, ma notai qualcosa di familiare in quei suoi capelli biondi che le scendevano morbidi sino alle spalle. Indossava un vestito bianco che sembrava esserle stato cucito addosso, la gonna le lasciava scoperte le gambe dal ginocchio in giù mentre le spalle erano protette unicamente da due piccole bretelle. Mi chiesi come facesse a sopportare quell’aria così gelida vestita in quel modo e quel pensiero mi provocò un brivido lungo la schiena, sentii freddo per lei. Ripresi a camminare mentre il desiderio di vederle il volto cresceva dentro di me ad ogni passo, ad ogni centimetro, ad ogni metro che compivo verso di lei.
La donna in bianco non si mosse per tutto il tempo rimanendo immobile come una dama dipinta in un quadro. Giunsi alle sue spalle mentre il vento le faceva muovere i capelli spostandoli da una spalla all’altra. I miei occhi furono catturati dal movimento dei suoi capelli, e poi, tra le ciocche bionde, riuscii ad intravedere una collana d’oro.
Allungai una mano e le toccai una spalla, risultò stranamente calda al contatto con i miei polpastrelli infreddoliti.
Lei non disse una parola. Si voltò lentamente mentre i miei occhi rimasero catturati da quel sottile filo d’oro che le scendeva lungo il collo, sino a lì, tra le morbide curve del suo seno. Quando finalmente si girò completamente il mio sguardo cadde sul piccolo pendaglio appeso al suo collo.
Iniziai a capire e fu doloroso.
Avevo già visto quel pendaglio, ne avevo regalato uno identico ad Evelyn per il suo ultimo compleanno. Il ricordo di quella giornata venne in superficie come una bolla d’aria rilasciata nelle profondità marine. E all’improvviso, come quando l’aria imprigionata in quella forma sferica torna finalmente libera, nella mia mente tornarono le immagini di vecchi ricordi.
Ricordai di come l’avevo crudelmente lasciata sulle spine per tutto il giorno, della splendida serata trascorsa insieme al ristorante ed in fine di quando, dopo cena, le consegnai il pacchetto.
Il cimitero sparì ed io tornai a vivere quel tragico momento.

“Dai, cosa aspetti? Aprilo.” Le dissi con il sorriso stampato in volto.
La guardai nei suoi occhi mentre lei guardava me, e mi persi.
“Sì.” Disse semplicemente mentre le sue mani iniziarono a scartare il pacchetto.
Tolse il nastro con facilità ed aprì la piccola scatola che conteneva il regalo. Sorrise di gioia ma non disse una parola.
“Allora? Ti piace?” Le domandai impaziente.
“Sì, è stupendo. Mi hai fatto aspettare per tutto il giorno, sei stato tremendo.”
“Beh, l’attesa ti ha ripagato, spero.”
“Oh amore, è davvero bello. Grazie.”
Mi avvicinai a lei e ci scambiammo un bacio. Le dissi che l’amavo e poi imprecai quando mi accorsi che la mia cravatta aveva avuto voglia di farsi un bagno nel bicchiere del vino.
“Guarda qua che mi sono combinato.” Dissi con rabbia con la cravatta poggiata sul palmo della mano.
“Non ti preoccupare… non roviniamo questa serata. Dai, mi aiuti ad indossarlo?”
Mi alzai e presi posto dietro di lei. Mi passò la collana e l’aiutai ad indossarla dopo che ebbe raccolto i capelli in una singola ciocca che spostò con entrambe le mani lungo una spalla.
La serata scivolò via rapidamente come spesso accade quando si vivono momenti di un evento a lungo atteso. Prendemmo i nostri cappotti, pagai il conto e ci dirigemmo verso l’uscita.
Soltanto quando uscimmo dal ristorante e vidi la città nascosta dietro una imponente pioggia mi accorsi di aver dimenticato l’ombrello all’interno del locale.
“Un momento Evelyn, ho dimenticato l’ombrello. Aspettami qui.” Le dissi.
“Vai, sbrigati.”
Quella fu l’ultima volta che ascoltai la sua voce.
Accadde tutto rapidamente ed ancora ad oggi non me ne faccio una ragione.
Rientrai nel locale, raggiunsi quello che era stato il nostro tavolo. Vidi l’ombrello proprio dove l’avevo lasciato poggiato al muro affianco alla sedia. Lo raggiunsi. Lo afferrai con una mano e il mondo attorno a me sembrò esplodere.
Ci fu un fragore assordante che coprì senza difficoltà il brusio della sala. Non capii subito cosa fosse accaduto ma poco dopo compresi che un’auto impazzita aveva mandato in frantumi la vetrata e che poi aveva spazzato via il bancone della reception come se fosse stato di cartone. Per istinto in quei lunghi istanti non avevo saputo fare altro che rimanere sdraiato a terra.
Dopo interminabili istanti mi alzai e corsi verso di lei, ma quando giunsi affianco alla macchina la vidi come mai avrei dovuto vederla, con il corpo straziato e senza vita.

