Category: Horror


Samael

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Accese il portatile, era ora di mettersi a lavoro.

Doveva consegnare quell’articolo entro la mattina seguente, il capo non avrebbe accettato ulteriori ritardi.

Andò in cucina a prepararsi un caffè lasciando che il PC eseguisse la procedura di avvio. Poco dopo tornò nello studio, poggiò la tazza accanto al computer e prese posto sulla sedia. Quello era l’unico luogo in cui riuscisse a scrivere senza troppi problemi, in ufficio non riusciva ad essere altrettanto produttivo. Troppi rumori, troppe distrazioni.

Ingollò un sorso di caffè, la lingua ne percepì il sapore caldo ed amaro. Tornò a fissare lo schermo attraverso le leggere lenti degli occhiali.

Prima di cominciare a scrivere il pezzo decise di dare un’occhiata ai messaggi di posta elettronica. Lanciò il programma ed attese che i nuovi messaggi venissero scaricati. Nel frattempo sorseggiò ancora un po’ di caffè ammirando le luci notturne della città attraverso l’ampia finestra dello studio.

Cinque nuovi messaggi.

Ne controllò rapidamente il mittente. Tre erano chiaramente spam, li cancellò. Uno era di Karmen, probabilmente riguardava il viaggio che stavano programmando, le cose non andavano troppo bene tra loro, quello della vacanza era un ultimo estremo tentativo di recuperare il loro rapporto. Decise di aprirlo in un secondo momento.

L’ultima mail catturò la sua attenzione.

Era il messaggio che stava aspettando.

Poco tempo prima Thomas, un collega, gli aveva parlato di quello strano oggetto e di come poteva cambiare la sua vita.

All’inizio ne era rimasto piuttosto scettico.

Lui era un tipo razionale, padrone delle sue azioni, convinto che farsi influenzare da certe credenze  non lo avrebbe portato da nessuna parte.

A distanza di tempo però si accorse che la vita di Thomas stava effettivamente cambiando. Negli ultimi mesi aveva ottenuto una promozione, aveva iniziato a frequentare una ragazza mozzafiato e come se non bastasse aveva ereditato da parte di un lontano parente un attico in pieno centro.

Così si decise a fare quell’acquisto, dopo tutto un tentativo non avrebbe fatto del male a nessuno.

La mail che aveva ricevuto lo informava che il pacco gli sarebbe stato consegnato entro quella stessa sera.

Erano le venti ormai e nessun corriere si era fatto ancora vivo.

Pazienza, si disse. Doveva soltanto attendere qualche altra ora, la consegna sarebbe stata fatta di sicuro il giorno seguente.

I suoi pensieri vennero improvvisamente interrotti dal suono del campanello. Posò la tazza vuota, ma ancora tiepida, sulla scrivania e si avviò verso l’ingresso. Il video citofono gli mostrò un tizio con un pacchetto in una mano e una cartellina nell’altra.

Strano che consegnino a quest’ora, si disse.

“Venga pure su, 12° piano.”

Dopo pochi minuti l’uomo si presentò davanti alla sua porta. Indossava un completo nero e scarpe dello stesso colore. La sua pelle era piuttosto bianca, dava l’idea di qualcuno che fosse stato costretto a rimanere chiuso in casa per lungo tempo. Gli occhi e i capelli erano scuri come le notti senza luna. Sul taschino della giacca era riportato il suo nome: Samael.

“Questo è per lei.”  disse, porgendo il piccolo pacchetto.

Marcus lo prese, firmò senza troppa attenzione la bolla e salutò il corriere. Lui gli rispose con un leggero inchino del campo, si girò e si diresse con passo leggero verso l’ascensore, così leggero che i suoi passi sembravano non emettere rumori.

Strano individuo, pensò mentre richiuse la porta alle sue spalle.

Tornò nello studio, eccitato dall’idea di aver ricevuto il pacchetto.

Il contenuto era avvolto in una carta rossa brillante sorretta da un cordino nero. Nessun biglietto, nessun marchio stampato sulla confezione.

Lo scartò rapidamente con la stessa frenesia con cui un bambino scarta un pacco la mattina di Natale. Un piccolo scrigno vellutato, anch’esso rosso, conteneva l’oggetto del desiderio.

Lo aprì.

I suoi occhi furono immediatamente catturati dalla bellezza di quella pietra. Non aveva mai visto nulla di simile al mondo. Finemente intagliata sembrava brillare di luce propria. Lateralmente era visibile un piccolo foro che permetteva il passaggio di un sottile filo d’oro.

Non ci pensò un attimo di più e la indossò al collo. Nella confezione c’era dell’altro. Un piccolo bigliettino di cartoncino sul quale erano incisi dei numeri. Pensò che si trattasse di una matricola o di qualcosa del genere. Gettò la carta nel cestino e si rimise a lavoro.

Lavorò per gran parte della notte scrivendo pagine e pagine di articoli anticipando il lavoro di un mese. Le parole continuavano a saltargli fuori dalla testa una dopo l’altra come pop-corn a cottura ultimata.

Da quella notte tutto sembrò diverso.

* * *

I problemi con Karmen furono superati, il loro rapporto prese a funzionare alla perfezione. Si chiese se fosse stato tutto merito della splendida vacanza che avevano fatto in Italia, a Venezia, oppure del ciondolo che portava al collo.

Anche il lavoro iniziò ad andare a gonfie vele, conquistò ripetutamente la prima pagina del giornale e vinse diversi volte il premio di giornalista del mese.

Forse il ciondolo funzionava davvero.

Anche l’amicizia con Thomas era più salda che mai. Si frequentavano spesso. Erano soliti andare allo stadio a guardare il basket dal vivo e poi dopo l’incontro a bere una birra, e non passava settimana senza la loro consueta partita a squash. Per non parlare delle splendide cene a quattro che organizzavano con le rispettive compagne.

Insomma, la vita scorreva leggera, senza problemi.

Diverso tempo dopo, mentre era a lavoro nel suo ufficio, ricevette una telefonata che lo scosse terribilmente. Thomas era stato coinvolto in un bruttissimo incidente stradale, uno scontro frontale con una furgone di grossa stazza nel quale la sua auto aveva avuto la peggio. Thomas era figlio unico e i suoi genitori erano ormai deceduti da tempo, probabilmente avevano notato le tante chiamate fatte dal cellulare di Thomas verso il suo numero ed avevano pensato di chiamarlo.

Avvisò Karmen e si recò rapidamente all’ospedale.

I medici gli dissero che era stato portato con urgenza in sala operatoria e che le possibilità che rimanesse in vita erano estremamente basse. Dopo lunghe ore passate in compagnia di Karmen in sala d’asseta gli fu comunicato che Thomas era stato portato in sala di rianimazione. Il medico gli disse che le ore successive sarebbero state cruciali per il successo dell’operazione.

Chiese se era possibile vederlo, il medico gli disse che aveva bisogno di riposo e che poteva stare con lui solo per qualche minuto. Indossò la mascherina e il camice usa e getta, tutti i visitatori erano obbligati ad accedere al reparto di terapia intensiva in quel modo. Ebbe una stretta al cuore quando arrivò di fronte al suo letto. Diversi macchinari erano collegati al suo corpo ed aveva tubi che uscivano dalla bocca e dal naso. La sua faccia era gonfia e piena di lividi, il naso e la testa erano coperti con delle bende, il resto del corpo fortunatamente era nascosto sotto le coperte.

Non riusciva a crederci, soltanto qualche ora prima si erano sentiti per telefono e salutati, ed ora lui era in fin di vita.

