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………Seduti in circolo a gambe incrociate nel grande piazzale davanti alla tenda di Rashid, tutta la tribù era presente per festeggiare il suo ritorno e quello della principessa Jasmine: bianchi mantelli, abiti sgargianti, pugnali, fucili e strumenti musicali; alle loro spalle la luna illuminava la sabbia.
Sir Richard, gambe incrociate, pugnale infilato alla cintola, parlava con lo sceicco Harith seduto alla sua destra. Parlavano dell’ultimo acquisto di armi, una mezza dozzina di fucili provenienti dall’Italia da pochi decenni riunita, precisamente da quello che il professor Marco Starti chiamava Stato Pontificio, cui qualche trafficante d’armi era riuscito a portar via.

A Sahab arrivavano armi da ogni parte d’Europa, come ad ogni altra tribù del deserto, le quali facevano affari con italiani, francesi, tedeschi e inglesi, naturalmente.
Harith mostrò il fucile che teneva in mano e sir Richard non riuscì a trattenere la mordace e pacata ironia di cui era dotato:
“Ecco una canna che è passata dal servizio di Cristo a quello di Allah!” disse, da buon miscredente qual era.
Si aspettava la replica, naturalmente, ma le note del tandir di Selima, la Favorta di Rashid, lo salvarono dall’imbarazzo.
“Oh, brava Selima. – esordì sorridendo Zaira – Allietaci con la tua musica… é dolce e malinconica, ma assai bella.”
Selima restituì il sorriso.

“E’ una melodia che mi ha insegnato Letizia. – spiegò – E’ il canto d’amore di una fanciulla che si strugge per un amore non corrisposto…”

Di fronte al lord inglese, dall’altro lato del circolo, Letizia appariva assorta e distante. Irraggiungibile; neppure il suono del suo nome parve scuoterla.

Aveva di fianco le due donne di Rashid: la principessa Jasmine a destra e Selima alla sinistra; di fronte, invece, sedevano Harith e Fatima. Parve scuotersi, infine e fece convergere lo sguardo sulle corde dello strumento nelle mani di Selima.

Sollevò il capo e lasciò vagare d’intorno lo sguardo, sulle note dolcissimamente malinconiche della musica, ma finì per naufragare in quello di Harith, scuro e penetrante, che la fissava con intensità tale da contrarle la carne e procurarle quello stato di gaudiosa e tormentosa eccitazione.
Si guardarono, con quella tenerezza e quell’amore potente come la forza di una tempesta di sabbia, ma lei si sottrasse subito a quel richiamo e spostò lo sguardo sulla donna seduta al suo fianco.

“E’ bella! – pensava – E’ grassa e opulenta come piace a loro… agli uomini… Come piace ad Harith… ”

Guardava la rivale; fissava la sua figura fin troppo opulenta che si perdeva nell’ombra di sete e damaschi e su cui, qua e là, al lume della luna balenavano discreti orecchini, collane e bracciali. E pensava, mentre la guardava, di non avere strumenti per contrastarne le segrete, sapienti insidie amorose di cui la supponeva maestra: dietro quel velo sapientemente calato sul viso, ne era certa, dovevano nascondersi fascini segreti e pratiche amorose per conquistare un uomo, che lei, però, non conosceva.

Fatima era la sola donna col volto velato; tutte le altre portavano solo un velo sui capelli. Fu per questo, forse, che con un gesto di ribellione se lo lasciò scivolare sulle spalle, mettendo in mostra la luminosità dorata dei lunghi capelli biondi e attirando immediatamente su di sé tutti gli sguardi e cogliendo fuggevolmente quello di disapprovazione di Harith, che lei continuava ostinatamente a sfuggire.

E intanto, quel tarlo, la gelosia, correva nel sangue e nelle vene e raggiungeva il cuore, sottile e penetrante, capace di rodere l’animo con un sol respiro.

Soffriva e la mente vacillava. Una sola cosa riusciva a pensare: appartenere a lui le era necessario e vitale più della vita stessa e non poté impedirsi di tornare a rituffare lo sguardo in quello di lui, nero e ardente, colmo di illusorie promesse. E d’improvviso, un piacere quasi folle la colse: la sensazione che anche lui soffrisse.

