Category: ANTICHE CULTURE


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Lo stupro che contribuì alla caduta della Monarchia di Roma

Naturalmente, quell’atto di violenza su una donna fu solo la scintilla scatenante di un fuoco che bruciava sotto la cenere.
Come andarono i fatti e chi furono i protagonisti di quella tragedia?
Regnava Tarquinio il Superbo, uomo assai superstizioso, oltre che assai superbo. Un inquietante prodigio aveva sconvolto la superstiziosa corte etrusca: un enorme serpente era comparso nella Reggia, provocando scompiglio e terrore.
Il Re consultò maghi ed indovini, ma, alla fine, decise di inviare a Delfi, (dove sorgeva il Santuario di Apollo) per un responso, due dei suoi figli: Tito e Arrunte, accompagnati dal nobile romano Lucio Giunio, figlio drlla sorella, detto Bruto, cioè: “stolto”.
Questi, che stolto non era, ma solo assetato di rancore verso la famiglia reale, responsabile della morte del padre e del fratello, li accompagnò di buon grado, ma dimostrò, sulla via del ritorno, di quale pasta era fatto.
L’oracolo, infatti, s’era espresso così:
“… il potere su Roma, spetterà a colui che per primo bacerà la Madre.”
Fu così che, giunti in patria, mentre i due fratelli discutevano su chi di loro avesse più diritto a quel privilegio, finendo col decidere che l’avrebbero fatto insieme, Giunio il “Bruto” finse d’inciampare e cadendo baciò il suolo, cioè la Madre-Terra, facendo fede alle parole dell’oracolo. Giunio non diventò Re, come si sa, ma contribuì decisivamente al crollo dellla Monarchia ed alla cacciata dei Tarquinii.

Che la Monarchia si trovasse in difficoltà, re Tarquinio il Superbo lo sapeva perfettamente: il cattivo andamento della guerra di Aricia, l’ostilità del popolo nei suoi confronti e non ultimi, i continui presagi negativi che avevano finito per convincerlo ad inviare messaggeri a consultare l’oracolo di Delfi; al precipitare degli eventi, però, contribuì anche la riprovevole condotta di Sesto, il maggiore dei suoi figli.

Le cronache raccontano che un giorno mentre si trovava sotto le mura di Ardea, cinta d’assedio, in compagnia del figlio Sesto e di Giunio Tarquinio Collatino, cugino e Legato della città di Collatia, la conversazione, come spesso accade in tali frangenti, si concentrò sulle spose lontane, finendo con lo scommettere sulla loro virtù.

“La mia Lucrezia é donna bella ed onesta.” deve essersi vantato il Collatino.

Lucrezia era davvero una donna bellissima e Sesto era un giovane prepotente ed alquanto libertino e accettò immediatamente la proposta di correre a casa a soprendere le proprie donne. Inforcati i cavalli, i due giovani raggiunsero la casa di Sesto e vi sorpresero la moglie che si lasciava consolare da un gruppo di giovani spasimanti; la bellissima Lucrezia, invece, trascorreva il suo tempo al telaio con le ancelle.

Scornato e perdente, Sesto pensò subito alla maniera di vendicarsi. Si presentò qualche giorno dopo nella casa di Collatino con il pretesto di fare visita di cortesia alla bella Lucrezia, in assenza del marito.

Ignara delle sue vere intenzioni, la donna lo accolse con tutti gli onori,ma durante la notte, mentre i servi erano addormentati, penetrò nella canera della donna, in compagnia di uno schiavo negro, insidiando la sua virtù.

Lucrezia lo respinse sdegnosamente, ma Sesto aggiunse intimidazioni all’oltraggio: prima le dichiarò la sua passiome e le offrì il trono di Roma, poi passò alle minacce. Le disse che se non avesse accettato le sue profferte amorose, egli non si sarebbe limitato ad ucciderla, ma l’avrebbe ricoperta di vergogna. Avrebbe- le disse – ucciso prima lei e poi lo schiavo negro che era con lui; l’avrebbe denutato e lasciato disteso accanto al cadavere di lei per far credere ad una turpe adulterio ed aggiunse che avrebbe giustificato l’uccisioone di entrambi come un atto di giustizia per la loro colpa.