Sul comodino affianco al letto erano poggiati i suoi effetti personali. Dal portafoglio spuntava fuori un bigliettino. Notò qualcosa di familiare in quel cartoncino. Lo estrasse e ricordò. Era dello stesso tipo di quello che aveva trovato nella confezione del ciondolo. Anche su quello erano riportate delle cifre, ma ora quei numeri assumevano un significato diverso. Indicavano chiaramente un data, e precisamente era la stessa di quel tragico giorno.

Dopo qualche secondo durante i quali rimase a fissare sospettoso il biglietto notò intorno al collo del suo amico il sottile filo d’oro simile a quello che indossava lui. Lo afferrò sollevandolo quel tanto che gli permise di guardare la pietra.

Ma c’era qualcosa di sbagliato.

La sua non era altrettanto bella, sembrava un semplice sasso di poco valore. Che qualcuno lo avesse sostituito dopo l’incidente? Impossibile, un male intenzionato avrebbe portato via anche la catenina d’oro, perché allora preoccuparsi di sostituirla?

Altre domande gli affollarono la mente.

Che l’affascinante aspetto della pietra fosse soltanto una mera illusione? E la data impressa sul biglietto era collegata in qualche modo con l’incidente?

Per qualche strano motivo gli balzò in mente il nome del tizio che gli aveva consegnato il biglietto, Samael. Quello strano nome nascondeva forse la chiave di volta di quel mistero?

Improvvisamente un macchinario collegato al corpo di Thomas prese ad emettere un suono allarmate. Il cuore di Thomas si era fermato. I medici e gli infermieri intervennero con estrema rapidità. Si fece da parte per non dare intralcio al loro intervento. Con il biglietto ancora in una mano nella sua mente si materializzò un’idea agghiacciante.

Il successo nel lavoro, il rapporto con Karmen, tutti gli improvvisi e inaspettati eventi positivi della sua vita potevano essere giustificati in un solo modo.

Medici ed infermieri si fermarono bruscamente come se qualcuno avesse messo la scena in pausa. Un istante dopo un medico pronunciò l’ora e la data del decesso dichiarando Thomas deceduto.

Non ricordava quale fosse la data impressa sul suo biglietto e tanto meno dove lo avesse poggiato. Magari l’aveva gettato insieme all’incarto della confezione. Era passato troppo tempo, non riusciva a ricordare.

Raggiunse Karmen e l’abbracciò. Rimasero abbracciati per alcuni minuti che gli sembrarono lunghi come ere geologiche.

Pensò che se la sua teoria era giusta gli rimanevano da vivere soltanto pochi mesi, pochi giorni o soltanto poche ore. Non poteva quantificare il tempo rimastogli visto che non aveva modo di recuperare il suo biglietto. Ci rifletté un istante e poi concluse che nessuno dopo tutto conosceva la data della sua morte. Ormai quel che era fatto era fatto. Non era in grado di tornare indietro nel tempo o tantomeno annullare quel patto. Rifletté sulla bolla di consegna e sul fatto che non le aveva dato troppa importanza. Lì aveva sicuramente posto la firma, quella con cui aveva venduto la sua anima.

Karmen guardò negli occhi Marcus e vide ancora una volta quella brutta pietra portata come ciondolo.

“Marcus, è un pochino di tempo che volevo chiederti una cosa. Come mai ti ostini a portare al collo quel brutto sasso?”

“Non è nulla cara, è solo un porta fortuna.”

* * *

Da qualche parte, in un’altra città, in un altro stato, un corriere era impegnato nella consegna di un pacchetto molto simile ai migliaia che aveva già recapitato.

Questa volta aveva preferito assumere le sembianze di un vecchio con capelli lunghi argentati e naso grinzoso.

Suonò il campanello ed attese.

Una giovane donna aprì la porta. Lui le consegnò il pacchetto.

Lei notò appena lo strano nome riportato sul taschino della sua giacca, uno dei tanti nomi con cui veniva chiamato dalla notte dei tempi.

La ragazza firmò distrattamente, ignara, come tutti coloro che lo avevano già incontrato, di aver appena siglato la sua condanna a morte.

Il vecchio salutò educatamente e si allontanò con il solito passo leggero, leggero come il passo di un essere soprannaturale privo di un corpo materiale.

 

Mary

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*

Il telefono squillò.
Provò a raggiungerlo con la testa ancora sotto le coperte ma i movimenti incerti della sua mano resero quel semplice gesto un’impresa. Il telefono scivolò tra le sue dita come avrebbe fatto un pesce pescato a mani nude, e poi cadde sotto il letto. Peter si girò dall’altra parte intrecciandosi tra le coperte, lasciò per un po’ il telefono lamentarsi ma poi il rumore della suoneria si fece insopportabile.
“E va bene, arrivo.” Disse, come se chiunque lo stesse chiamando potesse ascoltarlo.
Uscì con la testa allo scoperto, con gli occhi sofferenti e con la bocca impastata.
Mi sento un vero schifo. Pensò.
Cercò disperatamente il cellulare che continuava a squillare nervosamente.
“Ma dove è finito?” Si chiese infilando la testa tra il comodino ed il letto.
Nella penombra della stanza avvistò la tastiera lampeggiare. Afferrò il telefono allungando una mano e poi premette il tasto verde.
“Pronto”. Disse Peter.
“Ciao Peter.”
Sentire quella voce appena sveglio, la sua voce, era incredibile. Lui e Mary si erano conosciuti qualche mese prima all’università. In effetti le era andato dietro per molto tempo ma lei non si era mai accorta della sua presenza. Poi era riuscito a conoscerla e a strappargli un appuntamento, ricordava ancora come gli tremasse la voce in quella circostanza.
“Ma… che ore sono?” Disse Peter mentre tentò di liberarsi dalla stretta delle coperte.
Diede uno sguardo alla sveglia, vide che erano già le sette ed un quarto.
“Avevo bisogno di sentirti prima di andar via.”
“Andare dove? Ma che…cosa vuoi dire?” Le chiese appena in tempo prima che si esibisse in uno sbadiglio paragonabile a quello di un felino di grandi dimensioni.
Peter notò qualcosa di strano nella voce di Mary ed ebbe la sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto.
“Perché dovresti lasciarmi, Cosa è successo?” Chiese Peter.
“Volevo soltanto dirti che… ti amo.”
“Anche io ti amo… ma non capisco…”
Poi per una manciata di secondi ci fu soltanto silenzio.
“Pronto… Mary…”
“Ora devo andare, non posso trattenermi oltre.”
Peter si sedette sul bordo del letto.
“Un momento, devi andare dove?”
“Non ti posso spiegare…” disse Mary.
“Ti chiamo più tardi…” disse Peter, ma la linea cadde prima che Mary potesse rispondergli.

*

Mary aveva conosciuto Sophie alle superiori, tra le due ragazze c’era stata sin da subito sintonia. A distanza di anni, pur avendo intrapreso strade diverse, la loro amicizia era più forte che mai.
Mary accostò l’auto davanti a casa di Sophie poco dopo l’una del mattino, la serata era scappata via veloce e piacevole.
“Sono stata veramente bene, Mary.” disse Sophie aprendo la portiera dell’auto.
“Anche io, dovremmo farlo più spesso. Intendo… un’uscita soltanto tra ragazze.” Disse Mary.
“Sì hai ragione. Ora scappo, mi sto addormentando in piedi, e domani devo andare a lavoro. Tu stai attenta, guida con prudenza. Ok?”
“Sì, sì. Stai tranquilla.”
Si salutarono baciandosi affettuosamente sulle guance. Sophie chiese la portiera, si allontanò dalla macchina, e un attimo dopo scomparve dietro al portone del palazzo.
Mary ingranò la prima e si diresse verso casa.