E’ lei, pensai.
Sentii il sangue gelarsi nelle vene.
Alzai lo sguardo, lentamente. Riconobbi il suo mento, le sue labbra, il piccolo neo sulla guancia sinistra e i suoi occhi. La mia mente non riuscì a dare una spiegazione a quello che i miei sensi le suggerivano. Vederla ancora una volta davanti ai miei occhi era una sensazione stupenda, ma quello che stava accadendo era del tutto irrazionale.
Provai a parlarle ma lei poggiò delicatamente l’indice sulle mie labbra. Si avvicinò sino a che sentì il suo respiro riscaldarmi le labbra. Mi baciò. Assaporai il suo bacio ancora una volta, più di quanto avessi fatto quella sera al ristorante.
“Chiudi gli occhi.” Mi disse.
Ed io lo feci.
“Devo andare, aspetto ospiti.” Disse sussurrandomelo ad un orecchio. Non aggiunse altro e quando io riaprii gli occhi lei era svanita.
Gridai il suo nome una volta e continuai a farlo sino a quando mi sentii i polmoni in fiamme. Sembrava scomparsa nel nulla.
Il dolore mi fece piegare sulle ginocchia e le lacrime lubrificarono i miei occhi. Me le asciugai con il dorso delle mani, e quando furono di nuovo liberi mi accorsi che quella che si ergeva davanti a me era la sua lapide.

*

Poi tornai bruscamente alla realtà. Mi svegliai nel mio letto zuppo di sudore e con la sensazione che qualcuno credutomi un vampiro avesse piantato un paletto nel mio petto. Il dolore di averla persa tornò vivo e dirompente dentro di me e non potei contrastarlo, nuove lacrime inumidirono le mie guance.
Passai il resto della giornata cercando di dimenticare quell’incubo che mi aveva fatto rivivere il giorno della sua morte. Benché ci provassi con tutte le forze non potei evitare di ripensare alle sue parole, a quelle che mi aveva sussurrato in sogno. Mi chiesi se era possibile interpretarle in qualche modo, ma non ci riuscii.
Soltanto più tardi afferrai il vero significato di quella frase, ma in tutta quella storia non seppi comunque trovare un briciolo di logica.
Ero a cena in compagnia della tv sintonizzata sul notiziario. Ero intento a riempirmi lo stomaco con una bistecca quando il giornalista conduttore annunciò un servizio che riguardava il degrado dei cimiteri. Il servizio fu mandato in onda e catturò da subito la mia attenzione. L’inviato parlò delle condizioni fatiscenti del cimitero, della vegetazione lasciata crescere senza controllo, dell’assenza di una degna illuminazione e poi…
.. e poi durante il servizio la telecamera inquadrò per qualche istante la lapide di Evelyn e la sua frase riecheggiò nella mia mente ancora una volta: Devo andare, aspetto ospiti.

