Category: UNIVERSO DONNA


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IL CAMPO SCELLERATO… ovvero, la tomba delle “sepolte vive”

Era un luogo lungo la strada selciata di Porta Collina dove le Vestali ree di inadempienza al proprio voto di castità venivavo sepolte vive. Si trattava di un seminterrato provvisto di un pagliericcio e di una porticina che veniva sprangata dall’esterno ed in cui la sventurata doveva vivere la sua angosciosa e lunga agonia, con solo un bricco di latte, una pagnotta ed una lampada ad olio .

La prima di queste sventurate, sotto re Tarquinio Prisco, accusata di aver attentato alla propria virtù, fu la nobile Pinaria, figlia di Publio. Seguì Minuzia, la quale attirò i sospetti su di sé per la cura eccessiva che dedicava alla propria persona. Ad accusarla fu uno schiavo e non le fu possibile dimostrare la propria innocenza.

Nella guerra di Roma repubblicana contro i Volsci, la sorte era decisamente sfovorevole a Roma e si disse che gli Dei erano insoddisfatti e corrucciati ed esigevano sacrifici.
Si pensò subito alla condotta delle sacerdotesse di Vesta: molte delle disgrazie che piovevano sulla città venivano loro attribuite. Qualcuno mise in giro la voce che la responsabilità era proprio di una delle Vestali: Oppia, colpevole di aver oltraggiato la sua virtù con due uomini. Sottoposta a giudizio e condannata, la ragazza fu sepolta viva e i due presunti colpevoli, uccisi a colpi di verghe.

Stessa sorte toccò ad un’altra Vestale, la giovane Urbinia, questa volta durante la guerra di Roma contro Veio. Poiché in città e nelle campagne donne e bambini si ammalavano e morivano di morti sospette, la pubblica attenzione si concentrò una volta ancora sulla Casa di Vesta e sul comportamento delle sue Sante Figlie. Ad essere accusata di non aver rispettato il giuramento di verginità fu, questa volta, la povera Urbinia ed anche lei conobbe l’orribile sorte di essere sepolta viva in quella fossa infame.
Anche per i due presunti colpevoli non ci fu scampo: processo e condanna a morte.

Altre quattro Vestali furono riconosciute colpevoli e condannate, ma tutte preferirono darsi morte piuttosto che affrontare il ludibrio di un processo e una morte orribile: Lanuzia, accusata da Caracalla, che si gettò dal tetto della sua casa; Tuzia che, accusata di aver avuto rapporti con uno schiavo, si trafisse con un pugnale; Gapronia che si strangolò e Opimia che scelse il veleno; Florania, invece, non riuscì a sfuggire alla terribile sorte.

Non mancarono casi di Vestali condannate nonostante la comprovata innocenza, come nel caso della bella e giovane Clodia Leta e la nobile Aurelia, le quali preferirono affrontare il martirio piuttosto che cedere alle profferte libidinose del loro accusatore: l’imperatore Caracalla.

Innocente era anche la bella Cornelia, ai tempi di Domiziano il quale, respinto, l’aveva accusata di aver attentato alla propria virtù con un certo Celere. Non potendo sostenere le accuse in Senato, l’Imperatore l’accusò in un improvvisato tribunale allestito in una casa di campagna senza dare alla povera ragazza possibilità alcuna di discolparsi e difendersi.
Riconosciuta colpevole, l’infelice Cornelia fu condannata e condotta sul luogo del supplizio.
Qui, mentre scendeva i gradini che la portavano in fondo alla fossa, il mantello si impigliò. Il Littore fece l’atto di tendere una mano per aiutarla, ma Cornelia lo respinse per non contaminarsi e dimostrare di possedere ancora la propria virtù e purezza.
Non ancora soddisfatto da questa condanna, Domiziano fece uccidere con le verghe anche il povero Celere, del tutto estraneo a quei fatti.