Tito Livio e Dionigi, che nelle loro cronache hanno riportato questo episodio, ne parlano, in verità, con un po’ di ambigua superficialità, lasciando intendere che la donna, per paura e della morte e del disonore, sia stata consenziente alla violenza, mentre invece, Lucrezia intendeva salvare la propria memoria dalla vergogna e dal disonore. Il giorno dopo, infatti, come scrive Tito Livio:

“Io assolvo me dal peccato, ma non mi sottraggo al castigo.” dirà Lucrezia ai parenti raccolti in riunione per riferire della violenza a cui era stata costretta con la forza, dopo di ché si trafiggerà con il pugnale.

Tra i presenti c’é anche Giunio Bruto, lo “Sciocco” e sarà proprio lui, animato dal suo odio verso i Tarquinii, ad occuparsi di tutta la faccenda ed a rubare a tutti la scena: a Collatino, il marito offeso, a Sesto, lo stupratore e alla stessa vittima. Vittima ideale per il finto sciocco… per l’uomo che aveva nascosto sotto la maschera di una finta stoltezza l’odio bruciante contro la famiglia Tarquinia e che poteva finalmente smettere i panni del finto stolto ed indossare quelli del vendicatore.

Egli estrasse il pugnale dal petto della povera Lucrezia e giurò vendetta contro i suoi uccisori. Poi, mostrando quanta determinazione ci fosse in lui, sollevò il corpo esanime della donna ed a braccia lo portò fino al Foro e sull’onda di una grande emozione, spinse la popolazione alla rivolta. Al cospetto delle spoglie della virtuosa patrizia, infatti, tenne un discorso funebre dagli accenti tanto vibranti da infiammare i presenti: elogiò la virtù di Lucrezia e denunciò i delitti della famiglia Tarquinia.
Fu la fine della Monarchia: Tarquinio il Superbo e la sua famiglia furono cacciati via a furor di popolo e in sua vece fu invocata la Repubblica e proprio Giunio e Collatino, furono i primi due Consoli eletti.

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ANTICHI BABILONESI… l’Amore Libero
Gli antichi babilonesi e l’Amore libero
L’istituzione della famiglia e del matrimonio, con la sua stabilità e continuità, era rionosciuta in Babilonia come in ogni altro Paese dell’antichità, soprattutto per assicurarsi la procreazione: un contratto studiato e firmato quasi sempre dai genitori degli interessati.
Essendo una società fortemente patriarcale, all’interno di questa famiglia la donna era completamente sottomessa all’uomo che, in caso di sterilità femminile (quella maschile non era neppure contemplata) poteva tranquillamente ricorrere al ripudio. Salvo scappatoie quali l’utilizzo di una “sostituta”, una donna, cioè, che mettesse al mondo figli al posto della moglie. (solitamente una schiava)
Si capisce, dunque, che il matrimonio non fosse monogamo e che la poligamia fosse, invece, riconosciuta e praticata.
L’uomo poteva avere più mogli e concubine; tutte, però, subordinate alla prima moglie.
Il fatto che il matrimonio fosse un contratto non escludeva, naturalmente, coinvolgimento erotico, emotivo o di innamoramento.
In mancanza, però, questo lo si poteva trovare tranquillamente al di fuori del matrimonio e senza problemi. Non c’erano freni morali o religiosi e non esisteva il concetto di peccato.
Esisteva, naturalmente, un Diritto che tutelava le norme all’interno dell’istituzione matrimoniale, ma bisogna riconoscere che era alquanto discriminatorio: tutto quello che si accordava all’uomo, si vietava alla donna, la quale, però, riusciva sempre a trovar qualche scappatoia.
L’esempio, in realtà, veniva già dalla Religione. Dei e Dee erano stati creati ad immagine e somiglianza degli uomini e con gli stessi pregi e gli stessi difetti ed avevano spose, concubine ed amanti. Esisteva, per di più, una Dea, Ishtar, in cui si finì per identificare tutti gli aspetti dell’Amore, facendone una Divinità predominante e dedicandole un culto assai particolare , il cui rituale chiamava sempre in causa Amore e Sesso.
Amore e sesso libero. Non sancito da clausole contrattuali come l’isitituzione del matrimonio e praticato sia da uomini che da donne.
La prostituzione, poiché di prostituzione si tratta, aveva, però, caratteri molteplici e differenti e una prima distinzione possiamo farla in: prostituzione sacra e prostituzione profana.
Alla prostituzione religiosa, divisa in gruppi e categorie, appartenevano, fra le altre, le “Qadistu” o Consacrate e le “Ishtaritu” o Votate-a-Ishtar, le quali, con molta probabilità, vivevano nei Santuari della Dea o in congregazioni e centri chiusi.
Si trattava di donne che esercitavano il mestiere dell”Amore-libero per scelta ma anche per consacrazione alla Dea fin dalla tenera età, ma non era raro neppure il caso di donne sposate che abbandonavano il marito per entrare in una di quelle strutture.
Benché la loro prestazione fosse riconosciuta ed apprezzata, a queste donne vennero imposte delle regole per farsi riconoscere. Soprattutto per strada.
L’uso del velo era loro interdetto e dovevano, invece, acconciarsi in maniera vistosa e particolare, sì da farsi riconoscere immediatamente.
Quelle che non vivevano in centri chiusi, avevano obbligo di residenza in periferia ed era in locali come taverne che era facile incontrarle.