Copyright © 2009 Fabio Marchionni

La Scatola

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La Scatola

Sei sdraiata sul divano circondata da numerosi cuscini colorati e stai leggendo un romanzo, mentre tua madre è di la in cucina a preparare la cena gettando ogni tanto un’occhiata sulla TV che tiene accesa, i suoi rumori però non disturbano la tua lettura.
Ti senti stanca, è da molto che leggi, la camera ormai è avvolta dalla penombra e mettere a fuoco le parole si è fatto più impegnativo. Dovresti alzarti per andare ad accendere la luce ma non ne hai assolutamente voglia, sai che se ti alzi non riprenderai a leggere.
Richiudi il libro appoggiandolo sulle tue gambe e tenendo il segno con il dito indice, con l’altra mano ti massaggi gli occhi socchiusi, ti regali qualche secondo di relax a poi ti convinci ad alzarti. Abbandoni il libro sul divano senza però scordarti di inserire il segnalibro, quello con il cucciolo di cane stampato su un lato, è il tuo preferito.
Avvicinandoti alla cucina le voci della televisione divengono sempre più chiare, in onda ora c’è la pubblicità. Oltrepassi la soglia della porta, la luce artificiale inonda l’intera cucina specchiandosi sulla superficie bianca ed opaca del mobilio.
Domandi a tua mamma se manca molto per la cena, lei ti risponde che ci vorrà ancora una mezz’ora poi guardi l’orologio appeso sulla parete e ti accorgi che in effetti è un pochino presto per mangiare, indica appena le sette e mezzo.
Così sconsolata e con un pizzico di fame abbandoni il piano terra prendendo le scale che ti conducono al piano superiore, i quadri lungo la parete scorrono via lungo le tua spalla sinistra come i paesaggi visti dal vetro di un treno. Giungi al piano superiore.
Apri la porta della tua stanza, il suo movimento è accompagnato da un lieve cigolio. Attraverso il vetro della finestra che si affaccia sul giardino nel retro di casa filtra una debole luce che illumina parzialmente la stanza. Richiudi la porta dietro alle tue spalle.
Preferisci non accendere la luce, ti avvicini alla finestra e scosti con una mano la tenda, noti che nel cielo si stanno riunendo grosse nuvole grigie ansiose di esplodere, un lampo illumina l’intera zona e per un istante la tua pelle diviene azzurra.
Le giornate passate al mare sotto al sole sono ormai soltanto un ricordo, l’estate sembra essere scivolata via lungo la linea del tempo con troppa rapidità, lasci ricadere la tenda e la fai scorrere verso un lato, ogni cosa nella stanza ora viene dipinta con tonalità grigie.
Ti giri ed appoggi le tue spalle al vetro, sei malinconica, ripensi agli anni trascorsi, alle estati passate e a quanto ognuna sia stata ricca di esperienze diverse. Mentre i ricordi affollano la tua mente il tuo sguardo cade sulla scatola, quella che tieni sempre sulla mensola sopra la scrivania e che non apri da molto tempo, da moltissimo tempo.
Abbandoni il contatto con il vetro mentre piccole gocce di pioggia iniziano a colpirlo e poi ti avvicini alla scatola. L’afferri con entrambe le mani e con il tatto percepisci lo spostamento degli oggetti nel suo interno, ti siedi sul letto poggiando la scatola proprio davanti a te e ne sollevi il coperchio, per un attimo la fissi domandandoti quanto tempo sia passato da quando hai compiuto quello stesso gesto. Ora fuori si sta scatenando il temporale, il vetro della finestra trema come spaventato dal vigore dell’ultimo tuono.
Il primo oggetto a comparire sotto ai tuoi occhi è una foto, risale almeno a due anni fa, a quando ancora l’uso delle macchinette digitali non era così diffuso ed ogni scatto si trasformava in qualcosa di reale. Ti ritrae con la tua migliore amica, un sorriso compare sul tuo viso mentre ricordi esattamente quel preciso istante. Dopo averla guardata la riponi delicatamente sopra al coperchio affianco alla scatola. Continui ad estrarre oggetti che ti riportano indietro nel tempo, un portachiavi, un biglietto del cinema, i biglietti di auguri del tuo diciottesimo compleanno, sino a quando non vedi qualcosa che ti distoglie da tutto il resto, un gruppo di lettere.
Le afferri e le liberi dalla stretta dell’elastico, non ricordi ogni singola parola riportata in quelle pagine bianche ma provi comunque un brivido di emozione entrando in quella stanza della tua mente che tenevi chiusa.
Ne prendi una e la apri, deve essere proprio l’ultima che ti ha scritto. Lui lo avevi conosciuto in spiaggia durante le vacanze estive ma da allora non vi eravate più incontrati, vi eravate scambiati il numero del cellulare ma poi avevate iniziato a comunicare attraverso le lettere. Con il passare del tempo le cose erano cambiate e lo scambio di lettere da prima intenso era poi diminuito ed infine del tutto scomparso.
Apri la lettera e scorri rapidamente le righe, si, quella era proprio l’ultima che ti aveva scritto, ti fermi e ne leggi qualcuna a voce bassa.