*

Peter Rimase a fissare sconcertato il display, non capiva perché Mary aveva avuto tutta quella fretta di riagganciare. Si domandò dove dovesse recarsi con tanta fretta.
Si trascinò in bagno e si lavò il viso nella speranza di riprendere conoscenza, ma servì a ben poco, aveva decisamente bisogno di un caffè.
Dopo aver fatto colazione prese il cellulare e tentò di richiamare Mary, ma una voce lo informò che il numero non era raggiungibile. Ci provò diverse volte ma il risultato fu sempre lo stesso.
Trovò qualcosa da indossare tra i vestiti sparsi per la camera, l’ordine non era il suo forte e da quando era andato a vivere da solo le cose non erano di certo migliorate. Si vestì velocemente, doveva andare a lavoro ed era decisamente in ritardo.
Aprì la porta e diede una sbirciatina fuori di casa, la giornata non prometteva nulla di buono. Grossi nuvoloni si erano dati appuntamento sopra la città, presto ci sarebbe stato un acquazzone di proporzioni bibliche.
Almeno porteranno via un po’ di smog, pensò.
Indossò la giacca, prese l’ombrello, chiuse la porta ed imboccò il vialetto che lo condusse in strada.
Potrei provare a chiamare Sophie, ieri sera sono uscite insieme, forse può aiutarmi a rintracciare Mary.
Avvistò l’auto ed affrettò il passo mentre grosse gocce d’acqua iniziarono a tamburellare sulla carrozzeria delle macchine parcheggiate, a far vibrare le foglie degli alberi e a bagnare le spalle dei passanti. Il suo respiro si fece più veloce mentre dalla bocca rilasciava piccole nuvolette d’aria calda. Raggiunse l’auto, riuscì ad entrare ed a chiudere la portiera prima che la pioggia venisse giù a secchiate. Prese il cellulare per chiamare Sophie e compose il numero in tutta fretta.
Squillò.
“Pronto Sophie.”
“Sì, pronto. Ciao Peter.”
“Ciao. Mi chiedevo se avessi per caso sentito Mary questa mattina? Insomma, l’ho sentita al telefono e mi parlato di un appuntamento o qualcosa di simile, poi ha attaccato e non sono più riuscito a rintracciarla.”
Un tuono fece vibrare i vetri dell’auto mentre il vento trasportava foglie in tutte le direzioni come se non avesse deciso da che parte andare.
“No mi dispiace. Ieri sera mi ha riaccompagnata a casa e poi non l’ho più sentita. Ma è accaduto qualcosa ieri sera?”
“Beh, no. L’ho sentita poco fa per telefono.”
Attraverso la cornetta Peter sentì qualcuno lamentarsi con Sophie.
“Meno male, ero in pensiero. Scusa, ma ora sono in metro e la linea potrebbe cadere… ci sentiamo dopo.”
“Ma ti ha parlato di un appuntamento?” Domandò Peter in tutta fretta.
“Che io ricordi no. Se la rintracci le dici che ho lasciato la sciarpa nella sua auto?”
“Sì, sicuramente. Ciao.”
“Ciao.”
Peter sentì riagganciare, poi si accorse che la batteria del suo cellulare era quasi scarica.
“Dannazione, questi aggeggi smettono di funzionare nel momento del bisogno.”
Girò la chiave e il motore si lamentò, azionò i tergicristalli e si diresse verso l’ufficio. I fari delle auto si riflettevano sulle pozze d’acqua e sul parabrezza appannato, Peter spannò il vetro con una mano e guardò il cielo divenuto grigio come la pelle di un elefante bagnato. Guardò l’orologio e imprecò pensando al ritardo che avrebbe fatto a lavoro.
Era ancora intrappolato nel traffico quando il suo cellulare squillò.
Era la mamma di Mary, Anne.

*

La notte era buia e senza stelle, tutta colpa delle fitte nubi che si erano ammassate in cielo.
Credo proprio che domani pioverà, pensò Mary mentre la sua auto abbandonava le strade ben illuminate della città per quelle buie e tortuose della campagna.
“Cavolo se sono stanca, ho gli occhi pesanti come due macigni.”
Abbassò il finestrino nel tentativo di vincere la sonnolenza, e nell’abitacolo entrò aria fresca che le accarezzò il viso e le fece vibrare i suoi lunghi capelli castani. Si sentì subito un pochino meglio.
Accese anche lo stereo, pensando che addormentarsi con la musica ad alto volume sarebbe stato sicuramente più difficile. Mary amava la prudenza e per questo avanzava a velocità controllata con l’attenzione sempre rivolta alla strada.
Ma i tre ragazzi, imbottiti di alcool e droga a bordo dell’auto che correva a folle velocità in direzione opposta alla sua, non la pensavano allo stesso modo.
All’una e ventisei minuti le due auto si accartocciarono l’una nell’altra, vetro contro vetro, lamiera contro lamiera e i detriti si sparsero su un raggio di diverse decine di metri.
Dopo il frastuono del terribile impatto sulla strada tornò il silenzio.

*

Peter sfilò il telefono dalla tasca e rispose alla chiamata.
“Pronto signora.”
“Ciao Peter, dove sei?”
“Sono imbottigliato nel traffico, sto andando a lavoro.”
“Ti devo parl…”
La batteria completamente scarica troncò la chiamata.
“Dannazione…” Disse Peter colpendo nervosamente con il pugno il volante.
Intuì che Anne volesse parlargli di qualcosa.
Forse è davvero accaduto qualcosa a Mary? Se lo domandò mentre iniziò a scaricare la sua preoccupazione suonando ripetutamente il clacson e sbraitando contro gli altri conducenti.
Un’ora dopo entrò in ufficio con l’ombrello sgocciolante come un rubinetto mal chiuso, la giacca completamente zuppa e con i jeans divenuti più scuri sino alle ginocchia. Si diresse rapidamente verso il telefono e selezionò il numero della mamma di Anne.
Quella telefonata fu la più brutta della sua vita. Anne le spiegò che non aveva potuto chiamare prima visto il ritardo con cui la polizia aveva avvertito lei.
Le raccontò di Mary e di quello che era accaduto. Dei tre ragazzi, dell’altra auto, e del terribile incidente in cui era stata coinvolta.
Anne si lasciò abbandonare alle lacrime.
Peter sentì il suo cuore come schiacciato dal peso di mille tonnellate. Fu travolto da disperazione, solitudine, dolore, aveva perso la cosa che per lui era stata più importante.
Ma quella tempesta di sensazioni fu spazzata via da un terribile pensiero.
L’irrazionalità e l’assurdità di quegli eventi gli gelò il sangue.
Mary lo aveva chiamato quella stessa mattina, e se le cose erano andate nel modo in cui le aveva raccontate Anne, beh, c’era una sola conclusione.
Mary lo aveva contattato almeno sei ore dopo la sua morte.