Qui si incontravano anche prostituti maschi, che era facile incontrare anche nei Santuari o nelle congregazioni, nonché presso case private.
Sacerdoti della dea Ishtar, li definì abusivamente qualche storico; in realtà si trattava di prostituti o travestiti che concedevano prestazioni sessuali in cambio di denaro.
Costoro venivano anche impiegati in cerimonie sacre e processioni come attori, mimi, cantori, ecc.. senza alcuna implicazione morale o infamante.
Nessuna disapprovazione, dunque, nei confronti dell’Amore libero, ma tolleranza ed aperta approvazione ad una istituzione considerata indice di alto livello di civiltà e cultura: Amore libero, uguale: progresso e benessere psico-fisico.

Questa l’opinione per chi “beneficiava” dell’ amore libero. Ma per chi, invece, “vendeva” l’amore libero? Soprattutto quello praticato non nel santuario, ma nella taverna?
Ecco quale giudizio ci tramanda in proposito l’antico babilonese.
“Vieni, cortigiana, ché ti dica il tuo destino.
Mai ti formerai un focolare felice.
Mai ti introdurrai in un Harem.
Vivrai nella solitudine.
Risiederai accanto alle mura della città.
Ubriachi e ubriaconi potranno oltraggiarti.”
I professionisti dell’amore libero, donne e maschi, le cui prestazioni erano cercate e apprezzate quale testimonianza di un alto livello culturale, erano in realtà disprezzati ed emarginati.
Sarebbe sbagliato, però, pensare che lo fossero per motivi di moralità. La morale era un concetto totalmente assente. Erano, piuttosto, l’opportunità e la convenienza: una prostituta non sarebbe mai stata una buona madre e una buona madre non sarebbe diventata mai una prostituta.
Era soprattutto il Destino, che assegnava ad ogni creatura un ruolo fin dalla nascita e il ruolo della donna era quello di fare la moglie e la madre. Erano gli Dei, che programmavano la vita e il suo funzionamento.
La creatura che si sottraeva al proprio destino o al programma divino, sminuiva se stessa e destinava se stessa ad una esistenza inferiore e disprezzata: la donna libera che rifiutava il ruolo a lei assegnato, che era soltanto quello di sposa e madre, era detinata a diventare un essere inferiore.
Tutto logico, per gli antichi babilonesi, artefici di una società profondamente maschilista, sotto l’influenza del “Destino”.

Perché gli Antichi Egizi si facevano ritrarre di lato?