…Non sono più in grado di nascondere i miei sentimenti, per troppo tempo ho finto tenendoli prigionieri dentro il mio cuore. A lungo ho conservato in mente i momenti trascorsi insieme durante quell’estate, ma ormai il ricordo è stato usurato dal tempo, ed ho bisogno di qualcosa di più delle foto che mi hai spedito. Mi piacerebbe incontrarti…

A quella lettera non hai mai dato alcuna risposta.
Mentre fuori lo scrosciare della pioggia si è fatto vigoroso e un altro tuono si propaga nell’aria, rimani li a riflettere su quelle parole quasi incredula per quello che hai fatto, sparire senza neanche una spiegazione.
Tre lunghi anni sono ormai trascorsi da quando hai letto per la prima volta quella lettera, ed ora cosa ti passava per la testa? Chiamarlo?
No, non puoi compiere quel gesto proprio ora, di certo ti prenderebbe per pazza. Eppure ne hai voglia, anche se non riesci a spiegartene il motivo. E allora afferri il tuo telefonino e lo chiami, ma poi pensi che quello non sia il miglior modo di agire e allora prima del primo squillo riagganci. Hai in mente un’altra soluzione. Riprendi a rovistare nel contenuto della scatola freneticamente in cerca di quei fogli bianchi ormai sostituiti dalle fredde mail, come ben ricordavi sono ancora li.
E così dopo aver acceso la lampada sulla scrivania, ti siedi ed inizi a scrivere. Il foglio bianco si riempie rapidamente di tratti azzurri, di tutte quelle parole che tenevi imprigionate dentro e che non hai mai avuto il coraggio di liberare.


Non so spiegarmi per quale motivo non ho mai risposto alla tua ultima lettera, forse avevo semplicemente paura, timore di entrare in una nuova storia dopo la precedente delusione che avevo avuto. Non pretendo che mi perdoni, ma ti voglio fare ugualmente le mie scuse, è stato ingiusto trattarti in quel modo, lo riconosco.

In fondo aggiungi il tuo nome poi pieghi delicatamente il foglio e lo inserisci nella busta, la richiudi e la adagi sulla scrivania.
Il dubbio ti assale ancora una volta, ti domandi se sia giusto inviare quella lettera dopo tutti questi mesi trascorsi nel silenzio. Ti chiedi se sia è giusto irrompere improvvisamente nella sua vita, lui ormai avrà preso la sua strada, conosciuto un’altra ragazza e forse ti anche dimenticata. E così prendi la busta e la riponi nella scatola poi la ricopri con gli altri oggetti che avevi estratto.
Chiudi la scatola lentamente come per sottolineare l’importanza di quel momento, fuori i rumori del temporale sembrano essere più tenui, più lontani, la pioggia ha smesso di cadere.
Ora ti senti meglio come liberata di un fardello che portavi nel cuore, anche se lui non leggerà mai la tua lettera scriverla ti ha fatto sentire meglio.
La voce di tua mamma giunge ovattata attraverso la porta, ti chiama per la cena ormai pronta in tavola. Riponi in tutta fretta la scatola sulla mensola, esci dalla stanza ed accosti la porta che produce il solito cigolio. Scendi le scale mentre il sole tramonta sotto ad un cielo ancora grigio, la sua luce anche se debole giunge sino alla tua stanza, attraversa il vetro e sembra quasi accarezza la scatola dei tuoi ricordi.

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L’inizio di una storia

 

Ho il libro aperto sulla stessa pagina da almeno mezz’ora, non riesco proprio ad andare avanti ho in testa soltanto te e continuare a leggere non ha senso. Chiudo il libro velocemente, prendo il cellulare e apro la rubrica sul tuo numero. Ci siamo incontrati per la prima volta soltanto ieri ed ora eccomi qui in cerca della giusta dose di coraggio per schiacciare quel tasto verde e chiamarti. Finalmente lo premo, per ogni squillo il mio cuore sembra fare almeno cento battiti. Mentre attendo che tu risponda la mia testa è invasa di dubbi e mi i chiedo se non è troppo presto per chiamarti, o magari sei impegnata e preferisci non rispondere… o più semplicemente hai visto il mio numero e…

Ogni incertezza viene spazzata via nel momento in cui rispondi, parliamo per qualche minuto poi mi faccio coraggio e ti chiedo di uscire.

 

Sono quasi le sei del pomeriggio ma i raggi irradiati dal sole riscaldano comunque i nostri visi.