Dopotutto, c’era una certa “giustizia morale” nella sofferenza di lui, si disse. Ma poi, Fatima che gli si accostava e lui che si chinava verso di lei, riaccese la sua pena. Chiuse gli occhi e si attanagliò le mani intorno alle braccia premendo con forza e provando un piacere sadico nel conficcarsi le unghia nella carne per placare la pena dello spirito.

Quasi si stupì che qualcuno ridesse e scherzasse, proprio accanto a lei, ignaro della sua sofferenza: la principessa Jasmine protesa in avanti per dire qualcosa a Selima.
Letizia le guardò entrambe; le fissò stupita e interdetta… Gelose! Non erano gelose l’una dell’altra? Soprattutto Selima, per le attenzioni che Rashid riservava quasi esclusivamente alla principessa Jasmine.

E Jasmine? Non era gelosa di Selima?

Avevano la stessa età, lei e Jasmine e quando Harith la guardava con quello sguardo inafferrabile, all’inseguimento di pensieri audaci e proibiti che la riguardavano e la facevano arrossire, lei sentiva la propria carne contrarsi dal piacere e non avrebbe voluto vederlo guardare un’altra donna con quello stesso sguardo.

Rashid non aveva mai guardato Jasmine a quel modo? Non era mai balenato, nella mente di Jasmine, il pensiero che Rashid avesse guardato la sua Favorita proprio a quel modo, facendole sentire quello spasimo proibito e furtivo nel desiderare le sue carezze? Lei sì! Non poteva evitarsi di pensare alle mani dolcemente brutali di Harith mentre percorrevano il corpo di Fatima, così come aveva fatto con lei; alla presa intensa e dolce, tenera e predace con cui le faceva intendere che la voleva solo per sé, mentre lei non sopportava che lui potesse volere per sé anche Fatima.
I fuochi dei bivacchi, d’intorno, baluginavano; a spezzare il suo taciturno disagio arrivarono risate, voci e gridolini: un gruppo di ragazze con piatti fumanti e vassoi pieni di coppe e brocche.

Si alzò e andò loro incontro. Prese dalle mani di una delle ragazze un grosso piatto di terracotta contenente del cus-cus, e cominciò a distribuire, con gentilezza aggraziata, muovendosi agile nella tunica di seta blu-indaco.

Gridolini, bisbigli, risate, confusione e il tintinnio delle brocche che si toccavano e l’allegria che aveva conquistato tutti.

Tutti meno lei. Cominciò a servire quelli che stavano seduti alla sua sinistra; riempì per primo il piatto di Selima, poi passò ad Ibrahim, che con disinvoltura cominciò a frugare nel piatto, lasciandovi, però, i pezzi migliori.

Era la volta di Fatima, che sporse verso di lei la piccola mano grassoccia per afferrare dal vassoio e portarlo nel proprio piatto una polputa coscia d’anatra; la ragazza sollevò su di lei lo sguardo e le sorrise.

Letizia rispose al sorriso e mentre si rialzava sul busto e distrattamente lanciava un’occhiata sulla sinistra, il vassoio, semivuoto, le tremò in mano, tanto che dovette sorregerlo con entrambe: le mani di Fatima e di Ibrahim erano teneramente intrecciate.

Letizia impietrì e il senso di ingiustizia morale fece emergere dai meandri più profondi del suo intimo quel sentimento di velato rancore che, una volta innescato, era impossibile da dominare: Harith la preferiva ad una donna che lo tradiva con un altro!

(continua)