Singolare é la storia di altre tre infelici: Marzia, Licinia ed Emilia, Vestali ai tempi della Repubblica.
Marzia aveva una relazione amorosa con un giovane di buona famiglia che durava già da qualche tempo quando fu accusata; Lucio Metello, il Pontefice Massimo, si lasciò impietosire dalla loro storia d’amore e graziò la ragazza.
Sempre sotto il suo Pontificato, altre due Vestali, Licinia ed Emilia, vennero meno ai loro voti di castità concedendosi l’una al fratello dell’altra. Scoperte e accusate da uno schiavo, un certo Manius, comparirono davanti al tribunale, ma solo Emilia fu condannata, perché accusata anche di aver intrattenuto relazione illecita con alcuni schiavi per evitare denuncia da parte di quelli.
Il popolo romano, però, assai “bigotto” avremmo detto oggi, riguardo la virtù delle proprie Vestali, si mostrò assai scontento di quelle assoluzioni e pretese un nuovo processo.
Questa volta le tre infelici ragazze vennero tutte condannate e con esse anche quelli che le avevano protette e in qualche modo sostenute.

A G A R

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Agar e Ismaele nel deserto

Figura biblica femminile fra le più controverse. Forse la più controversa. Perfino nel significato del nome: amarezza, straniera, fuggitiva, nell’intrepazione egizia, ebraica o araba.
Sempre tracciata da mano maschile, mai femminile.
Eppure oggi questa figura, come disse in un’intervista la scrittrice pakistana Thamina Durrani (autrice del libro Schiava di mio marito), è stata scelta come simbolo islamico per rappresentare l’impegno delle donne musulmane di uscire da una condizione di dipendenza ed immobilismo .
Ma non solamente delle donne musulmane.
Agar è una donna che, rispetto ai costumi del tempo, si pone in una posizione critica mettendo in discussione privilegi (maschili e femminili) ed offrendo spunto per riflettere sulla condizione femminile.
Ma chi é il personaggio Agar?
La tradizione ce la consegna quale schiava di Sarai, Sposa Primaria di Abramo, capo del popolo degli Ibrihim (figli di Abramo) rifugiati in Egitto durante una carestia.
Secondo il racconto biblico durante la sua permanenza in Egitto Abramo acquistò servi serve e qualcuno ipotizza che Agar fosse tra queste.
La prima domanda che viene spontanea é: poteva una persona appartenente al popolo dominante essere schiava di una persona appartenente al popolo ospite e dominato?
Fra le tante leggende sorte intorno a questa figura (di cui non esistono tracce né prima né dopo questi fatti) una la vuole figlia del Faraone che si era invaghito di Sarai. La ragazza si sarebbe talmente affezionata a quella donna dai gusti raffinati (Sarai era di origine mitanne: una babilonese) assai diversa dalle donne egiziane, da averla voluto seguire quando Abramo lasciò l’Egitto… come andò a finire lo vedremo presto!

Agar: schiava o sposa?
Sposa, sorella, serva… (solo madre, con ben altra funzione) erano termini che si attribuivano indipendentemente alla donna.
Nella cultura ebraica Agar é soltanto la schiava di Sarai, per quella islamica, invece, é la Sposa Secondaria del Patriarca.
Nella Genesi Sarai dice al marito – verso 16:2
“Ecco, il Signore mi ha fatta sterile, ti prego vai dalla mia serva: forse avrò un figlio da lei.”
La consuetudine glielo consentiva: in caso di sterilità il figlio nato dalla schiava, partorito sulle sue ginocchia come dal proprio grembo, le apparteneva. Era suo figlio!
Oggi un simile costume è considerato una violenza inaccettabile. Per entrambe le donne: per il dolore e la mortificazione di Sara e per l’oltraggio su Agar.
La donna sterile all’epoca era considerata una sciagura per la famiglia e Sarai era sterile.