“Maledizione, ho di nuovo lasciato gli occhiali chissà dove…” Penso,mentre cammino al tuo fianco stringendo gli occhi come nel tentativo di leggere un libro in una stanza buia.

Adesso stai sorridendo, adoro vederti sorridere. Cerco di scorgere i tuoi occhi ma sono ben nascosti dalle lenti scure dei tuoi occhiali.

Passeggiamo lungo il marciapiede, a margine del muretto che separa la grigia sabbia della spiaggia dall’asfalto ancora rovente della strada. Non siamo ancora pronti per la stagione estiva, il nostro abbigliamento sportivo ne è la prova.  Iniziamo ad avere caldo.

In spiaggia un uomo fa volare con qualche difficoltà un aquilone, la giornata è decisamente poco ventosa, ma sino a noi giunge comunque la voce divertita del bambino al suo fianco.

Forse è l’ora di rinfrescarci un po’ e così ti propongo di prendere un gelato, tu accogli la mia proposta immediatamente come se quel mio pensiero fosse stato gemello del tuo. Così dopo aver incrociato un ragazzo in bici e una vecchietta con il suo barboncino con la lingua di fuori, attraversiamo la strada.

Entriamo nel negozio. Un condizionatore rende l’ambiente più fresco rispetto all’esterno, il bancone del gelato è tanto grande da raccogliere almeno una ventina di vaschette. Nel negozio i rumori delle ventole dei frigo si diffondono insieme alla voce di Vasco emessa da due piccole casse. La signora dietro al bancone indossa un grembiule azzurro e un cappellino bianco, il suo viso esprime gentilezza.

Ci chiede cosa preferiamo e noi, disorientati dai numerosi gusti, ci perdiamo tra i nostri pensieri per qualche attimo, lei attende con una cono in mano pronta a servirci.

Ti lascio ordinare per prima, sapevo già cosa avresti scelto, al cioccolato non sai resistere. Io opto per i frutti nel tentativo di ridurre al minimo i grassi ingeriti, ma so che è un gesto disperato come quello di buttar fuori l’acqua da una nave con un bicchiere mentre gigantesche onde continuano a buttarne dentro.

Lasciamo il negozio con i nostri due coni e riprendiamo a passeggiare lungo il marciapiede.

Camminiamo e tu sorridi ancora, un po’ di gelato rimane in bilico tra le tue labbra e il resto della sostanza cremosa poggiata sul cono. Resto per qualche secondo a fissarti come un ebete mentre riesci a recuperare la situazione, fortunatamente non ti accorgi della mia espressione.

Camminiamo e parliamo tra un morso e l’altro. Il tempo scorre rapidamente sino al momento in cui il sole scende all’orizzonte, dove sembra quasi toccare il mare, e i nostri gelati sono ormai scomparsi.

E’ ora di tornare indietro. Lasciamo alle nostre spalle la spiaggia, consapevole che staremo insieme ancora per poco, sino a quando scenderai dalla mia macchia e scomparirai dietro il cancello.

 

 

Sono passati soltanto pochi giorni dall’ultimo volta che siamo usciti insieme, ma a me sono sembrati mesi.

E’ mattina presto di un sabato di Giugno e ci stiamo allontanando dalla macchina dirigendoci verso la spiaggia. Tu indossi una canottiera dal colore acceso, le tue braccia scoperte mostrano una abbronzatura niente male, alla vita hai legato un pareo che scende morbido sino alle caviglie. Il mio abbigliamento è sicuramente più scontato, maglietta e costume a pantaloncino.

Finalmente arriviamo in spiaggia accompagnati dalle nostre ombre, il sole non ancora alto le fa sembrare quelle di due giganti. Passiamo vicino al Bar costeggiando il piccolo portico in legno sotto il quale due signore sono impegnate a consumare un caffé. Scendiamo dal vialetto mattonato,  la sabbia non è ancora calda e così ci sfiliamo le ciabatte e proseguiamo a piedi scalzi; proviamo entrambi una sensazione di libertà.

Ti domando se hai in mente di fare subito un bagno, mi rispondi dicendomi che preferisci rilassarti un po’ sul telo e magari metterti la crema.

Avrò forse un occasione di aiutarti? Mi domando mentre cammino al tuo fianco fissando la superficie irregolare della spiaggia.

Non riesco a capire in che modo ma quel mio pensiero viene intercettato dalla tua mente, il sorriso nascosto in un angolo delle tue labbra ne è testimone, mi fai sentire un pochino in imbarazzo.

