Archive for maggio, 2014


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Lo stupro che contribuì alla caduta della Monarchia di Roma

Naturalmente, quell’atto di violenza su una donna fu solo la scintilla scatenante di un fuoco che bruciava sotto la cenere.
Come andarono i fatti e chi furono i protagonisti di quella tragedia?
Regnava Tarquinio il Superbo, uomo assai superstizioso, oltre che assai superbo. Un inquietante prodigio aveva sconvolto la superstiziosa corte etrusca: un enorme serpente era comparso nella Reggia, provocando scompiglio e terrore.
Il Re consultò maghi ed indovini, ma, alla fine, decise di inviare a Delfi, (dove sorgeva il Santuario di Apollo) per un responso, due dei suoi figli: Tito e Arrunte, accompagnati dal nobile romano Lucio Giunio, figlio drlla sorella, detto Bruto, cioè: “stolto”.
Questi, che stolto non era, ma solo assetato di rancore verso la famiglia reale, responsabile della morte del padre e del fratello, li accompagnò di buon grado, ma dimostrò, sulla via del ritorno, di quale pasta era fatto.
L’oracolo, infatti, s’era espresso così:
“… il potere su Roma, spetterà a colui che per primo bacerà la Madre.”
Fu così che, giunti in patria, mentre i due fratelli discutevano su chi di loro avesse più diritto a quel privilegio, finendo col decidere che l’avrebbero fatto insieme, Giunio il “Bruto” finse d’inciampare e cadendo baciò il suolo, cioè la Madre-Terra, facendo fede alle parole dell’oracolo. Giunio non diventò Re, come si sa, ma contribuì decisivamente al crollo dellla Monarchia ed alla cacciata dei Tarquinii.

Che la Monarchia si trovasse in difficoltà, re Tarquinio il Superbo lo sapeva perfettamente: il cattivo andamento della guerra di Aricia, l’ostilità del popolo nei suoi confronti e non ultimi, i continui presagi negativi che avevano finito per convincerlo ad inviare messaggeri a consultare l’oracolo di Delfi; al precipitare degli eventi, però, contribuì anche la riprovevole condotta di Sesto, il maggiore dei suoi figli.

Le cronache raccontano che un giorno mentre si trovava sotto le mura di Ardea, cinta d’assedio, in compagnia del figlio Sesto e di Giunio Tarquinio Collatino, cugino e Legato della città di Collatia, la conversazione, come spesso accade in tali frangenti, si concentrò sulle spose lontane, finendo con lo scommettere sulla loro virtù.

“La mia Lucrezia é donna bella ed onesta.” deve essersi vantato il Collatino.

Lucrezia era davvero una donna bellissima e Sesto era un giovane prepotente ed alquanto libertino e accettò immediatamente la proposta di correre a casa a soprendere le proprie donne. Inforcati i cavalli, i due giovani raggiunsero la casa di Sesto e vi sorpresero la moglie che si lasciava consolare da un gruppo di giovani spasimanti; la bellissima Lucrezia, invece, trascorreva il suo tempo al telaio con le ancelle.

Scornato e perdente, Sesto pensò subito alla maniera di vendicarsi. Si presentò qualche giorno dopo nella casa di Collatino con il pretesto di fare visita di cortesia alla bella Lucrezia, in assenza del marito.

Ignara delle sue vere intenzioni, la donna lo accolse con tutti gli onori,ma durante la notte, mentre i servi erano addormentati, penetrò nella canera della donna, in compagnia di uno schiavo negro, insidiando la sua virtù.

Lucrezia lo respinse sdegnosamente, ma Sesto aggiunse intimidazioni all’oltraggio: prima le dichiarò la sua passiome e le offrì il trono di Roma, poi passò alle minacce. Le disse che se non avesse accettato le sue profferte amorose, egli non si sarebbe limitato ad ucciderla, ma l’avrebbe ricoperta di vergogna. Avrebbe- le disse – ucciso prima lei e poi lo schiavo negro che era con lui; l’avrebbe denutato e lasciato disteso accanto al cadavere di lei per far credere ad una turpe adulterio ed aggiunse che avrebbe giustificato l’uccisioone di entrambi come un atto di giustizia per la loro colpa.

Tito Livio e Dionigi, che nelle loro cronache hanno riportato questo episodio, ne parlano, in verità, con un po’ di ambigua superficialità, lasciando intendere che la donna, per paura e della morte e del disonore, sia stata consenziente alla violenza, mentre invece, Lucrezia intendeva salvare la propria memoria dalla vergogna e dal disonore. Il giorno dopo, infatti, come scrive Tito Livio:

“Io assolvo me dal peccato, ma non mi sottraggo al castigo.” dirà Lucrezia ai parenti raccolti in riunione per riferire della violenza a cui era stata costretta con la forza, dopo di ché si trafiggerà con il pugnale.

Tra i presenti c’é anche Giunio Bruto, lo “Sciocco” e sarà proprio lui, animato dal suo odio verso i Tarquinii, ad occuparsi di tutta la faccenda ed a rubare a tutti la scena: a Collatino, il marito offeso, a Sesto, lo stupratore e alla stessa vittima. Vittima ideale per il finto sciocco… per l’uomo che aveva nascosto sotto la maschera di una finta stoltezza l’odio bruciante contro la famiglia Tarquinia e che poteva finalmente smettere i panni del finto stolto ed indossare quelli del vendicatore.