Sarai non può adempiere alla promessa di Dio di fare di Abramo “Il Padre di una grande Nazione”: la sua sterilità compromette il Disegno Divino, che è il tema dominante di tutto il racconto. Ed é proprio Sarai ad intervenire.
Abramo resta nell’ombra. Egli “ascolta la voce di Sarai” quasi fosse un personaggio secondario del dramma.
Ma le due donne non sono alleate e quell’atto genera conflitti e rivalità. Ogni diritto viene calpestato: Agar diventa un oggetto, uno strumento da usare.
Anche i termini “prendere” “dare” … utilizzati quando si parla di lei, sarebbero per una donna dei giorni nostri, oltremodo offensivi.

Agar, riporta la tradizione biblica, si insuperbisce e si carica di arroganza quando resta incinta e Sarai si lagna con Abramo il quale, ancora una volta:
“E’ la tua schiava ed é in tuo potere, fanne che cosa vuoi.” dice, rientrando nuovamente fra le quinte e lasciando la scena del dramma alle due donne.
“Sarai la maltrattò tanto che quella se ne andò.” riporta testualmente la scrittura.
Sara é forte, ma Agar é ribelle. Scappa, ma poi ritorna; si umilia e restituisce il prestigio all’altra.

“Quanta sofferenza, quanta angoscia e desolazione ha causato Agar con la sua complicità nell’intento di dare un erede ad Abramo” – Genesi 15 -4:5.
Quasi una aticipazione alla tribolazione che verrà: quella rivalità di Popoli che ha attraversato i secoli ed ha raggiunto i nostri giorni. Rivalità di Popoli che ha avuto origine proprio dalla rivalità di quelle due donne: Sarai, gelosa e prepotente e Agar, intollerante e ribelle.
La rottura finale giunge, però, con la rivalità dei figli: Ismaele, il figlio di Agar e Isacco, il figlio di Sarai e ancora una volta Abramo ascolta Sarai, che adesso é diventata Sara, cioé Signora-Regina:
“Scaccia quella schiava e suo figlio perché il figlio di quella schiava non sia erede con mio figlio.”
Abramo scaccia Agar e Ismaele.

L’analisi finale del racconto può sembrare addirittura un gesto spietato e immorale: scacciare un figlio e votarlo a morte quasi sicura.
“Abramo le dà del pane e un otre d’acqua.” – Genesi 21 8:4
Ai nostri poveri occhi ciechi non pare vi sia della morale in questo gesto: un otre e del pane per affrontare da soli il deserto?
In realtà, per il credente, il disegno divino non si conclude con la cacciata di Agar. Agar e Ismaele non periranno nel deserto: in loro soccorso arriverà l’Angelo il cui intervento condurrà all’adempimento delle Promesse Divine:
“Io farò diventare una grande nazione anche il figlio della tua schiava che é tua prole”
la stessa Promessa fatta per Isacco:
“Farò di lui il Padre di una grande nazione.”

Ma qui un’altra domanda é d’obbligo: Chi… o Cosa é l’Angelo?
Chi ha soccorso veramente Agar e Ismaele? La Provvidenza Divina… Certo!
Lo dice la tradizione biblica, lo conferma quella islamica attraverso alcuni riti del pellegrinaggio alla Mecca, la corsa attraverso le collinette di Safa e Marwa, che rievocano l’affannosa corsa di Agar alla ricerca di acqua per dissetare il figlio: Agar é forte. Agar é coraggiosa. Agar non si arrende. Agar ha sempre dovuto conquistarsi ogni cosa.
Agar e Ismaele non sono più tornati alle querce di Mambre, ma sono rimasti nel deserto del Paron. Nessuna notizia, nessun cenno su quel ritorno, solo che “sua madre gli (a Ismaele) prese una moglie del paese d’Egitto.”
Questo potrebbe far supporre che siano tornati in Egitto o rimasti in terra di Sinai, il cui territorio di frontiera era disseminato di avamposti militari egiziani… questo, però, conduce inevitabilmente ad altre supposizioni.