 

Copyright © 2008 Fabio Marchionni

Highway 113

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Highway 113

 

Il motore della vecchia Ford emetteva di continuo strani lamenti, il vetro insisteva ad appannarsi e dalle prese d’aria usciva soltanto aria fredda. Carl Bowden si era ripetuto decine di volte di far controllare l’impianto di riscaldamento della sua auto, ma il lavoro che faceva non gli permetteva di avere molto tempo libero, e tanto meno di acquistare una nuova auto. Aveva passato quasi tutta la sua vita con il naso immerso tra le pagine di libri e testi scientifici, o con il viso illuminato dalla luce di un monitor e nell’ultimo periodo la sua vita privata era stata di fatto rilegata a quei pochi momenti passati insieme ad Gyro, il suo gatto, che ora riposava tranquillo nella gabbietta poggiato sul sedile del passeggero.
Il dottor Bowden conduceva ricerche presso il dipartimento di fisica dell’università di Duluth, nel Minnesota. Dopo tanto tempo aveva avuto finalmente l’occasione di rilassarsi, e lo avrebbe fatto nel piccolo paese dove era nato, a Waubun.
Procedeva in direzione Nord sulla Highway 113 lungo le rive del Tulaby Lake con i fari accesi, mancavano circa una ventina di miglia per raggiungere Waubun. Passò la mano sul vetro appannato disegnando una mezza luna di goccioline sulla fredda superficie, mentre fuori i tergicristalli si muovevano simultaneamente emettendo i tipici suoni striduli. La neve continuava a cadere da diverse ore mentre le due casse dell’impianto radio diffondevano nell’abitacolo musica dal gusto rock. A causa di quella intensa nevicata sulla strada non erano più visibili le tracce delle altre auto, questo preoccupò Carl. Si domandò se la strada fosse stata chiusa per la troppa neve.
Carl sfilò una sigaretta dal pacchetto che estrasse dalla tasca interna della giacca, l’accese ed aspirò profondamente, una piccola nuvola di fumo fuggì dalla sua bocca e lui strizzò gli occhi. Il motore improvvisamente borbottò ancora. Guardò il cruscotto ma tutte le spie d’allarme erano spente. Sperò che la sua macchina non lo abbandonasse, la strada si faceva sempre più tortuosa, la foresta intorno a lui più fitta e il freddo pungente come le foglie di un cactus.
Diete una rapida occhiata all’orologio posto nel cruscotto, erano da poco passate le sette. Quel tempaccio lo aveva costretto a rallentare ed ormai aveva accumulato un bel po’ di ritardo sulla tabella di marcia.
Avrei dovuto dar retta alle previsioni meteo, pensò.
Il motore vibrò ancora ma questa volta si agitò così vigorosamente da farlo sobbalzare sul sedile, emise un ultimo sbuffo dalla marmitta e poi divenne preoccupatamene silenzioso. Le ruote tracciarono solchi nella neve morbida sino a quando, una volta che la macchina esaurì l’inerzia, smisero di avanzare arrestando il loro movimento sul ciglio della strada.
Carl provò con insistenza a riaccendere il motore, ma ad ogni tentativo corrispose un insuccesso.
“Merda.” Imprecò a voce alta.
Fare altri tentativi non aveva senso. Diede uno sguardo fuori ed ebbe la netta sensazione che la situazione meteorologica fosse peggiorata, i tergicristalli per quanto lavorassero velocemente non riuscivano a contrastare la troppa neve che si cadeva sul vetro. Li disattivò.
Sarei dovuto partire domani, se lo disse sbattendo con forza entrambi i pugni sul volante, il clacson dell’auto lanciò un grido che nessun altro all’infuori di Carl ed Gyro poterono sentire. Gyro disturbato da quel frastuono si svegliò e lanciò un debole miagolio verso Carl, poi chiuse gli occhi e riprese a dormire.
Il professore sopraffatto dal nervosismo si strinse nel cappotto, aprì lo sportello e scese dalla macchina. Guardò in entrambe le direzioni ma la forte nevicata e l’oscurità gli impedivano di vedere chiaramente una quindicina di metri oltre la sua posizione. Si chiese cosa stesse facendo lì fuori, buttò la sigaretta nella neve e rientrò in auto con le spalle e il capo bianchi come i peli del suo gatto e i piedi ridotti a due ghiaccioli.
Carl spense i fari mentre alla radio un tipo, a dispetto della sua situazione, pubblicizzò le spiagge bianche e calde dei Caraibi. Girò canale nella speranza di ascoltare notizie circa le previsione del tempo, ma dopo aver selezionato inutilmente tutte le frequenze spostò la manopola su off. Si trovò catapultato nel silenzio più totale, poteva quasi ascoltare la neve che cadeva copiosa sulla sua auto, mentre il vento freddo soffiava tra le ferite della vecchia carrozzeria producendo un inquietante canto; Gyro continuava a riposare indisturbato.
L’ultimo centro abitato che ricordava aver attraversato era quello posto nelle vicinanze del Tulaby Lake, ormai distante qualche miglio. Almeno per il momento scartò l’idea di mettersi in cammino sotto quella tempesta, era molto più saggio attendere il passaggio di un’auto.
Che freddo, pensò, mentre strofinò le mani l’una contro l’altra nel tentativo di scaldarle. L’orologio segnava le 19.32.
Con l’oscurità della notte il professore riusciva a malapena a scorgere la prima fila di alberi cresciuti lungo la strada, perlopiù grossi Pini Bianchi.
Ad un tratto qualcosa ruppe la quiete di quella fredda notte invernale.
Per Carl, che da piccolo aveva ascoltato molte volte quel rumore non vi erano dubbi, quello era un ululato di un lupo. La situazione poteva mettersi male, l’ululato sembrava tremendamente vicino. Gyro si svegliò ed iniziò ad agitarsi.
Il professore non era mai stato un amante della violenza tuttavia aveva sempre posseduto una pistola, un vecchio cimelio di famiglia acquistato da suo padre e conservato da lui più per motivi affettivi che per altri scopi.
Carl Aprì il bauletto dell’auto, la pistola era lì.
L’afferrò, sperando di non doverla utilizzare e controllò i proiettili presenti nel tamburo.
Soltanto due.
Beh, due era meglio che niente pensò, mentre il gatto miagolò nervosamente.
“Buono Gyro, buono.” Carl aprì la gabbietta prese il gatto e se lo portò in grembo. Iniziò ad accarezzarlo con una mano mentre nell’altra impugnava la pistola.
L’ululato cessò.
I momenti che seguirono furono per Carl terribili, pochi minuti durante i quali avrebbe preferito trovarsi in una di quelle calde spiagge dei Caraibi, lontano dal freddo e dal pericolo dei lupi. Improvvisamente Gyro rizzò i peli lungo la schiena insieme a quelli della coda, emise un grido acuto e poi scappò agilmente dalla prese di Carl spostandosi verso i sedili posteriori.
Qualcosa aveva impaurito il gatto. Carl accese le luci appena in tempo per scorgere nel cono dei fari una sagoma scomparire nell’oscurità. Ascoltò rumori provenienti da tutte le direzioni, evidentemente non c’era soltanto un lupo, ma un branco.