Egli estrasse il pugnale dal petto della povera Lucrezia e giurò vendetta contro i suoi uccisori. Poi, mostrando quanta determinazione ci fosse in lui, sollevò il corpo esanime della donna ed a braccia lo portò fino al Foro e sull’onda di una grande emozione, spinse la popolazione alla rivolta. Al cospetto delle spoglie della virtuosa patrizia, infatti, tenne un discorso funebre dagli accenti tanto vibranti da infiammare i presenti: elogiò la virtù di Lucrezia e denunciò i delitti della famiglia Tarquinia.
Fu la fine della Monarchia: Tarquinio il Superbo e la sua famiglia furono cacciati via a furor di popolo e in sua vece fu invocata la Repubblica e proprio Giunio e Collatino, furono i primi due Consoli eletti.

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IL CAMPO SCELLERATO… ovvero, la tomba delle “sepolte vive”

Era un luogo lungo la strada selciata di Porta Collina dove le Vestali ree di inadempienza al proprio voto di castità venivavo sepolte vive. Si trattava di un seminterrato provvisto di un pagliericcio e di una porticina che veniva sprangata dall’esterno ed in cui la sventurata doveva vivere la sua angosciosa e lunga agonia, con solo un bricco di latte, una pagnotta ed una lampada ad olio .

La prima di queste sventurate, sotto re Tarquinio Prisco, accusata di aver attentato alla propria virtù, fu la nobile Pinaria, figlia di Publio. Seguì Minuzia, la quale attirò i sospetti su di sé per la cura eccessiva che dedicava alla propria persona. Ad accusarla fu uno schiavo e non le fu possibile dimostrare la propria innocenza.

Nella guerra di Roma repubblicana contro i Volsci, la sorte era decisamente sfovorevole a Roma e si disse che gli Dei erano insoddisfatti e corrucciati ed esigevano sacrifici.
Si pensò subito alla condotta delle sacerdotesse di Vesta: molte delle disgrazie che piovevano sulla città venivano loro attribuite. Qualcuno mise in giro la voce che la responsabilità era proprio di una delle Vestali: Oppia, colpevole di aver oltraggiato la sua virtù con due uomini. Sottoposta a giudizio e condannata, la ragazza fu sepolta viva e i due presunti colpevoli, uccisi a colpi di verghe.

Stessa sorte toccò ad un’altra Vestale, la giovane Urbinia, questa volta durante la guerra di Roma contro Veio. Poiché in città e nelle campagne donne e bambini si ammalavano e morivano di morti sospette, la pubblica attenzione si concentrò una volta ancora sulla Casa di Vesta e sul comportamento delle sue Sante Figlie. Ad essere accusata di non aver rispettato il giuramento di verginità fu, questa volta, la povera Urbinia ed anche lei conobbe l’orribile sorte di essere sepolta viva in quella fossa infame.
Anche per i due presunti colpevoli non ci fu scampo: processo e condanna a morte.

Altre quattro Vestali furono riconosciute colpevoli e condannate, ma tutte preferirono darsi morte piuttosto che affrontare il ludibrio di un processo e una morte orribile: Lanuzia, accusata da Caracalla, che si gettò dal tetto della sua casa; Tuzia che, accusata di aver avuto rapporti con uno schiavo, si trafisse con un pugnale; Gapronia che si strangolò e Opimia che scelse il veleno; Florania, invece, non riuscì a sfuggire alla terribile sorte.

Non mancarono casi di Vestali condannate nonostante la comprovata innocenza, come nel caso della bella e giovane Clodia Leta e la nobile Aurelia, le quali preferirono affrontare il martirio piuttosto che cedere alle profferte libidinose del loro accusatore: l’imperatore Caracalla.

Innocente era anche la bella Cornelia, ai tempi di Domiziano il quale, respinto, l’aveva accusata di aver attentato alla propria virtù con un certo Celere. Non potendo sostenere le accuse in Senato, l’Imperatore l’accusò in un improvvisato tribunale allestito in una casa di campagna senza dare alla povera ragazza possibilità alcuna di discolparsi e difendersi.
Riconosciuta colpevole, l’infelice Cornelia fu condannata e condotta sul luogo del supplizio.
Qui, mentre scendeva i gradini che la portavano in fondo alla fossa, il mantello si impigliò. Il Littore fece l’atto di tendere una mano per aiutarla, ma Cornelia lo respinse per non contaminarsi e dimostrare di possedere ancora la propria virtù e purezza.
Non ancora soddisfatto da questa condanna, Domiziano fece uccidere con le verghe anche il povero Celere, del tutto estraneo a quei fatti.

Singolare é la storia di altre tre infelici: Marzia, Licinia ed Emilia, Vestali ai tempi della Repubblica.
Marzia aveva una relazione amorosa con un giovane di buona famiglia che durava già da qualche tempo quando fu accusata; Lucio Metello, il Pontefice Massimo, si lasciò impietosire dalla loro storia d’amore e graziò la ragazza.
Sempre sotto il suo Pontificato, altre due Vestali, Licinia ed Emilia, vennero meno ai loro voti di castità concedendosi l’una al fratello dell’altra. Scoperte e accusate da uno schiavo, un certo Manius, comparirono davanti al tribunale, ma solo Emilia fu condannata, perché accusata anche di aver intrattenuto relazione illecita con alcuni schiavi per evitare denuncia da parte di quelli.
Il popolo romano, però, assai “bigotto” avremmo detto oggi, riguardo la virtù delle proprie Vestali, si mostrò assai scontento di quelle assoluzioni e pretese un nuovo processo.
Questa volta le tre infelici ragazze vennero tutte condannate e con esse anche quelli che le avevano protette e in qualche modo sostenute.