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Le teorie più strampalate sono state formulate al riguardo: tecniche di pittura, stile… perfino una forma di danza.
Molti cineasti, infatti, si sono sbizzarriti a mettere una a fianco dell’altra, ballerine con braccia per aria, una tesa in avanti e l’altra all’indietro.
In realtà, la spiegazione è assai più profonda.
Intanto, si fa notare che, a ben osservare, le pitture ritraggono le persone in ogni angolazio

ANTICO EGITTO – C’era una volta …. 3500 anni fa

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Nei tempi dei tempi che furono… iniziavano così le favole, un tempo… regnava in Egitto un Sovrano triste e sconsolato poiché non aveva figli. Tutti i giorni egli si recava al Tempio di Ammon a pregare affinché gliene mandasse uno.
Finalmente il dio di Tebe si mosse a compassione e cedette alle preghiere. Ad una condizione:
“Ti manderò un figlio. – disse – A patto che tu me lo restituisca all’età di diciotto anni.”
Voleva dire che a 18 anni il principe sarebbe morto.
“A prenderlo, – aggiunse – manderò un cane, un serpente o forse un coccodrillo.”
Voleva dire che il ragazzo sarebbe morto per il morso di uno di questi tre animali.
Il Re accettò.
Nato il bambino, però, l’idea di vederlo morire così giovane divenne per lui inaccettabile.
Che cosa fece, allora?
Fece costruire una torre in mezzo al deserto, con una sola piccola porta d’entrata e una stanza con finestrella e lì fece crescere il piccolo, separato dal resto del mondo e sorvegliato dal più fedele dei servitori.
Passarono dieci anni circa; il piccolo principe ignorava completamente le cose del mondo.
Un mattino fu svegliato da un suono sconosciuto che l’attirò verso la finestra; vide una strana creatura che correva su e giù, sotto le mura.
“Chi è quella creatura?” chiese al servitore.
“E’ un puledro. – spiegò quegli – Fischia.”
Il ragazzo fischiò, il puledro nitrì; da quel giorno, il puledro venne ogni giorno a galoppare sotto la finestra e i due divennero grandi amici.
Passarono gli anni; arrivò il diciassettesimo.
Un mattino, a svegliare il principe non fu solo il nitrito del suo amico cavallo, ma i nitriti di molti cavalli al galoppo e le voci di cavalieri in corsa.
“Chi sono quelle persone? – domandò il ragazzo al servo – E quello splendido animale che corre davanti ai cavalli, chi è? Come si chiama?”
“Sono cacciatori e quell’animale è un cane.”
“Ne voglio uno.” ordinò il principe.
Il servo, però, non poteva accontentarlo e si consigliò con il Re sul da farsi; alla fine, si decise di donargli un cucciolo, facendo attenzione che non lo mordesse e pensando di sostituirlo con un altro, appena fosse cresciuto.
La vicinanza, però, e il reciproco rispetto, fecero nascere una profonda amicizia fra il cucciolo e il piccolo principe, tanto da vanificare il pericolo della profezia.
Era così, che gli Antichi Egizi si spiegavano l’amicizia tra cane e uomo: l’incontro tra un cucciolo d’uomo e un cucciolo di cane!
A questo punto, però, il ragazzo era cresciuto abbastanza da porsi delle domande sulla propria posizione. Mandò un messaggero dal Re.
“Padre, – fece chiedere – perché mi tieni qui, prigioniero?”
Il Re dovette metterlo a corrente del pericolo che incombeva su di lui, se avesse lasciato quel rifugio sicuro.
Il principe rimandò indietro il messaggero:
“Padre. – fece dire – Tu sei il Faraone e anche il Sovrano più potente del mondo, ma se Ammon, che è la Divinità più potente fra gli Dei, ha deciso che io debba morire, nulla potr