Il vento non è molto ma è sufficiente a far agitare il tuo pareo,  per limitarne i movimenti sei costretta a poggiare la tua mano lungo un fianco mentre con l’altra sorreggi la borsa da mare. I tuoi capelli si muovono davanti ai tuoi occhi, abbandoni per un attimo il pareo e con un gesto delicato ne porti una ciocca dietro ad un orecchio.

Nel frattempo siamo giunti molto vicini al bagnasciuga lasciando sulla morbida spiaggia le nostre impronte, tracce inconfondibili di un procedere serpeggiante tra i vari asciugamani e ombrelloni. Ti domando se per te va bene fermarci qui. Annuisci, così tiriamo fuori dalle borse i teli da mare che stendiamo vicini sulla sabbia, mi tolgo la maglietta mentre tu fai lo stesso con la canottiera ed il pareo.

I gabbiani che garriscono,  il rumore delle onde che si poggiano delicatamente sulla spiaggia, la voce di un bambino che sfugge dalla propria madre per andare verso l’acqua, quella di un venditore ambulante dalla pelle scura, tutti i suoni attorno a me si affievoliscono improvvisamente lasciando spazio soltanto a quello dei tuoi gesti. Ti siedi un attimo dopo di me mentre io distolgo lo sguardo dalle tue forme e lo rivolgo verso il mare, averti accanto mi sembra un sogno da quale non vorrei mai destarmi.

Prendi il tubetto di crema dalla borsa e ne fai cadere qualche goccia sul palmo della mano. Inizi a passarla sulle gambe con estrema precisione evitando in ogni modo il contatto con i granelli di sabbia. Sono appena passati una decina di minuti da quando ci siamo seduti ma io inizio già ad avere caldo.

Il sole si nasconde per un attimo dietro ad una piccola nuvola proiettandone l’ombra su di noi, mentre il mare continua a rifletterne i suoi raggi, tanto basta a rinfrescarmi un po’.

Attendo impaziente mentre la nuvola trasportata dal vento si sposta lungo la costa, il calore del sole giunge di nuovo indisturbato a scaldare la nostra pelle, la tua è quasi completamente ricoperta da un sottile strato di crema. Ti giri verso di me con una mano poggiata sulla fronte come un marinaio che dalla prua di una nave scorge l’orizzonte in cerca della terra ferma, e finalmente mi chiedi di aiutarti.

E così mi passi il tubetto che per poco la mia mano agitata non lascia scivolare sulla subbia, poi ti stendi sul telo con la schiena rivolta al cielo, il collo ruotato verso un lato e con i capelli che scivolano lungo quello opposto, infine socchiudi gli occhi.

Stringo il tubetto con una mano raccogliendone la crema che ne fuoriesce con l’altra, forse ho esagerato con la quantità ma tu non te ne accorgi. Mi dici di stare attento al costume e di non passarci sopra con la crema, senza attendere oltre poggio le miei mani dolcemente sulla tua schiena, un brivido percorre tutto il tuo corpo, inizio a massaggiarti. Completo il lavoro con la giusta calma poi mi stendo al tuo fianco.

Per qualche minuto ci abbandoniamo al calore del sole, immobili. Poi la mia mano quasi agendo autonomamente giunge a sfiorare la tua. Tu apri gli occhi e il tuo sguardo incrocia il mio. Ti avvicini. Mi avvicino. Ora siamo così poco distanti che e i nostri respiri si intrecciano. Ripenso a tutte le volte che ho immaginato questo momento e solamente ora capisco quanto sia straordinario viverlo. Cancello in fine la distanza che ci separa e le mie labbra premono contro le tue, ho la sensazione di essere solo con te. Dopo qualche istante abbandoniamo uno il sapore dell’altro con il cuore che continua a battere forte nel petto mentre la spiaggia torna ad essere affollata.

Torni a rilassarti sotto il sole distesa con il viso rivolto verso l’alto, non riesco a distogliere lo sguardo dal tuo profilo e così rimango li poggiato su un fianco a fissarti poi anche io mi distendo, ma questa volta siamo più vicini e le nostre mani sono una abbracciata all’altra.

Ho il dubbio che questo sia solo frutto della mia immaginazione e mi chiedo se stia accadendo realmente, forse è davvero un sogno o forse è l’inizio di una storia, la nostra.