brano tratto dal libro IL RAIS – su AMAZON.it

GELOSIA

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La principessa Jasmine si ristabilì presto; tre giorni dopo si sentiva già abbastanza in forze. Seduta sulla sponda del letto, si teneva le ginocchia con le dita delle mani intrecciate; la spalla le doleva ancora.
Si girò, due o tre volte, per guardarsi intorno: il letto di Rashid. Grande, largo, basso. L’aveva accolta tra le coltri calde, tranquille e sicure per ben tre giorni e tre notti.
Il letto di Rashid. Immenso e soffice, dove lui consumava le sue notti d’amore e di passione con altre donne, avvolto in quella stessa grande coperta di broccato amaranto.
Chiuse gli occhi e quasi di sorpresa l’assalì il pianto, quel bisogno antico sollecitato dal dolore, quel privilegio quasi del tutto femminile che doleva come una ferita fisica. Poteva “vederlo”, il suo Rashid, disteso accanto “all’altra”, avvinghiato in spasmi di passione, in una fusione di respiri ansanti, soffocati dall’intensità del piacere…. all’altra… a Selima… A Selima, a cui lui prestava fede più che a lei… d’un tratto la sua voce, come evocata dai suoi pensieri:
“Jasmine, amore mio. Sono felice di vederti seduta e non distesa nel letto. Letizia, qui fuori, mi ha detto che stavi riposando.”
Jasmine trasalì; era di spalle e non lo aveva visto né sentito entrare. Non si voltò, ma lasciò scivolare in avanti le gambe.
Non indossava più la veste da notte, ma un’ampia tunica color sabbia ricamata in oro che le lasciava scoperte solamente le braccia. Era stata la piccola Agar, la figlia minore di Alina, ad aiutarla a vestirsi. Agar in quei tre giorni non l’aveva lasciata mai sola un istante per farsi raccontare favole d’amore; la sua voce, adesso, proveniva da fuori squillante ed allegra.
Rashid avanzò a passi lenti; raggiunse l’immenso letto e lo aggirò. Immobile, Jasmine si calò sul bellissimo volto il velo di seta blu e nascose il rossore di quei pensieri.
Rashid l’aveva raggiunta.
“Non farlo.” le sorrise.
Quante volte aveva ripetuto quella frase.
“Non farlo.” ripeté, prendendo tra le sue entrambe le mani di lei che stringevano i lembi del velo, ma questa volta lei si liberò della stretta e si sistemò il velo sul capo.
“E’ sconveniente che io mostri il volto ad occhi maschili. – disse, sottraendogli la visione del bel volto in fiamme e concedendogli solo l’emozione dei suoi occhi verdi – Come è sconveniente che io continui a dormire nel tuo letto, Rashid. – lui fece l’atto di replicare, ma lei lo prevenne – Sei stato molto generoso, Rashid, ad ospitarmi qui, ma è ora che io torni sotto la mia tenda – .” aggiunse in tono che non ammetteva repliche.
E Rashid non ne fece. Non subito, ma tese un piccolo cesto di datteri.
“E’ un regalo di pace da parte di Selima. – disse con un sorriso conciliante – Dice di essere mortificata per tutta questa situazione e che vuole chiarirsi con te.” aggiunse sedendo sul letto accanto a lei.
“Sei stato da lei? – domandò Jasmine con voce incolore ed a testa bassa, mentre un lampo le attraversava lo sguardo, poi, mutando di tono – Lo voglio anch’io! – mentì – Rassicurala… Rassicura Selima… quel giorno vaneggiavo…. L’hai detto anche tu che vaneggiavo…”
Mentiva, con quell’accento persuasivo, soavemente ingannevole, dolcemente remissivo. Aveva imparato a mentire in quei tre giorni trascorsi nella languidezza abusiva di quel letto su cui adesso erano seduti entrambi, ma che custodiva tracce di altri corpi femminili… di Selima.
Aveva imparato a mentire per nascondersi e non mostrarsi ferita agli occhi di lui. Aveva imparato a mentire perché tutte le sue difese erano concentrate nell’istinto che l’aveva sempre protetta e l’istinto ora le suggeriva di mentire, mentre inquietudine e gelosia le contraevano la carne e arrivavano ovunque, passando attraverso lo sguardo.
Aveva imparato a mentire e Rashid ne era dolorosamente consapevole.

Il suo sguardo, però, non mentiva, né mentiva il sorriso, triste e privo di quegli angoli ai lati degli occhi. Ed erano solo quelli, di tutta la persona, che lei gli concesse di guardare: perfino la bocca, colorata come un fiore di melograno e anche il naso che si levava elegante e curvo, lei gli aveva sottratto alla vista.
Lei fingeva di credergli, fingeva di adattarsi alle sue congetture e lui ne era consapevole, mortificato e addolorato: lei lo faceva con dolcezza soave, ma con dolorosa certezza e lui si sentiva colpevole, ma non sapeva spiegarsi di quale colpa. Colpevole e basta!