Sentì la neve cedere sotto i loro passi ed immaginò il loro respiro affannato riscaldare l’aria. Non riusciva a capire quanti fossero ma di sicuro erano più di due, anche se avesse colpito con estrema precisione due pallottole non sarebbero bastate.
Era in trappola.
I lupi iniziarono a girare famelici nelle vicinanze della macchina ma sempre evitando i fari.
Improvvisamente uno di loro, ritto sulle zampe posteriori, provò ad infrangere il finestrino del lato del guidatore spingendo con forza sulle zampe anteriori; il cuore di Carl prese a battere impazzito.
Doveva spaventarli senza però pregiudicare l’integrità dell’auto, sparare attraverso il finestrino non era una buona idea, avrebbe spazzato via un lupo si, ma agli altri avrebbero trovato la strada libera per entrare nell’abitacolo.
Cercò di pensare rapidamente, ma il raschiare delle grosse zampe contro il vetro della macchina di certo non lo aiutava. Si girò verso il lupo, il suo respiro si infrangeva contro il vetro, appannandolo. Vide fuoriuscire dalla sua bocca grosse quantità di saliva, poteva quasi sentirne l’odore, e poi notò che i suoi occhi avevano qualcosa di strano, le pupille erano completamente dilatate.
Potrebbe essere rabbia, ipotizzò.
Non è il momento di capire cosa ha spinto i lupi sin qui, piuttosto devo trovare un modo per…
Finalmente ebbe un’idea.
Infilò l’arma nella tasca del cappotto, accese la radio ed impostò il volume al massimo, poi iniziò a premere ripetutamente il clacson ed a urlare come un pazzo. I lupi si allontanarono velocemente, il bluff era stato convincente ed almeno per il momento era riuscito a liberarsi del branco. Ma sapeva che questa sarebbe stata soltanto una tregua e che presto i lupi sarebbero tornati sulle loro orme.
Quanto tempo aveva? Se lo chiese dopo aver spento la radio e smesso di picchiare energicamente il clacson. Il suo cuore tornò a battere normalmente.
“Gyro. Dove sei finito?” Lo trovò rannicchiato sotto ad uno dei sedili posteriori, provò ad afferrarlo, ma dovette desistere poiché l’animale sfuggì più volte alla sua presa.
Tornò con lo sguardo fisso sul parabrezza, l’intensa nevicata aveva ormai sepolto la macchina sotto ad un mantello di neve, pur avendo indossato guanti e cappello stava congelando. Di certo non poteva resistere a quella temperatura per tutta la notte, d’altro canto mettersi in cammino sotto la tormenta e con il pericolo di essere braccato dai lupi non era altrettanto invitante. Si trovava nella difficile situazione di scommettere sulla propria vita e su quella del suo amico Gyro.
L’orologio segnava le 22:27, nelle ultime due ore i lupi non si erano fatti vedere. Il suo corpo stava spendendo tutte le energie per sfuggire al congelamento, ormai stanco ed affamato lottava con estrema difficoltà contro la sonnolenza, con il terrore che se si fosse addormentato non sarebbe arrivato a vedere la luce dell’alba.
Non ho altra scelta, se non mi muovo rischio di morire congelato.
Decise così di percorre quelle poche miglia e affrontare la tormenta. Prese la gabbietta ed aprì lo sportello anteriore lacerando il mantello di neve che ricopriva la carrozzeria. Scese dalla macchina, i suoi piedi affondarono con estrema facilità nella morbida neve. Andò verso lo sportello posteriore agile come un pinguino sulla terra ferma, lo aprì. Vide Gyro rannicchiato sotto il sedile e visibilmente infreddolito, questa volta riuscì ad afferrarlo senza problemi e lo fece scivolare nella gabbietta. Poi aprì il portabagagli, e dalla valigia estrasse un suo maglione che utilizzò per ricoprire la gabbietta.
Si affrettò ad incamminarsi lungo la strada in direzione del lago, il vento che soffiava con forza rendeva tutto ancora più complicato. Era costretto ad avanzare con il capo chino e con lo sguardo fisso sull’alternarsi ipnotico dei suoi piedi. Poche miglia, soltanto due o forse tre, e tutto sarebbe finito per il meglio.
Camminò per una ventina di minuti e per tutto quel tempo il terrore di avvistare qualcosa alle sue spalle gli impedì di voltarsi indietro. Respirava con difficoltà ed ogni volta che inspirava aveva la sensazione che qualcosa gli raschiasse con forza i polmoni, aveva i pantaloni zuppi sino alle ginocchia e il viso contratto in una smorfia di dolore. La situazione non era delle migliori ma non doveva mollare. La strada ora era lieve salita e si incurvava verso destra, doveva fare molta attenzione a non scivolare, non era il momento adatto per rompersi una gamba. Se non ricordava male alla fine della salita avrebbe dovuto avvistare le prime case.
Ce l’ho quasi fatta, pensò.
Ma improvvisamente sentì Gyro agitarsi all’interno della gabbietta. Carl si fermò e sollevò un lembo di maglione, il gatto si comportava allo stesso modo di quando i lupi erano comparsi la prima volta.
Bowden si voltò e vide una macchia scura avvicinarsi velocemente. Iniziò a correre sulla neve indurita dal freddo della notte, ma non riusciva a procedere abbastanza velocemente, perdeva terreno.
Il forte vento disorientava il suo udito così da rendere l’inseguitore silenzioso come un fantasma. Sperò che si trattasse di un solo lupo, probabilmente poteva affrontarlo, ma se ci fosse stato un branco difficilmente avrebbe potuto avere la meglio.
Arrivò in cima alla salita con i polmoni in fiamme, il cuore impazzito, sfinito. Vide le transenne che bloccavano l’accesso alla strada. Ora era chiaro il motivo per cui non era riuscito ad incontrare altre auto, evidentemente l’accesso alla strada era stato bloccato poco dopo il suo passaggio.
I lupo erano talmente vicino che riuscì a sentire il suo ringhio, il suo respiro.
La pistola, Pensò.
Infilò una mano nella tasca del cappotto e cercò disperatamente di impugnarla, ma prima di riuscirci il lupo gli si avventò addosso facendogli perdere l’equilibrio. Cadde a terra perdendo la presa sulla gabbietta.
Il lupo continuò ad attaccare e riuscì a morderlo sull’avambraccio lacerando facilmente il tessuto del cappotto e quello del maglione. Carl sentì i denti dell’animale penetrare nella carne, non poté evitare di far cadere anche la pistola che sparì nella neve, ebbe il presentimento che per quella notte non avrebbe utilizzato proiettili.
Si divincolò, urlando e scalciando, con un colpo fortunato colpì il lupo, tramortendolo.
Altre ombre emersero dalla foresta.
Carl riuscì ad alzarsi e barcollando si diresse verso Gyro. Vide la gabbietta aperta.
Forse Gyro ce l’ha fatta, pensò.
Un istante dopo si ritrovò con la gola intrappolata in una morsa fatale. Gridò, ma il suo grido strozzato si spense nella notte.