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L’harem nel mondo arabo


Fu l’istituto della poligamia a favorire l’uso dell’harem, nel mondo arabo.
L’harem, il cui significato letterale è: “luogo sacro e proibito”, era la parte della casa destinata alle donne.
L’usanza di relegare le donne in un appartamento della casa è antichissima ed in alcuni Paesi viene ancora oggi praticata. Un’usanza che trasformava la donna in un oggetto e la defraudava della dignità e della individualità di persona.
Prigioniere senza sbarre, le donne dell’harem, di natura pigre ed indolenti, conducevano un’esistenza inoperosa; al contrario della donna beduina, ad esempio, sulle cui spalle gravava il peso della famiglia, ed al contrario anche della popolana cittadina, attiva e lavoratrice.
Analfabeta, ignorante, fuori del tempo e del mondo, la donna dell’harem viveva esclusivamente per il piacere dell’uomo, perciò, ogni azione, ogni pensiero, ogni cura, erano rivolte a tale, unico scopo.
L’uomo, dal canto suo, rispondeva a questa totale dedizione, appagando ogni suo capriccio, naturalmente secondo i propri mezzi; spesso, infatti, queste donne disponevano di appartamenti propri e di proprie schiave.
Arrivavano numerose, negli harem, vendute dalle famiglie o frutto di quella dolorosa piaga che l’Europa conosceva come la: “Tratta delle bianche”.
Tra questo elevato numero di donne, il Sultano sceglieva le sue Kadin, le concubine. Generalmente quattro.
Rispetto alle altre donne, queste godevano di particolare considerazione, ma dovevano obbedienza alla padrona, cioè alla moglie: la Valde Sultan, ossia la Sultana-Madre, donna libera, cui tutti, lo stesso marito, dovevano rispetto.
Il problema più assillante di un harem era quello di vincere la noia di interminabili giornate oziose. Non potendo uscire di casa, se non in rare occasioni, quando ciò accadeva, queste donne finivano sempre per vagabondare nei bazar, mettendo a dura prova la pazienza dei venditori.
Entrare ed uscire dai negozi, tra estenuanti contrattazioni e senza comprare niente, era il loro divertimento preferito.
Un altro passatempo era quello di recarsi ai bagni pubblici.
In quelle scorribande, però, non erano mai sole; c’era sempre qualcuno a sorvegliarle: una donna anziana oppure un eunuco, un uomo, cioè, privato della propria virilità a tale, unico scopo. L’uso di affidare le donne ad un eunuco era passata al mondo musulmano dalla civiltà bizantina.
Quando mancavano le occasioni per uscire di casa, queste impareggiabili, oziose creature, organizzavano feste e visite di cortesia all’interno del palazzo: nell’arte di intrattenersi a vicenda, quelle oziose e lussuriose donne, erano vere maestre.
Su splendidi terrazzi affacciati sul mare, potevano passeggiare, danzare, bere the, mangiare focaccine di farina di datteri e sfoggiare gioielli: orecchini, collane e bracciali di preziosissima e finissima filigrana, nella cui arte gli orafi arabi sono sempre stati grandi maestri.
I divertimenti erano quasi sempre sciocchi ed infantili; andavano dalla “moscacieca” al “nascondino”, dal “gioco dei perché” a “gioco della verità”.
La loro preferenza, però, andava agli scherzi perfidi e pesanti a spese di ancelle ed eunuchi. Soprattutto questi ultimi, costretti a subire crudeli commedie per lo spasso di un pubblico sciocco, insensibile ed annoiato.
Donne ed eunuchi si odiavano profondamente: le prime, perchè scaricavano su quelli i rancori verso il maschio, i secondi perchè non potevano sottrarsi alle angherie di quelle… entrambi vittime di un malcostume che ha preteso molta legna da ardere, prima di diventare cenere…