 

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Ancora una vasca

Ancora una vasca. E’ quello che continuo a ripetermi da circa un’ora. Gli allenamenti sembrano non avere mai termine. Sino a allo scorso mese ho fatto sempre e solo nuoto libero, con le mie pause, la mia andatura, qui è tutta un’altra storia. Non mi sarei mai immaginato quanto sarebbero stati duri gli allenamenti, non avevo mai provato ad allenarmi a questi ritmi.
Ora, immerso in questo liquido trasparente tinto di un lieve bluastro donatogli dal colore delle piastrelle, mi domando se sopravviverò o se mi prenderà un infarto anche dopo aver sostenuto questo stesso pomeriggio la visita agonistica. Il medico ha eseguito tutti i controlli previsti per il tesseramento, credo proprio che se ripetesse ora l’elettrocardiogramma, il grafico prodotto somiglierebbe molto ad un quadro futurista. Ho il cuore che batte così forte che il suo ritmo mi preme sulle tempie.
Sento l’acqua scorrere lungo il mio corpo; le braccia, le spalle, le gambe, tutti i miei muscoli sono indolenziti dal lavoro ai quali sono sottoposti. A volte mi chiedo se la mia sia stata una scelta sensata, ripensandoci non ricordo di averla presa con una pistola puntata sulla fronte.
Porto un braccio fuori dall’acqua e prendo un bel respiro, devo cercare di mettere in pratica i suggerimenti dell’allenatrice, devo allungarmi. Sposto il braccio davanti alla testa, continuo a ripetermi di stare attendo alla mano, alla forma che assume. Sento la mie dita unite a paletta perforare la superficie dell’acqua, dopo un movimento ad S sotto il mio petto, riporto il braccio fuori. Altre due bracciate, e poi un altro respiro.
Lo stile libero mi piace, è un movimento che mi viene naturale, mi rendo conto che la mia tecnica è sgraziata come i movimenti di un rapper in un balletto di musica classica, ma sono qui anche per questo. Le gambe cavolo! A volte è come se non ce le avessi, le uso soltanto quando me le ricordo, e poi fanno male, un male boia.
Sotto di me continuo a vedere scorrere le piastrelle che ricoprono il fondo della piscina, il problema è che si spostano con la stessa rapidità di una lumaca che se la prende comoda.
Ok, ci sono. Questa vasca è quasi finita, ma non ho idea di quante ancora ne manchino, posso starci attento quanto mi pare ma alla fine perdo sempre il conto. Quante ne avrò fatte sino ad ora?
Forse una un centinaio in tutto, ma forse è la stanchezza del mio corpo che me ne suggerisce un numero così alto, realisticamente parlando ne avrò fatte la metà.
Sono vicino al muro. Decido che non è il caso di tentare una virata potrei rischiare un annegamento, così mi appoggio con una mano sulla parete, richiamo le gambe sotto di me ruotando il busto e porto i piedi a contatto con il muro. Spinta, se così posso chiamarla, e di nuovo a mulinare bracciate. Aiutatemi!
No, non devo assolutamente arrendermi. Respiro, bracciate, respiro ed ancora altre bracciate. Ho la sensazione di stare a mollo da un giorno intero, presto la mia pelle diventerà così grinzosa da somigliare a quella di un vecchio di novant’anni.
Continuo ad arrancare sulla superficie dell’acqua ancora per qualche vasca, mi sento come se stessi trascinando sul fondo una palla da bowling.
Penso che questa dovrebbe essere l’ultima vasca, il primo della fila si è fermato sotto ai blocchi di partenza, un ultimo sforzo e avrò qualche minuto per recuperare, anche se a me servirebbe almeno un’ora.
Raggiungo il punto di partenza e mi aggrego agli altri, mi arpiono al bordo vasca deciso a non mollarlo, poggio la testa sopra le braccia incrociate mentre i miei polmoni fanno muovere il mio petto su e giù spasmodicamente.
La voce dell’allenatrice, potente a dispetto della sua giovane età, giunge ovattata alle mie orecchie piene d’acqua; prima o poi dovrò decidermi a comprare dei tappi. A dispetto della stagione e della temperatura dell’impianto, lei indossa un costume intero e un paio di calzoncini, il rumore delle sue ciabatte sottolineano i suoi passi.