 

 

Copyright © 2008 Fabio Marchionni

Sola in casa

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Sola in casa

I suoi genitori la salutarono con tutte le raccomandazioni del caso, presero i bagagli e si avvicinarono alla macchina. Suo padre caricò le valigie con la solita accortezza nel sistemarle all’interno della macchina mentre sua madre prese posto sul sedile anteriore. Lei rimase ferma vicina alla porta di casa pensando al weekend che sarebbe stato tutto per lei, quei due giorni avevano il sapore di una vacanza.
Vide la macchina allontanarsi, imboccare la strada e sparire dietro il muro e la vegetazione della loro proprietà. Chiuse la porta, lasciando fuori il freddo vento invernale che da due giorni continuava a scrollare gli alberi; il sole ormai era quasi tramontato.
Certo, avrebbe voluto che il suo ragazzo fosse stato li accanto a lei, ma quando tutta euforica le aveva parlato di quel fine settimana, lui le aveva detto che sarebbe stato fuori città per lavoro. E così, l’opportunità di passare una serata romantica con lui si era dissolta come una goccia di colore in un bicchiere d’acqua.
Ora era sola.
Questo la spaventava un poco, ma cosa poteva accaderle in casa?
Guardò l’orologio, erano quasi le sei e mezzo. Fece un rapido giro per le finestre chiudendo una ad una tutte le persiane, questo per il momento la fece sentire più tranquilla. Il vento fuori però sembrava essere cresciuto di intensità e con tutte le finestre chiuse riusciva a sentirne i sinistri rumori.
Prese un libro, poi accese lo stereo e con la musica a farle compagnia iniziò a leggere. Si perse tra le righe di quel romanzo e il tempo le volò via rapidamente, per un po’ non pensò né alla casa, né al vento e né tanto meno al cane dei vicini che fuori abbaiava senza nessun apparente motivo.
La fame la costrinse ad abbandonare la lettura e così chiuse il libro, spense lo stereo ed andò in cucina. Sua madre le aveva lasciato un quantitativo di cibo sufficiente a sfamare una squadra di rugby pensò. Cenò, ma con un’ombra di tristezza a farle compagnia, non le piaceva mangiare da sola. Ma ovviamente disporre di casa tutta per lei aveva anche degli aspetti positivi. Quella era una delle rare occasioni in cui la tv del salotto sarebbe stata tutta per lei, senza la necessità di discutere con nessuno su cosa vedere. Dopo cena prese posizione sul divano e girò sul canale che trasmetteva il suo telefilm preferito.
Era lì, tranquilla e rilassata quando improvvisamente qualcosa le procurò un brivido lungo tutta la schiena, un rumore che le sembrò provenire dal piano superiore.
Abbassò il volume della televisione e rimase in ascolto. Qualcosa continuava a sbattere. Anche se riluttante infilò le ciabatte e andò di sopra percorrendo la scala lentamente, i suoi passi sui gradini in legno produssero inquietanti cigolii che la accompagnarono sino all’ultimo gradino. Quella situazione non le piaceva affatto, il cuore per quanto le batteva forte nella cassa toracica sembrava voler fuggire via. Fuori ormai era notte e tutto il piano era avvolto nell’oscurità.
Cercò freneticamente l’interruttore della luce tastando a memoria la parete. Lo trovò e lo azionò. Ancora quel rumore. Finalmente la luce inondò il corridoio e le pulsazioni diminuirono leggermente.
Si avvicinò alla stanza dei suoi genitori ed aprì lentamente la porta appena accostata. C’era forse qualcuno in quella stanza buia? Accese la luce della camera da letto. Era vuota. Entrò e vide attraverso la finestra la persiana che continuava a sbattere da una parte all’altra, evidentemente quella le era sfuggita. Stupida ragazza, si disse. Cosa immaginavi che fosse?
Aprì la finestra e la richiuse in tutta fretta dopo aver fissato anche la persiana, ma bastò qualche secondo per ritrovarsi le mani completamente gelate. Il freddo le fece venir voglia di prepararsi per la notte e infilarsi sotto le coperte. Così fece, e per un po’ continuò a vedere la tv nella sua camera con le coperte che la ricoprivano sino al mento e due morbidi cuscini a sostenerle il capo. In quella comoda posizione si accorse di non poter resistere a lungo, così spense la tv e si aggomitolò insieme alle coperte.
Ma la casa, colma di oscurità, non era affatto silenziosa.
Ora uno scricchiolio, ora il vento, ora una piccola vibrazione e il sonno stentava ad arrivare. Continuava a girarsi e rigirarsi tra le coperte con la mente che non faceva altro che divagare verso strani e tortuosi pensieri. In un certo senso, si sentiva come dispersa in un enorme labirinto, dove tutte le strade che percorreva la conducevano inevitabilmente verso quello da cui tentava di fuggire, verso la paura.
Ebbe l’impulso di prendere il telefono e chiamare i suoi genitori, ma si convinse che non era il caso di farli preoccupare inutilmente. Ancora una volta cambiò nervosamente posizione nel letto poi si infilò completamente sotto le coperte come se quel sottile strato di piume e materiale sintetico potesse regalarle protezione, il rumore del suo respiro sovrastava di poco quello delle pulsazioni del suo cuore. Ma con il passare dei minuti riuscì a tranquillizzarsi e finalmente si addormentò.
La casa si trovava sopra ad una piccola collina poco distante dalla città. Da quella collina sino a pochi anni fa, non si vedeva altro che una pianura quasi del tutto buia, ma ora le costruzioni erano prolificate e con esse le luci che la rendevano estremamente luminosa, dall’alto ora aveva tutta l’aria di un enorme flipper. Il vento aveva spazzato via tutte le nubi e a dispetto delle vicine luci artificiali, in cielo erano visibili numerosi puntini luminosi.
Verso le tre del mattino qualcosa disturbò il suo riposo. Nella sua mente sogno e realtà si confusero e si intrecciarono diverse volte, con fatica riuscì a svegliarsi e a capire che quel frastuono era reale come il letto su cui dormiva.
Ancora un terribile fragore che la destò completamente. Realizzò che provenisse dal piano inferiore. Forse era ancora il vento il responsabile? No si disse, questa volta era sicura di aver chiuso tutte le finestre.
Qualcuno stava cercando di entrare in casa? Si chiese cosa dovesse fare, rimanere ferma lì nella speranza che l’intruso desistesse, o magari chiamare la polizia?
Si alzò con estrema lentezza e a piedi scalzi si avvicinò alla rampa delle scale, ora era assolutamente sicura che qualcuno stesse forzando una finestre. Si sentì raggelare il sangue pensando che qualcuno stesse cercando di entrare con la forza proprio in quel momento, mentre lei era sola in casa. Se ci fossero stati almeno i suoi genitori avrebbe potuto svegliarli e loro avrebbero saputo sicuramente cosa fare.
Rifletté sulla situazione e dedusse che probabilmente l’intruso non si era reso conto di averla svegliata, e questo poteva essere un punto a suo favore. Se però avesse perso tempo al telefono per chiedere aiuto, magari il ladro avrebbe fatto in tempo ad entrare, e lei avrebbe potuto correre un terribile rischio. E così, anche se spaventata e con il cuore in gola, fece la cosa più naturale ed accese la luce che illuminava le scale. Chiunque stesse tentando di entrare si fermò immediatamente e la casa tornò ad essere silenziosa. Forse con quel semplice gesto era riuscita a spaventare il ladro, almeno per il momento le sembrò così. Quando realizzò che il peggio fosse passato, scivolò a terra con la schiena lungo la parete e iniziò a piangere. Pianse a lungo, come lunghe erano state le ore di quella interminabile serata che l’aveva vista prima sotto la pressione di paure del tutto immaginarie e poi di fronte ad un pericolo reale.
Ora, a di stanza di mesi, ricorda ancora tutto di quella strana sera. Ricorda la telefonata che fece ai suoi per raccontargli quello che era accaduto, ricorda di aver acceso tutte le luci di casa nell’attesa che arrivassero i poliziotti, ricorda di averli accolti con gli occhi gonfi per le tante lacrime versate. Ma fortunatamente non accadde nulla di grave, tutto si era concluso soltanto con un tremendo spavento. Ma ancora oggi, al solo pensiero di passare un’altra notte sola in casa, il cuore le batte forte.