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(continua)
- MEDEA

Feroce e tragica fu questa figura di donna, considerata fin dall’antichità come il “genio del male al femminile”.
La tradizione micenea la vuole al fianco dell’eroe Giasone, uno degli Argonauti partiti dalla Grecia per la Colchide, alla conquista del “Vello d’Oro”.
Medea lo aiutò sempre ed in ogni modo, con le sue arti magiche, non disdegnando neppure di far ricorso al delitto più efferato per spianargli la via.
Secondo il mito, erano state Minerva e Giunone, Protettrici dell’eroe, ad indurre Venere a convincere il figlioletto, Eros, a scoccare una freccia nel cuore di Medea affinché si innamorasse di Giasone e lo aiutasse nell’impresa.
Giasone sposò Medea promettendo, davanti agli Dei, di amarla per sempre e portarla con sé in Grecia.
Superate le prove imposte da re Eeta, padre di Medea, e staccato il Vello d’Oro dal ramo di quercia cui era attaccato, i due salirono sulla nave Argo per tornare in Grecia.
Eeta, però, contravvenendo ai patti, fece inseguire gli Argonauti fino alla foce del Danubio.
Per ritardare l’inseguimento e aiutare il suo uomo, Medea ricorse al delitto più atroce: attirò con l’inganno il fratellastro Apsirto, facendogli credere d’essere stata rapita e di trovarsi sulla Argo contro la propria volontà e lo fece uccidere per poi farne gettare i resti nel fiume e costringere gli inseguitori a rallentare per seppellirli.
Dopo varie peripezie, gli Argonauti giunsero in Grecia e i due amanti si fermarono a Corinto, dove Giasone fu fatto Re. Qui, però, l’eroe commise il suo più grave errore: si innamorò della bella Creusi, (o Glauce) figlia di re Creonte e la sposò, abbandonando Medea.
La vendetta della maga, nipote della ancor più potente maga Circe, fu tremenda.
Fingendosi rassegnata, l’implacabile Medea inviò il suo dono di nozze alla novella sposa: una corona d’oro e un manto bianco.
Appena, però, la sposa ebbe indossato la veste nuziale, questa prese fuoco provocandone la morte e quella di tutti coloro che si trovavano a Palazzo; Giasone si salvò solo perché riuscì a buttarsi giù da una finestra.
Non ancora soddisfatta, Medea giunse ad escogitare e mettere in atto la più orrenda delle punizioni per il marito infedele: quella di uccidere due dei figli avuti da lui.

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La vendetta, si dice, è un piatto che va gustato freddo.
Proprio quello che fecero due tragiche figure femminili della Storia (o della Mitologia): Medea e Crimilde, l’una appartenente al Mito Nordico e l’altra a quello Creco.

Crimilde, principessa dei Burgundi

Questa storia fa parte della mitologia nordica del popolo dei Nibelunghi. Inizia quando l’eroe Sigfrido giunge alla corte del Re dei Burgundi.
Sigfrido è un grande eroe, che ha compiuto grandi imprese: ha combattuto, vinto e ucciso il drago… nel cui sangue si è bagnato rendendosi invulnerabile, salvo una spalla su cui si era posata una foglia.
Ha conquistato la Spada Magica, la cui lama uccide al solo tocco ed ha ricevuto in dono da una maga un anello che moltiplica le forze.
Riesce anche a salvare la Valchiria Brunilde, vergine-Guerriera inviata da Odino, Padre degli Dei, a scegliere eroici guerrieri morenti da condurre nel Walhalla, dimora degli Dei.
Brunilde e Sigfrido finiscono per innamorarsi, ma il cattivo mago Hagen, con una pozione magica, fa infiammare il cuore dell’eroe per Crimilde, sorella di Gunther, re dei Burgundi, a cui Sgfrido consegna la bella Brunilde.
Furente, ma sempre innamorato del suo eroe, Brunilde è rosa dalla gelosia: Sigfrido e Crimilde sono molto felici e lei per vendicarsi del tradimento di Sigfrido, rivela ai suoi nemici il solo punto vulnerabile del suo corpo.
Responsabili della morte di Sigfrido, con una freccia scagliata in quel solo punto vulnerabile, sono il mago Hagen e lo stesso re Gunther, i quali vogliono impadronirsi del tesoro che l’eroe aveva sottratto al drago.
Brunilde, apprendendo del filtro magico, rosa dal rimorso, si getta sulla pira su cui Crimilde aveva fatto adagiare il cadavere dell’eroe.
La vendetta di Crimilde, invece, fu tremenda e seguiva un ben preciso disegno.
Si concesse come moglie ad Attila, Re degli Unni e si fece giurare che l’avrebbe assistita nella vendetta contro la propria famiglia.
La nuova Regina degli Unni invitò a corte il fratello Gunther con il suo seguito di nobili e cavalieri e il mago Hugen. Offrì loro un sontuoso banchetto, chiedendo, però, di lasciare le armi fuori del grande salone.
Crimilde chiese ai fratelli di consegnarle il mago Hagen, ma costoro si rifiutarono, poiché il mago era il solo a conoscere il posto, nel Reno, in cui Sigfrido aveva sepolto il suo tesoro.
Per ottenere quel tesoro, fa sapere il mago, nessuno del popolo dei Burgundi dovrà essere ancora in vita.
Crimilde non ebbe esitazioni e chiese da Attila, che non aspettava altro, lo sterminio della sua gente e dell’odiato mago Hagen, che si consumo durante quel banchetto fatale.