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(seguito)
Dove poteva andare nei pochi mesi di vita che gli restavano? Scelse di conoscere Babilonia, prima di andare a Tebe, dove viveva suo padre.
Babilonia la Grande, la Bella, l’Opulenta! Ne aveva sentito sempre parlare.
La strada per Babilonia, però, si rivelò una vera delusione: era cosparsa di rovine, campi incolti, gente affamata e bande di malintenzionati.
Fermarono un mendicante e chiesero:
“E’ questa la via per Babilonia? Abbiamo, forse, sbagliato strada? Qui c’è solo miseria.”
“Ahinoi! – esclamò quello – La nostra principessa è bella e virtuosa, ma è anche la nostra rovina.”
“Com’è possibile? – stupì il principe – Una principessa bella e virtuosa non può essere la rovina del suo popolo.”
“Oh, sì! E’ così bella, che da ogni parte del mondo arrivano principi per chiedere la sua mano. Si fanno guerra fra loro e quel che vedi, straniero, ne è il risultato.”
(la morale è che gli A. Egizi non amavano la guerra e che i Faraoni Guerrieri non furono così numerosi)
“Il vostro Sovrano non fa nulla per evitarlo?”
“Certamente sì! Ha consultato il nostro Dio, Marduk, e il consiglio è stato di erigere una
Torre e di rinchiudervi la principessa per darla in sposa a colui, fra i pretendenti, capace di scalare le mura.”
“Non mi pare un’impresa difficile.” replicò il principe.
“Quelle mura sono ricoperte di specchi e chiunque tenti di farlo, scivola giù ai primi tentativi e deve rinunciare all’impresa e andar via.”
(arrampicarsi sugli specchi: è facile capire la morale di questo tratto della favola)
Il principe volle tentare l’impresa.
Sarà perché desideroso di compiere una grande impresa prima di morire, sarà perché qualche volta anche le imprese impossibili si realizzano… sarà perché siamo all’interno di una favola, ma il principe riuscì nell’impresa.
Alla principessa, però, dovette confessare che aveva solo pochi giorni di vita e non poteva sposarla, ma che era felice di aver salvato il suo Paese dall’invasione straniera.
La principessa, però, volle diventare ugualmente la sua sposa e così, dopo la cerimonia nuziale, il principe si apprestò, in tutta fretta, a tornare a Tebe per presentare la sposa al padre.
Durante il viaggio, la piccola carovana alzò le tende lungo le rive di un fiume. Guardie armate sorvegliavano affinché nessun coccodrillo o serpente si avvicinasse alla tenda del principe. Per di più, la principessa vegliava, mentre il principe dormiva.
Verso l’alba, il cane cominciò ad agitarsi e la principessa vide un’orrida testa di serpente sbucare da sotto la tenda. Chiamò i servi, che uccisero il grosso rettile a bastonate.
Il principe, intanto, continuava a dormire.
“E’ quasi giorno. – si disse la principessa – I servi sono all’erta… nessun coccodrillo, ormai, potrebbe entrare qui dentro.”
E così, stanca e assonnata, si addormentò. Proprio nel momento in cui stava svegliandosi il principe che, la guardò con tenerezza e pensò:
“Ha vegliato per tutta la notte… lasciamola riposare.”
Si alzò e lasciò la tenda, poi si portò in direzione del greto del fiume per bagnarsi il volto e gli occhi.
Fu allora che la vide. Vide una creatura orrida e affascinante insieme, che esercitò su di lui, in egual misura, attrazione e repulsione.
“Chi sei? – domandò – Come ti chiami? Che cosa fai qui?”
La creatura rispose:
“Sono il tuo Destino. Il mio nome è Coccodrillo e ti aspetto da diciotto anni.”
Quel giorno il principe compiva diciotto anni, ma… la sorpresa sta proprio qui: non conosceremo mai il destino del principe poiché il papiro su cui è scritta questa favola è rotto e il pezzo mancante, con il finale, è ancora sepolto da qualche parte nella sabbia della necropoli di Deir-el-Medina, in Egitto, dove è stato rinvenuto, nella tomba di un ragazzo.

E adesso, dite… non sembra una favola scritta oggi? Se non ci credete, andate al Museo de Il Cairo e troverete il papiro custodito in una bacheca.

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Qualunque fossero, non avremo mai modo di conoscerli veramente, poiché qualunque azione veniva sbrigata nel più stretto segreto e quasi mai in forma scritta.
La regola scritta era riservata solo ai vertici dell’Ordine; tutti gli altri ne erano completamente all’oscuro.
Accanto alla Regola ufficiale, è ormai certo, ne esisteva una seconda, segreta e non ufficiale, consistente in
“3 articoli – come ebbe a dire il templare De Montpezat- che nessuno conosce e conoscerà mai. All’infuori di Dio, il diavolo e i Maestri.”
Intorno a questa Regola segreta si è molto favoleggiato.
Tracce di essa comparvero per la prima volta alla fine del ‘700, per scomparire e ricomparire circa un secolo dopo in una Loggia Massonica e scomparire poi definitivamente.
In essa vi era contenuta forse, la prova di una delle accuse principali rivolte ai Templari: quella di eresia?
Molto studiosi si chiedono ancora oggi se i “Cavalieri di Cristo” fossero davvero eretici oppure no.
Domanda che resterà sempre senza una risposta certa, soprattutto se si tiene conto che molti nobili, appartenenti all’eresia degli Albigesi si convertirono, entrando a far parte dell’Ordine. E’ presumibole pensare che qualcuno di loro abbia portato con sé anche il seme di quella eresia.