Insolita notte

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La pioggia caduta per tutto il pomeriggio aveva lasciato l’asfalto ricoperto da un sottile velo d’acqua; le pozze erano colme dei riflessi delle insegne luminose. Scendendo dal taxi David non poté evitare di calpestarne una, imprecò mentre frugava nella tasca per recuperare il mazzetto di banconote. Pagò l’autista e poi si diresse con passo deciso verso l’ingresso dell’albergo. A parte il piede appena inzuppato la sua giornata era stata fantastica, la sua presentazione era andata benissimo e il suo capo gli aveva fatto persino i complimenti, cosa che accadeva veramente di rado.
Si infilò nella porta girevole spingendo il vetro con una mano. Attraversare quel tipo di porte gli metteva sempre in testa strane idee, come rimanere bloccati o peggio ancora schiacciati. L’attraversò incolume. Cos’altro sarebbe dovuto accadere?
Sollevò il palmo della mano dalla gelida superficie, lasciò un’impronta sul vetro che per qualche secondo continuò a girare insieme alle porte. Poi svanì.
David guardò l’orologio e si rese conto di quanto si fosse trattenuto in ufficio, indicava le 22.15. Si avvicinò alla Reception e l’uomo in giacca e cravatta dietro al bancone gli riservò uno sguardo stizzito, da principio non ne comprese il motivo ma poi guardando le impronte che aveva lasciato sul pavimento, comprese. Lo sguardo dell’uomo tornò fisso su i suoi occhi.
“Buona sera, in cosa posso esserle utile?”
“Ho prenotato una camera, solo per questa notte.” disse David mentre poggiava la sua borsa a terra.
“Sì. Può cortesemente darmi un suo documento e la carta di credito?”
David consegnò tutto al signor White, il suo nome era indicato sulla piastrina dorata fissata vicino al taschino. Lo guardò controllare la prenotazione sul terminale ed inserire alcuni dati, sperò che tutto fosse in ordine.
“Mi dispiace signore, ma non risulta nessuna prenotazione a suo nome.” Disse White.
“Non è possibile. Possiamo risolvere in qualche modo, avrete sicuramente un’altra camera.“ Disse David.
“Sono desolato, ma siamo al completo. A parte la…”
“A parte cosa?” Chiese David.
“La camera 1113, una camera direi… particolare. Prima che accetti devo avvisarla…vede, lo scorso anno proprio in questo periodo in quella stanza è scomparso un uomo.”
“Cosa vuol dire per scomparso?” Domandò David.
“Senta, ho parlato con quell’uomo personalmente la notte in cui è sparito, ricordo che erano le tre del mattino. Dopodichè sembra essere proprio scomparso nel nulla, sono sicuro che la polizia ancora non si spiega come sia successo. Comunque da quella notte nella camera 1113 accadono strane cose. Strani fenomeni.”
David si definiva un uomo razionale e non aveva la benché minima intenzione di vagare per la città in cerca di una stanza in un altro albergo, e soprattutto cercarla in una notte piovosa come quella. Così accettò la proposta di White.
“Bene signore, come vuole lei.”
White gli restituì il documento e la carta di credito, lo invitò a firmare un modulo che aveva appena stampato e poi abilitò la chiave elettronica della sua camera.
“Undicesimo piano signor Burke e… buona fortuna.” Disse White indicando l’ingresso degli ascensori.
White scomparve nell’ufficio dietro il bancone. David raccolse la borsa e si diresse verso l’ascensore. Si guardò intorno in attesa che arrivasse al piano terra. La hall era separata in due ambienti da un magnifico arco in legno, nell’altra stanza numerosi divani rossi e tavolini bassi in noce erano dislocati ordinatamente, la luce soffusa rendeva l’atmosfera calda e accogliente.
Il campanello che annunciava l’arrivo dell’ascensore richiamò la sua attenzione. Entrò e premette il numero undici, le porte si chiusero e l’ingresso dell’albergo scomparve come una scena dietro la tenda di un teatro, un tenue sottofondo musicale dai toni jazz gli tenne compagnia sino all’arrivo. Si ritrovò a riflettere sulle parole di White e si chiese quali strani fenomeno erano davvero accaduti in quella camera. Sapeva di essere un pochino troppo cresciuto per le storie di fantasmi o cose del genere, non poteva davvero credere a certe stupidaggini.
Le porte si aprirono e David le attraversò; il corridoio era avvolto in una fioca luce che scaturiva dalle piccole applique affiancate ad ogni porta. Procedette senza uscire dalla lunga striscia di moquette rossa e seguendo le indicazioni giunse davanti alla sua stanza. Mentre inserì la chiave magnetica sentì il suo corpo aggredito dalla stanchezza accumulata in quella durissima giornata, ebbe l’improvvisa necessità di un bel bagno.
Entrò, a prima vista la camera gli sembrò ordinata e pulita. Poggiò la borsa sul piano della piccola scrivania poi ripose la giacca nell’armadio ed iniziò a spogliarsi.
La doccia portò via dal suo corpo parte della stanchezza e tensione che aveva accumulato durante la giornata. Tornò nella camera da letto con l’asciugamano stretto intorno alla sua vita, con i capelli dritti come gli aculei di un porcospino e le ciabatte ben inzuppate dalle gocce che continuavano a scendere lungo le sue gambe. La temperatura nella camera era piacevolmente calda, fuori la pioggia aveva ripreso a cadere e il suo scrosciare era costante ed appena percettibile attraverso gli spessi vetri della finestra.
Sollevò la borsa che aveva poggiato sulla scrivania, la spostò sul letto e l’aprì. Come al solito Katie era stata bravissima a preparare il suo bagaglio, il contenuto era perfettamente allineato e fermo nella stessa posizione imposta il giorno prima dalle sue delicate mani. Pensò a lei e decise di chiamarla.
Compose il numero sulla tastiera del cellulare, lo portò all’orecchio ed aspettò che lei rispondesse.
Dopo qualche squillo…
“Pronto, chi è?”
“Ciao Katie, sono io.” Disse David.
“Ciao amore, tutto ok?”
“Si, tutto ok.”
David Notò che la sua voce era un pochino assonnata e le chiese se stava dormendo.
“Non ti preoccupare, mi ero appena appoggiata sul letto. Dimmi della presentazione, è andata bene?” Gli domandò Katie pensando che fosse carino interessarsi del suo lavoro.
“Direi stupendamente, meglio di così non poteva andare. Pensa che Vecchiaccio (così chiamava David il suo capo) è riuscito persino a congratularsi con me.”
“Ne sono veramente felice amore, te lo meriti. Dopo tutto ti sei impegnato a lungo su quel progetto.”
“I bambini come stanno?”
“Ora dormono, sono stati in piedi un pochino più del solito. Quando pensi di rientrare?”
“Beh, domani ho l’aereo per le cinque del pomeriggio, credo sarò a casa non più tardi delle undici.”
“Cercherò di aspettarti sveglia.”
“Grazie amore, buona notte.”
“Anche a te.”
David attaccò e la stanza si colmò di silenzio. Amava dormire nella più completa oscurità così accostò le pesanti tende e ridusse al minimo le luci della città che filtravano attraverso i vetri, spense la luce sul comodino e si distese sul letto.
Pensò a Katie e a quanto le mancasse, dormire senza di lei al suo fianco lo faceva sentire tremendamente solo, poi immaginò i suoi bambini a letto persi nei loro dolci sogni. Si addormentò in poco tempo, una delle poche cose che poteva affermare con sicurezza era il fatto di non soffrire di certo di insonnia. Così David si abbandonò alla notte, ma qualcosa soltanto un’ora più tardi disturbò il suo sonno .
Aveva freddo. Tentò di scaldarsi stringendo nervosamente il lenzuolo contro il corpo, ma la situazione non migliorò di molto. Prima ancora di aprire gli occhi capì che qualcosa nella stanza non andava, era gelida. Accese la luce del comodino, si alzò ed andò a controllare la temperatura impostata dell’aria condizionata, undici gradi. Si convinse che forse era stato programmato in quel modo dal precedente cliente, così innalzò la temperatura sino a venti gradi e l’aria che fuoriuscì dal bocchettone divenne subito più calda, tornò a letto emettendo uno sbadiglio così ampio che per poco non si slogò la mascella.
Fuori la pioggia cadeva incessante come se la città non l’avesse vista da mesi. All’interno della stanza 1113 David continuò a dormire tranquillamente, completamente ignaro di quello che sarebbe accaduto durante la notte.
Erano passate da poco le due del mattino quando inspiegabilmente dal rubinetto della vasca l’acqua iniziò a scorrere con pieno vigore. Questa volta fu proprio il rumore dell’acqua ad interrompere il riposo di David che se pur con molta difficoltà riuscì a sollevare le palpebre.
E adesso cosa succede? Si chiese mentre a piedi scalzi procedeva verso il bagno. Accese la luce e vide la vasca completamente piena d’acqua, qualche altro secondo e il bagno si sarebbe allagato. Si domandò come fosse possibile che un rubinetto chiuso decise di punto in bianco di aprirsi da solo nel bel mezzo della notte e soprattutto di come il tappo si fosse incastrato perfettamente nello scolo. Un affare davvero bizzarro sul quale avrebbe riflettuto l’indomani a mente fresca. Chiuse il rubinetto e sfilò il tappo dal buco. Mentre l’acqua che defluiva attraverso lo scolo gorgogliava, David tornò in stanza e si lasciò cadere sul materasso che reagì facendolo sobbalzare almeno un paio di volte prima di rassegnarsi ad ospitarlo.
Verso le tre del mattino il cellulare squillò.
“No, non è possibile…” Disse David senza accorgersi di aver pronunciato quelle parole.
Il cellulare continuò a squillare e a vibrare finché David allungando il braccio non lo sfiorò con la mano, in quel preciso istante chiunque l’avesse chiamato attaccò. Controllò la chiamata persa. Proveniva da casa.
I battiti del cuore di David aumentarono di frequenza, non era mai capitato prima che Katie l’avesse chiamato durante la notte. Pensò che forse potesse avere qualche problema, o magari i bambini… Schiacciò il tasto per inviare l’ultima chiamata in memoria, sentì squillare ripetutamente finché lei rispose.
“Pronto.” La voce di Katie era quasi irriconoscibile.
“Katie, sono io. Stai Bene?”
“Amore, ma cosa ti prende. Chiamarmi a questa ora della notte…”
“Non mi hai chiamato poco fa?”
“Assolutamente No.”
Per un attimo sulla linea telefonica si propagò soltanto rumore.
“Stai bene David?”chiese Katie.
“Si, è soltanto che…nulla lascia stare. Ti chiamo domani e scusami, buona notte.”
“Notte.” Katie riattaccò.
David per un momento divenne mobile come un palo piantato nel cemento. Rifletté su quello che era accaduto durante la notte, tutto era così bizzarro; l’aria condizionata, l’acqua della vasca ed ora una chiamata di sua moglie, chiamata che lei diceva di non aver mai fatto. Ripensò alle parole di White: “Buona Fortuna”.
Erano forse questi gli estranei eventi di cui aveva parlato White? Comunque era del tutto fuori dalla sua logica ipotizzare che in quella stanza ci fosse davvero una qualche entità armata di un bel lenzuolo bianco da agitare a un metro dal pavimento.
Ormai sveglio sentì la vescica protestare si alzò ed andò in bagno mentre fuori il tempo non era di certo dei migliori.
Nel preciso istante in cui tornò in camera un grosso lampo squarciò il cielo, David si accorse che le tende non erano accostate nella posizione in cui le aveva lasciate ma completamente spalancate, un brivido percorse il suo corpo. La camera per qualche secondo si colorò di un azzurro intenso e David notò qualcosa di strano sul vetro della finestra, era completamente appannata tanto da far scomparire l’intera città. La camera tornò buia e un grosso tuono fece vibrare i vetri. Poi accadde qualcosa che David non riuscì a spiegare per il resto della sua vita.
A poco a poco vide chiaramente comparire delle lettere, una parola, un messaggio. Si fece coraggio e si avvicinò alla vetrata allungando una mano per toccare il vetro ma si accorse che all’interno era perfettamente asciutto, il messaggio era stato scritto sulla superficie esterna. Quando un altro lampo illuminò la vetrata David riuscì a leggere perfettamente il messaggio, Era un indirizzo.
Pazzesco, come è possibile? Si domandò.
David resta calmo. Durante questa notte stanno accadendo cose molto strane, c’è forse davvero un fantasma in questa stanza?
David non dire più stronzate e pensa razionalmente.
E cosa vuoi che trovi di razionale nello spiegare come qualcuno, magari dall’altro mondo, mi mandi un messaggio scrivendolo su una finestra dell’undicesimo piano di un grattacielo. Sto vaneggiando, probabilmente tutto questo è un incubo, adesso mi risveglierò, non può essere che così.
David si diede un bel pizzicotto sul braccio chiudendo gli occhi e sperando che quando li avrebbe riaperti le cose fossero cambiate, ma intorno a lui tutto rimase immutato, specialmente il messaggio stampato sul vetro. Terribilmente scosso provò comunque a dare un significato a quel messaggio.
Un momento. White mi ha detto che un uomo è scomparso, forse questo indirizzo potrebbe essere un indizio, potrei provare a…
Probabilmente sto diventando matto, ma un tentativo posso farlo.
All’improvviso il vetro si spannò, le lettere sparirono e rimasero soltanto le numerose gocce d’acqua che continuavano a scivolare verso il basso, mentre altre continuavano a cadere e ad aggiungersi sulla fredda superficie della finestra.