Si avvicina verso di noi minacciosamente, mi accorgo che stringe tra le mani il nemico di tutti i velocisti, il cronometro. Ci indica i le modalità e i tempi per i prossimi esercizi riuscendo a sovrastare con la sua voce i rumori provenienti dalle altre corsie, ci ordina di eseguire degli scatti di venticinque metri con recupero di qualche secondo tra uno scatto e l’altro, questa volta saranno solo otto vasche, ma io già mi sento male.
A poco a poco recupero la normale frequenza respiratoria, c’è addirittura il tempo per fare qualche risata insieme ai ragazzi del gruppo. Mi sono aggiunto alla squadra solo di recente, mentre il gruppo già lavora insieme da un paio di mesi, non mi preoccupa il fatto di legare nuove amicizie, la mia vera difficoltà sarà quella di ricordare tutti i loro nomi, in questo sono un vero disastro.
Ok, si parte. Il primo, poi il secondo ed ora tocca a me. Questa volta la spinta con le gambe risulta essere molto più efficace, emergo dalla fase subacquea ed inizio a nuotare a stile. Dopo pochi minuti di pausa i miei muscoli sono di nuovo in grado di spostare il mio peso, anche se ho il sospetto che durerà ben poco.
Sono alla terza vasca, ancora riesco a muovermi con uno stile decente, questo infatti peggiora quanto maggiore è la mia stanchezza.
Alla quinta vasca le mie condizioni sono anche peggiori del previsto, riesco a malapena a respirare, le braccia mi pesano come due mattoni, il mio movimento non è più fluido come prima, penso che all’ottava non ci arriverò mai.
Ma qualcosa scatta dentro di me, il mio pensiero si trasferisce altrove. Tra un mese circa ci sarà un evento al quale credo parteciperò, sarà la mia prima gara, la mia prima occasione di confrontarmi e cogliere i risultati di questo impegnativo allenamento.
Così inizio la quinta vasca tenendo sotto controllo la distanza con il ragazzo che mi precede, tenterò di stargli attaccato con tutte le mie forze, con tutto l’impegno che riuscirò a metterci, ma la schiuma prodotta dal movimento delle sue gambe continua ad allontanarsi, inesorabilmente.
Tento di intensificare la spinta delle mie braccia, ho le spalle in fiamme, il cuore di nuovo pompa come un matto e i muscoli delle gambe sono in costante pericolo di crampi.
L’ultima vasca la inizio dando il massimo, magari a metà mi ritroverò le gambe staccate dal resto del corpo, ma non posso e non devo fermarmi.
Ecco, ora ci sono, ancora qualche metro e poi…
Finalmente raggiungo il bordo piscina. Tiro fuori la testa dall’acqua e i miei polmoni iniziano a prendere ossigeno più di quanto ne possano contenere, inspiro ed espiro aria così intensamente che non riesco a sentire null’altro intorno a me.
E così la lezione è finita, i ragazzi escono dall’acqua uno ad uno con i loro costumi bagnati, le cuffie e i loro occhialetti che mostrano ancora numerose goccioline sui vetri appannati.
Rimango fermo lì a bordo vasca ancora per qualche secondo, poi anche io come loro esco e mi dirigo barcollando neanche fossi ubriaco verso il mio accappatoio. Infilo le mie braccia nelle maniche mostrando una smorfia di dolore in viso, ho le braccia a pezzi. Mi tolgo la cuffia e gli occhialetti che inserisco nelle due tasche e giro il mio sguardo verso il corridoio che porta agli spogliatoi, mi accorgo che la strada non mi era mai sembrata così lunga. Ho davvero bisogno di una bella doccia.
Mi soffermo a guardare la piscina mentre i miei compagni scompaiono dietro l’angolo con i loro accappatoi colorati, l’acqua è ferma, immobile.
Penso alle gare e a quanto sono vicine. Ancora un mese, poche settimane e poi dovrò tuffarmi da uno di quei blocchi insieme ad altri nuotatori pronti a dare battaglia. Non andrò di certo lì per vincere una medaglia o un premio, ma sfiderò me stesso con tutto l’impegno che ci potrò mettere e con l’intento di migliorarmi, sempre.
Lascio la piscina stringendomi nel mio accappatoio, sento freddo. Allontanandomi penso all’acqua che rimarrà immobile per qualche ora, sino a quando non sarà spezzata da qualcuno che vi entrerà, che inizierà a nuotare, per una vasca e poi ancora una.