In realtà, in seno alla Chiesa erano sorti sospetti già da un secolo, quando l’Ordine era all’apice della propria potenza: Papa Innocenzo III, prima, e Clemente IV dopo, ammonirono più volte l’Ordine, minacciando un più severo controllo.
Poiché l’Ordine era costituito da monaci-guerrieri rudi, supinamente fedeli al voto d’obbedienza e nella maggior parte piuttosto ignoranti, è difficile ipotizzare, in siffatte persone, quella sottigliezza mentale capace di elaborare idee di eresia e disubbidienza religiosa.
Quanti Templari, dunque, erano (se lo erano) davvero eretici?
L’ipotesi potrebbe condurre all’esistenza di una seconda gerarchia al suo interno, indipendente da quella ufficiale: una società segreta, in seno all’Ordine, dedita a pratiche particolari come l’alchimia e l’esoterismo.
Non solo. E’ nota la passione dei Maestri Templari per l’arte della crittografia, come è noto che utilizzassero scritture segrete arricchite da simboli esoterici.
Numerosi messaggi criptati, infatti, sono stati trovati in molte delle strutture architettoniche dell’Ordine e nelle celle dove i Templari furono ospitai durante il Processo.

Il mistero più inquietante resta, però, quello legato agli atti blasfemi durante i riti di Iniziazione, come quello di sputare sulla Croce.
Si trattava di un atto di negazione del Cristo?
Assai improbabile per dei “Cavalieri di Cristo”.
E se fosse stato, invece, la negazione della Croce, essendo stata, la Croce, lo strumento di morte del Cristo?
Un’ipotesi, certo, ma non del tutto peregrina: questo tipo di eresia, che considerava il culto della Croce una forma di superstizione, era assai diffusa, all’epoca, e punita con il rogo.

Un’altra domanda: sciolto l’Ordine, che cosa ne fu dei Templari che sopravvissero ai roghi ed ai tribunali dell’Inquisizione?
Tornati alla vita civile, si presume che molti di loro abbiano ingrossato le file di mendicanti ed erranti. Molti altri, però, sia pure una minoranza, sono sicuramente riusciti a “consegnare” la Regola del Tempio a nuove generazioni. E sicuramente sotto altre forme: società segrete, associazioni e confraternite. In clandestinità e nell’anonimato.
Hanno attraversato i secoli, fino ad oggi, e rivendicato le proprie radici, affondandole nella “Regola morale dell’Ordine dei Templari.

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Era convinzione di questo straordinario popolo, che l’esistenza umana attraversasse tre momenti, tutti e tre fondamentali, misteriosi e complessi:
- la vita terrena
- la morte
- la vita ultraterrena
Già cinque secoli prima di Cristo, lo storico Erodoto scriveva:
“Gli Antichi Egizi erano un popolo che praticava il Culto dei Morti, ma amava intensamente la vita.”
Sembra una contraddizione, ma non lo è!

- La Vita terrena, dicevano gli Antichi Egizi, era un dono che gli Dei facevano alla creatura umana per consentirle di prepararsi alla vita ultraterrena: l’Eternità e l’Immortalità.
Questo popolo fu ossessionato dall’idea di Immortalità: per essa, eresse opere colossali come La Sfinge e le Piramidi, innalzò Templi e Santuari che sfidano ancora oggi il Tempo.

- La Morte, per il popolo nilotico, costituiva un passaggio tra la prima fase e la seconda e non era vissuta con l’ossessione dei giorni nostri. Poteva essere traumatica, certo, e certamente era rifuggita, ma, al contempo, accettata con fatalità e pragmatismo.