Due giorni dopo nella villetta della famiglia Burke, Katie era davanti ai fornelli a preparare la colazione quando sentì i passi di David che scendeva dalle scale, dopo qualche secondo lui entrò in cucina.
“Buongiorno amore, mi dispiace per ieri sera non sono proprio riuscita ad aspettarti sveglia.”
David si avvicinò a Katie, l’odore della pancetta affumicata risvegliò il suo stomaco che produsse un inquietante rumore.
“Hai proprio fame!” Commentò Katie.
Entrambi accennarono un sorriso. David l’abbracciò e la baciò sulle labbra.
“Non ti preoccupare, l’aereo ha fatto un po’ di ritardo così sono rientrato più tardi del previsto. Mi sei mancata.”
“Anche tu.” Questa volta il bacio fu più passionale.
Mentre David iniziò a fare colazione Katie si mise seduta e prese il giornale che aveva da poco portato in casa. Diete una rapida occhiata alle principali notizie del giorno. Dopo aver letto diversi titoli di economia, politica e cronaca, una notizia in particolare attirò la sua attenzione.
“Senti questa: Grazie ad una telefonata anonima la polizia è stata in grado di ritrovare il cadavere di Jonathan Green. Le autorità sono riuscite così a rintracciare il cadavere a distanza esatta di un anno dallo stesso giorno in cui si perdevano le sue tracce.
Non trovi che sia una strana coincidenza? ” Chiese Katie che senza aspettare che suo marito rispondesse continuò a leggere l’articolo.
“La cosa strana è che la telefonata anonima proveniva proprio da una cabina di fronte all’albergo in cui Green aveva pernottato prima di scomparire nel nulla…”
Katie alzò gli occhi verso suo marito. I loro sguardi si incrociarono e lei capì che David doveva dirle qualcosa.
“Cosa è accaduto la scorsa notte David? Quella tua telefonata durante la notte, devi dirmi qualcosa?”
In quella limpida mattina invernale Katie e David parlarono a lungo, mentre da qualche parte, in un piccolo cimitero, il corpo di Jonathan poteva finalmente avere una degna sepoltura.