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ANTICO EGITTO – Poesia Amorosa

Unica amante che non ha seconda
Bella più di ogni altra donna.
Luminosa e perfetta come la stella sorgente
Di colorito splendente, seduce con lo sguardo
E incanta con le labbra.
Il suo collo è lungo, meraviglioso il seno.
I capelli veri lapislazzuli
Più che oro splendono le braccia
Le dita ricordano i fior di loto.
Perfettamente modellata ai fianchi,
le gambe superano ogni altra sua bellezza.
Nobile è il suo incedere.
Farà schiavo il mio cuore con un abbraccio.
Ogni sguardo la segue mentre lei si allontana
Tale è questa unica Dea
Felice chi potrà abbracciarla tutta.

( di anonimo – risalente alla XVIII Dinastia dei Faraoni)

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(seguito)

- Huthsepsuth

Huthsepsut – Regina-Faraone.
Le gesta di questa regina egizia, appartenente alla XVIII Dinastia, sono un capolavoro di astuzia, temperamento e capacità: una donna che oggi nessuno esiterebbe a definire emancipata.
Era figlia di Thutmosis I e della regina Amesh e fu fatta sposare al fratellastro Thutmosis II.
I due non ebbero figli maschi, ma solo due femmine, Thutmosis II, però, il suo erede, Thutmosis III, lo ebbe da una Sposa Secondaria, la regina Ese.
Alla morte di Thutmosis II, avvenute in circostanze non propriamente chiare, la regina Hutsepsut assunse la Reggenza del Paese, essendo Thutmosis III ancora troppo giovane, neppure decenne, per regnare.
Troppo poco, La Reggenza, per una donna come lei.
Huthsepsut era una donna intelligente, di grande carattere e assai ambiziosa. Era anche molto bella e possedeva un fascino irresistibile e grandi doti di diplomazia.
Sapeva leggere, scrivere, danzare e guerreggiare: accompagnava il padre nelle battute di caccia e, si dice, uccise il suo primo leone all’età di dieci anni.
Non si accontentò, dunque, del ruolo di Reggente e mise in scena uno di quegli intrighi di corte che solo una mente potenzialmente astuta ed audace poteva concepire.
Huthsepsut aveva creato intorno a sé una corte di funzionari fedelissimi, primo fra tutti, l’architetto Senmut, suo amante e, forse, padre di una delle sue figlie. Godeva anche del sostegno di buona parte del Collegio Sacerdotale e di quello delle più alte gerarchie dell’esercito: tutti pronti a reggerle il gioco.
Anche il principe erede aveva i suoi sostenitori, soprattutto nel corpo sacerdotale di Karnak, cui il faraone Thutmosis II aveva preferito affidarlo per tenerlo lontano dalle ambizioni della Regina, e che, inspiegabilmente, si astennero da qualunque azione.
La Regina aveva già raggiunto l’apice della sua potenza, ma sentiva il bisogno di legittimarla e di legittimare la decisione di costruire il “Milione dei Milioni di Anni”, il suo Complesso Funerario che tutti, ancora oggi, possiamo ammirare a Deir-el-Bahri.
Quale fu questo colpo di scena? Questo “miracolo”, come fu definito dai suoi seguaci?