- La vita ultraterrena, ossia la Vita Eterna, desiderata ed agognata da tutti, non era, però, appannaggio dell’intera umanità, poiché bisognava meritarsela. Per comprendere appieno la profondità di questo pensiero filosofico, basta leggere qualcuna di quelle Massime Sapienziali che invitavano a vivere una vita terrena onesta e operosa e generosa:
“L’uomo litigioso causa disordini.”
“Non essere malvagio: la bontà genera simpatia.” oppure:
“Onora una vita di lavoro: l’uomo che non ha nulla diviene desideroso dell’altrui proprietà.”
“Agisci rettamente durante il tuo soggiorno terreno.”
E ancora:
“Aiuta le vedove e coloro che sono in lacrime.”

Per consentire tutto questo, dicevano gli Antichi Egizi, Dio aveva dotato la creatura umana di una complessa natura e di un certo numero di… per comodità le chiameremo entità, termine da cui esoterici e pseudo-studiosi, hanno sempre attinto a piene mani per le loro bizzarre dottrine, teorie e affermazioni.
Sette. Erano sette, queste entità, ognuna con un compito ben specifico.
- Djet: il corpo, deputato ad operare durante la vita terrena. Viveva fisicamente le esperienze di vita, come amare, lavorare, essere la salute o sopportare la malattia, ecc.
- Ka: chiamato anche “Doppio”. Copia esatta del djet, era fisicamente inconsistente, trasparente ed evanescente; corrispondeva a quello che noi, gente moderna, chiamiamo Spirito o Fantasma.
Era raffigurato con due braccia sollevate verso l’alto ed era quella, fra tutte le entità del defunto, che aveva il compito di intraprendere il viaggio nell’Oltretomba per sottoporsi al Giudizio di Osiride.

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Eventi catastrofici sono sempre stati associati alla volontà divina (accade ancora oggi, in certi ambienti e certe culture) soprattutto se inspiegabili (come il fulmine) o devastanti (come terremoti o alluvioni)
Racconti di Diluvi Universali ( come lo scioglimento delle acque dopo una Glaciazione) sono presenti in ogni cultura e ad ogni latitudine del pianeta e nessuno studioso o scienziato li mette più in dubbio.
Anche la Teologia egizia ha il suo Diluvio, ma lo racconta in maniera diversa e particolare.
Il motivo, forse, c’è: lo straripamento di un fiume non poteva essere devastante come l’innalzamento delle acque del mare ed eventuali tzunami!
Cosa raccontano i Testi Sacri egizi?
Ecco qua un bel racconto con finale a piacere:
Per punire il genere umano, reo di colpe molto gravi, si decise di dargli una bella lezione.
A compiere la “missione” fu mandata la ferale Sekhmet, Sposa di Ptha, (Dio Creatore, corrispondente… un po’… al nostro Padre Eterno) nelle sembianze di Leonessa Sacra.
Cosa fu, cosa non fu, ma… la Dea si lasciò trasportare dalla propria natura ferina e compì una vera strage, tanto da minacciare di estinzione il genere umano.
Preoccupato, Ptha (o Ra, secondo altre versioni) pensò bene di inondare tutto il territorio di birra rossa.( gli antichi egizi ne facevano largo uso!)
La Dea, scambiandola per sangue, si prese una bella sbronza e… si dimenticò di portare a termine la “missione”.
Altra versione:
La Dea, che doveva risparmiare gli uomini giusti, se la prese anche con Adapa (il Noè della situazione) e lo ferì mortalmente. Resasi conto della gravità del fatto, si fermò e cominciò a versare un bel po’ di lacrime di pentimento. Furono proprio quelle lacrime a sanare le ferite di Adapa e restituirgli la vita.
Da allora Sekhmet divenne la Dea della Distruzione e della Rinascita, della Malattia e della Medicina… ambivalenza, come in quasi tutti gli aspetti della filosofia egizia.

FIOR di LOTO

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Proprio all’ingresso della prima delle grandi Sale della Statuaria, al Museo Egizio di Torino, c’è una splendida colonna papiriforme ornata alla base da un fior di loto chiuso e in alto da un fior di loto aperto.
Osservandola, ogni volta mi viene in mente un episodio riportato da: “Le Istruzioni di Amenemeth”
(Libri della Sapienza).

