Category: IL FASCINO DEL MISTERO


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Letteralmente il termine Centauro significa: “colui che trafigge il toro”, dall’etimo classico Kentauroi; un altro etimo suggerisce, invece: “gruppo armato di cento uomini”.
Qualunque sia il significato del termine, il mito li vuole d’aspetto davvero singolare: uomini fino all’ombelico e cavalli per il resto del corpo. Il mito li vuole anche rissosi, lussuriosi e sempre pronti a saltare addosso alla prima donna che capitava loro davanti.
Omero li chiama: “villose bestie selvagge”, per il loro aspetto e le attività orgiastiche ed erotiche.
La leggenda sulla loro origine farebbe arrossire gli autori di erotismo più audace. Vediamo perché.
Il capostipite fu un certo Issione, re dei Lapiti, tipo poco raccomandabile, per giunta assassino.
Giove, re degli Dei, pur contro il parere degli altri Immortali, non solo non lo punì per il suo reato, ma lo invitò alla sua tavola.
A Issione piacevano molto le donne, proprio come a Giove; per questo, forse, non mancò di fare certe proposte addirittura a Giunone, sposa del suo divino ospite.
Giove scoprì presto le intenzioni del suo ingrato ospite e per metterlo alla prova dette ad una nuvola le sembianze di Giunone.
Annebbiato dal vino e dalla lussuria, Issione sfogò le sue brame sul simulacro di nuvola; dall’inconsueto rapporto nacque Centauro che, diventato adulto, dette sfogo alle sue insane tendenze sessuali e si accoppiò con le cavalle del Monte Pelio, che gli generarono i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli.
Questo il mito. La realtà, naturalmente, era un’altra.
I Centauri erano uomini barbuti e selvaggi, appartenenti a tribù delle montagne della Grecia orientale, i quali vivevano in tale simbiosi con i loro cavalli, da sembrare una sola cosa con il proprio animale.
Nacque così la leggenda degli Uomini-cavallo.

IL FASCINO DEL MISTERO: Alla fine del Viaggio

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ALLA FINE DEL VIAGGIO

Erano partiti da Bir Fadhit cinque settimane prima. A Bir erano giunti dopo un volo di sette ore messo a disposizione dall’agenzia di viaggio. Ormai erano prossimi alla meta.
Il cammello su cui Piera e la sua giovane compagna di viaggio, Jasmine, ciondolavano, stanche della fatica, affondava i garretti nella sabbia della Haramam, il territorio sacro della Mecca.
Piera aveva simpatizzato con Jasmine fin dal momento in cui erano state presentate, nell’ufficio dell’agenzia di viaggio araba che, insieme a quella torinese, aveva organizzato quel viaggio e il relativo soggiorno in Arabia.
Le due ragazze si somigliava perfino un po’ e svolgevano un lavoro molto simile: Piera per una agenzia di assicurazione e Jasmine, per un’agenzia turistica.
Quel viaggio, Piera l’aveva sempre desiderato. Nutriva una grande passione per tutto ciò che aveva sapore arabo e conosceva piuttosto bene gli usi, i costumi e le tradizioni di quel popolo. Sapeva, ad esempio, che ai non musulmani era vietato l’accesso alla Kahab, il Sacro Cubo della Mecca e che senza quella opportunità, non avrebbe potuto mai farlo. Per questo a Bir Fadhit l’avevano affidata ad una hostess: Jasmine, per l’appunto.

Il viaggio era stato lungo e sfibrante, ma infine era giunto al termine.
La pista che Abud, il capo-carovana, un giovane arabo appartenente ad una tribù dell’interno, aveva scelto per i suoi ospiti, era tra le più battute del Paese e il percorso era confortato dalla presenza di numerosi pozzi che un tempo neanche esistevano.
In quelle settimane la carovana aveva macinato chilometri su chilometri. Là dove era stato possibile, l’uso della jeep aveva accorciato il percorso, ma alcuni tratti era stato possibile percorrerli solo a dorso di cammello.
Sotto gli occhi della ragazza il panorama era in continua trasformazione: case bianche unite da perimetri di mura ininterrotte, case fortificate come piccole fortezze, costruzioni rupestri e tante tende: bianche, grigie, a righe.
Avevano attraversato vasti deserti percorsi da oleodotti e disseminati di impianti di trivellazione e raffinazione del petrolio. Avevano sostato in oasi lussureggianti e superato brevi monti.
Piera, una vacanza così, non l’avrebbe mai dimenticata.

La cosa più considerevole, però, era stata la vista del Rub-al- Khaly, il deserto più deserto del mondo.
I nomadi, che in quel mondo terribile ed affascinante insieme, riescono a vivere, lo chiamano anche Ar-Rimal: Le Sabbie, poiché non esiste null’altro che sabbia, sabbia ed ancora sabbia.
No… in realtà non è proprio esatto: in tanta desolazione si possono incontrare creature sorprendentemente vive, come rettili, insetti, lucertole, a testimonianza della lotta per la vita e della sua vittoria sulla morte.
L’occhio vigile di Abud, il capo-carovana, aveva scorto anche tracce degli ultimi predoni del deserto: ultimo palpito di un antico sistema di vita, cosicché, macchine fotografiche, registratori, computer e provviste alimentari, furono immediatamente messi sotto stretta sorveglianza.

Nonostante il flagello della febbre delle sabbie che l’aveva colpita per due giorni o tre, l’entusiasmo della ragazza era altissimo.
Le notti, trascorse a ridosso di qualche duna a semicerchio, erano meravigliose e terse e tingevano il cielo di un azzurro intenso, sconosciuto sotto altre latitudini.
Le albe erano stupende; si avvicinavano prima ancora che la luna fosse scomparsa ed abbracciavano le tende ancora sommerse dal blu notturno. Mandavano giù dal cielo un chiarore di una brillantezza accecante, in un’opalescenza sfumata di mille colori, prima di sollevare la linea che separa il cielo dalla sabbia.
“Guarda. – le diceva tutte le mattine Jasmine – Ibrahim è già sveglio.”
Ibrahim era il secondo di Abud.

Si erano lasciati alle spalle Ar-Rimal, un angolo del nostro mondo che pare appartenere ad un altro pianeta, ed erano arrivati alla Città Santa della Mecca.
La vista delle prime case accese nella ragazza una strana, incontenibile inquietudine.

Era con Jasmine ed Ibrahin, poiché alla Città Santa una donna dev’essere sempre accompagnata da un uomo e stavano attraversando a piedi scalzi il sentiero di marmo che conduce alla Kaaba,.
Piera si guardò intorno; guardò Jasmine: superbia, vanità, orgoglio, parevano cancellati sull’immensa marea di visi che la circondava. Anche il volto dell’amica appariva sereno e in pace.
“Vorrei tanto un po’ di pace anche per me…” pensò con un filo di voce
Guardò il drappo di seta nera che ricopriva il cubo di pietra, lesse le parole ricamate in oro:
“La itaha illa Allah wa Muhammad rasul Allah.”
(Non vi è altro Dio se non Allah e Maometto è il suo Inviato)
Guardò ancora Jasmine.
Avevano osservato tutti i doveri del pellegrino.
Infagottate nell’ ihram, il sudario bianco, avevano girato intorno al massiccio Cubo Sacro per sette volte ed in senso contrario; Piera era riuscita perfino a toccare la pietra appar