Stava, un mattino, officiando in vesti di Sacerdote Supremo, nel Tempio di Karnak, quando, tra fulmini e tuoni e saette, il dio Ammon fece sentire la sua voce attraverso il naos (tabernacolo in cui era l’effigie divina) e la proclamò Figlia-Sua e Signora-delle-Due-Terre (Alto e Basso Egitto).
“Kem-hut-Ra (Colei che regna su Kem col favore di Ra) sarà il tuo nome – disse pressappoco la voce del Dio (probabilmente quella di un sacerdote che la sosteneva nel gioco) – Io mi compiacerò in te.”
Kem era un altro nome con cui si designava l’Egitto.
Da quel giorno la Regina, non più Reggente e con il titolo di Regina-Faraone, si mostrò in pubblico in abiti maschili e con la barba posticcia dei Faraoni.
Era già accaduto in passato che Regine avessero usurpato il trono, ma l’avevano fatto conservando sempre atteggiamenti femminili. Era la prima volta che una Regina nelle iscrizioni si faceva nominare al maschile.
Le statue la rappresentavano quasi sempre con shendit (gonnellino plissettato) e copricapo da Re: la nemesh (copricapo triangolare a righe) e il pshent (casco blu da combattimento).
I testi che fece incidere sulle pareti e i pilastri del Tempio Funerario raccontano tutta la storia.
Parlano della sua nascita divina, mettendo in bocca alla regina Amesh, sua madre, il racconto del suo concepimento ad opera del dio Ammon:
“… quando nella tua grazia ti sei unito alla mia maestà
e la tua rugiada è penetrata in tutto il mio essere…”
c’è scritto.
E parla lo stesso Ammon:
“Colei che Ammon abbraccia è il suo nome
Sua la mia anima. Suo il mio Scettro
Suo il mio prestigio. Sua la mia corona
Affinché regni sui Due Paesi
E regni su tutti i viventi”
E ancora, per donarle prerogative maschili, ad Ammon fa dire ancora:
“Salute a te, Figlia mia, nata dalla mia carne
Immagine brillante uscita da Me
Tu sei un Re che reggi i Due Paesi
Sul trono di Horo, come Re.”
Il suo regno durò per quasi venti anni e fu, sicuramente, uno dei momenti più pacifici e felici di tutta la storia del popolo egizio.
Durante il suo regno, infatti, quella Regina fece erigere Templi ed Obelischi, organizzò spedizioni, istituì leggi in favore di donne, bambini e gente umile e fece molte altre cose ancora che, noi gente moderna diremmo, degne di un Sovrano Illuminato.
(

LA DONNA nella STORIA: Vizi e Virtù L’Astuzia (prima parte)

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Che cos’è l’astuzia?
Non potrebbe essere la virtù di chi non ha il potere, ma le qualità per procurarselo?
Si dice che l’astuzia sia una virtù soprattutto femminile
Ed è proprio delle “astute manovre” di due donne che intendo parlare: la biblica Abigail e l’egiziana Hutsep

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Non esiste termine (né si potrebbe inventarlo) capace di esprimere la grandiosità e l’unicità del legame madre-figlio. Per questo citerò due soli nomi: la più amata e la più esecrata delle madri.