Amenemhet era un Sovrano con qualità di scriba e teneva una lezione a suo figlio sulla misericordia del Nether- Wa, Dio-Unico, verso gli uomini.
Dopo un po’, il ragazzo, piuttosto scettico, gli fece una domanda:
“Signore, – disse – Come può Dio occuparsi di tutti gli uomini che sono tanti, tanti e poi tanti ancora ed ancora di più?”
Dopo un attimo di riflessione, Amenemhet chiese:
“Figlio, hai mai contemplato un fior di loto?”
“L’ho fatto, sì.” rispose l’altro con accento un po’ stupito.
“Lo sai, figlio, che ogni sera il LunareThot provvede a chiudere ognuno dei petali del calice del fior di loto, affinché né insetti, né animali, né vento o acqua lo danneggi? E lo sai che ogni mattino il Solare Horo provvede a riaprire quei petali per ridare al fiore vita e bellezza?… Se due Divinità importanti come Thot ed Horo si occupano di un umile fiore, come puoi dubitare dell’interessamento di Dio verso l’uomo, la più importante ed amata delle sue creature?”

Cosa dire di insegnamenti come questo!… E’ così attuale, che sembra uscito dalle labbra di un Pontefice.

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Il termine Sostituto indica oggi semplicemente una persona che svolge mansioni al posto di un’altra.
Nelle antiche culture, però, all’epoca del Matriarcato, il Sostituto era una figura assai tragica ed infelice.
Era al centro di una consuetudine davvero cruenta: così in Egitto come in Mesopotamia o Hattusa… Roma si salvò solo perché la sua storia è più recente.

Il Grecia il Sostituto si chiamava Interrex ed era quasi sempre un ragazzo sui dieci anni, perché tanti erano gli anni di regno del Paredro.
Oggi diremmo: Principe Consorte.
Secondo i costumi dell’epoca la Regina si sceglieva, tra i giovani più forti e gagliardi, un Re-Sacro, il Paredro, per l’appunto, per procreare e regnare con lui fino a che questi avesse conservato forze e vigore. Dopo egli veniva ucciso e il suo sangue sparso sui campi per renderli fecondi.

Dieci anni. Tale era il tempo concesso ad un Paredro.
Questo fino a quando non arrivò qualcuno che si rifiutò di sottostare al sacrificio e pretese una vittima in sua “sostituzione”.
Quel qualcuno si chiamava Enapione e pare fosse uno dei nipoti del famoso Minosse.
Egli si rifiutò di morire, nonostante che il nuovo pretendente della Regina avesse, secondo le Leggi, superato le prove a cui era stato sottoposto e lo avesse vinto in regolare combattimento. (lotta libera, presumibilmente).
Enapione si nascose in una cripta facendosi credere morto, ma “resuscitò” opportunamente (con l’aiuto di sostenitori) e in sua vece pretese il sacrificio di un fanciullo: l’ Interrex , ossia il Sostituto.

I Sostituti erano sempre fanciulli sui dieci anni, schiavi, prigionieri o ragazzi dotati e, non raramente, erano addirittura i figli dello stesso Re-Sacro in carica.
Questo potrebbe dar luce a qualche mito o casi di parricidio da parte di principi-eroi, che ci appaiono incomprensibile, ma di cui la storia della Grecia Arcaica e perfino Minoica e Micenea, abbonda.

L’Interrex veniva insediato sul trono con una cerimonia assai festosa. Regnava per un giorno, durante il quale gli era permessa ogni cosa, poi veniva drogato e ucciso.
Il Paredro tornava sul trono al fianco della Regina (il cui potere, però, cominciava a mostrare primi segni di debolezza)… fino a quando un nuovo pretendente, più forte e vigoroso, non fosse riuscito a toglierlo di mezzo.

Non si sa per quanto tempo tale cruente costume abbia continuato a mietere fanciulli. Ad un certo momento della storia, però, il sacrificio dei fanciulli verrà sostituito da quello di un animale: capro o toro.
O, come accadde in Egitto, da una cerimonia detta Zed o Giubileo: un rituale magico attraverso cui il Sovrano ritrovava energia e vigore.

A proposito di Giubileo, la regina Elisabetta II d’Inghilterra ha celebrato da poco il suo e il Papa si appresta a celebrare il proprio.

Pratiche moderne, dunque, che affondano le radici
in pratiche antiche.