- Cornelia: madre esemplare

Figlia minore di Scipione l’Africano, Cornelia andò sposa, intorno al 175 a.C. a Sempronio Gracco; questa donna, ancora oggi, è assunta a simbolo dell’orgoglio materno.
Donna colta e di forte carattere, scrisse Lettere e Consigli rivolti ai numerosi figli; dodici, per la precisione, di cui, però, sopravvissero solo tre: Sempronia e i due famosi Gracchi, Tiberio e Caio.
Dopo la morte del marito, la matrona si dedicò completamente alla cura dei figli, rifiutando perfino di sposare il faraone Tolomeo VIII e la possibilità di diventare Regina d’Egitto.
Si racconta che ad un’amica che mostrava con orgoglio i propri gioielli, Cornelia abbia risposto:
“Haec urnamenta mea!”, indicando i figli, Caio e Tiberio, che stavano giocando in un angolo del giardino.
Da sempre Cornelia è considerata la madre ideale non solo per le sue virtù, ma anche per il carattere sobrio ed austero che la contraddistingueva.

- Procne: madre snaturata

Procne era figlia di Pandione, re di Atene, e moglie di Tereo, re di Tracia. Sventura volle che Tereo si innamorasse di Filamela, sorella di Procne, lasciandosi ammaliare dal suo canto.
Per averla, Tereo ricorse all’inganno: segregò la moglie, facendola credere morta, e chiese in moglie la di lei sorella, Filamela.
Saputa la notizia, Procne minacciò di avvertire il padre e la sorella; Tereo, per impedirglielo, le fece mozzare la lingua e la nascose nel quartiere degli schiavi.
Procne, però, riuscì lo stesso ad avvertire la sorella, nascondendo un messaggio nel manto nuziale ricamato dalle schiave per la sposa.
Le due sorelle, finalmente ricongiunte, si vendicarono del fedifrago marito nel modo più atroce: uccisero Iti, il figlioletto che Procne aveva avuto da Tereo e ne fecero mangiare le carni al padre.
Quando Tereo si rese conto dell’orrido pasto consumato, le uccise entrambe.
Gli Dei, dice la leggenda, trasformarono i tre in altrettanti uccelli: Filamela fu un unignolo, Prone una rondine e Tereo un corvo.
Naturalmente si tratta di allegorie, ma in qualche modo, gli Antichi sentivano la necessità di farsi una ragione dell’esistenza del male!

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Il male più oscuro che la filosofia religiosa si trscina con sé è sicuramente la Superstizione la quale in alcuni momenti della storia dell’uomo si trasformò in una piaga non meno purulenta del vaiolo, della peste o della lebbra.
Innumerevoli le gìvittime della Superstizione, in ogni sua sfaccettatura, qui, però voglio citarne un solo nome:

- Caterina Medici

Il numero più elevato di donne immolate sull’altare della Persecuzione è, infatti, da attribuire prprio alla superstizione e la piaga più purulenta della superstizione fu la “caccia alle streghe”.
Furono tante le donne, accusate di stregoneria, che finirono sul rogo. Qui voglio ricordarne una soltanto: Caterina Medici, vissuta nel 1600.
Caterina era una ragazza molto bella, cresciuta in un borgo in provincia di Pavia e trasferitasi a Milano come domestica.
Furono la sua bellezza, la gelosia e la superstizione, a spingerla verso una morte orribile.
Giunta a Milano, lavorò nella casa di un ufficiale dell’esercito che, per sua sfortuna, si innamorò perdutamente di lei, tanto da indurre la gelosissima moglie ad accusarla d’aver usato pratiche magiche per sedurre il marito.
In seguito Caterina servì nella casa di un nobile, un certo Melzi, che, subito dopo il suo arrivo, cominciò ad accusare forti dolori di stomaco.
Tanto bastò a Martino Delrio, autore di un insulso quanto pericoloso ed apprezzato (all’epoca) Trattato di Stregoneria, per accusare di stregoneria la povera Caterina.
Ad avvalorare la sua accusa ci pensò un altro fanatico personaggio: Ludovico Settale, medico, che riscontrò strane macchie sul corpo della ragazza.
“… opera del demonio.” sentenziò.
Sottoposta ad indicibili tormenti, la ragazza “confessò” tutto quanto le fu ordinato di confessare. Qualche giorno dopo salì sul rogo per essere bruciata viva.