Il giovane si alzò; posò un ginocchio a terra davanti a lei e con gesti delicati e pieni d’amore le prese tra le mani il volto velato, sfiorandone i contorni con trepida dolcezza.
“Jasmine, mia adorata, vuoi diventare la mia sposa?” proruppe, mentre le dita scivolavano con dolce lentezza sulle sopracciglia frementi, le ciglia abbassate e le labbra tremanti; il velo era bagnato di lacrime.
Un fremito, però, gli contrasse la carne: Jasmine scuoteva il capo in segno di diniego.
“Jasmine, mio tesoro…”
Rashid era sinceramente stupito; si aspettava fremiti, aneliti, slanci di gioia e invece lei lo respingeva.
“Se me lo avessi chiesto prima… – la udì sussurrare – Non oggi… Non oggi, Rashid!”
“Ma perché? Perché, Jasmine, mia adorata?”
“Troppe ombre tra noi, Rashid.”
“Ma io ti amo, Jasmine, Luce degli Occhi miei! Io non ho altro desiderio che svegliarmi al mattino con te tra le braccia.”
“No! – lei continuava a scuotere il capo – Non oggi, amore mio. Non oggi, sull’onda di tante emozioni… Non sulla spinta di tante emozioni.”
“Tu.. tu credi, amore mio, che la mia richiesta sia dettata dall’emotività di questi eventi?… Oh, Jasmine…” proruppe il grande predone, affondando il capo nel grembo caldo e soffice di lei e circondandole la vita con le braccia.
“Chiedimelo ancora, Rashid, se mi ami… Ma non oggi. Non oggi.” gli sussurrò lei, chinando il capo fino a sfiorare quello di lui e ponendovi le labbra, poi gli scompigliò i capelli neri, folti e ricci, così come si fa con un bambino che vuol essere consolato dalla sua piccola grande pena; glieli accarezzò a lungo, con movimenti dolcissimi e lenti e di infinita tenerezza.
Il rais sollevò il capo; afferrò entrambe le mani di lei e se le portò alle labbra tremando: lui, l’uomo davanti a cui, eccetto la Natura, tutti chinavano il capo.
“Se è la presenza di Selima a impedirti di essere felice, amore mio, io la rimando oggi stesso alla sua gente. E allontanerò da questa casa ogni altra donna che risultasse non gradita alla mia principessa.” disse alzandosi e tornando a sederle accanto.
Con gesti di infinita tenerezza le tolse il velo, che posò alle loro spalle e le sciolse i capelli che Jasmine aveva legato sulla sommità del capo; lei lo lasciò fare e si lasciò attirare nell’incavo delle sue braccia forti e protettive.
“Non è questo che voglio…. ma, se Allah… – disse, infine, sollevando su di lui gli occhi verdi in cui un’ombra navigava veloce – … se Allah ti ha concesso l’amore di altre donne, io vorrei che non ci fossero ombre…”
“Oh, Jasmine! Nessuna donna all’infuori di te!” la interruppe lui con enfasi attirandola a sé con quella dolce violenza con cui lei lo immaginava impegnato con altre donne e la baciò con dolce passione. Un bacio tenero e indugiante. Sensuale. Che suscitò furiosa eccitazione e spasmi impetuosi in lui ed inconfessati desideri in lei.
“Letizia ha ragione, dunque!” sussurrò come trasognata, Jasmine, bruciata da quel liquido fuoco vivo che le scorreva nelle vene e dentro le ossa, alimentato dalle mani di lui che la cercavano e la percorrevano.
“Che cosa dice Letizia?” mormorò Rashid, quasi distrattamente e con le labbra chiuse intorno all’orecchio di lei che spuntava come una rosea conchiglia tra i capelli.
“Che un uomo innamorato sa trovare nella donna che ama, tutte le qualità che Allah ha distribuito in tutte le altre donne!”
“Sì! Letizia ha ragione!” assentì lui e si disse che un uomo davvero innamorato avrebbe desiderato la sua donna anche dopo averla appena posseduta. Si disse che lui, ogni volta, posseduta una donna, mai pago e sempre insoddisfatto, non aveva mai desiderato di trattenerla e che aveva provato sempre un senso di sollievo, dopo, a vederla scivolar via dal suo letto.
Quella sua abilità erotica, si disse, quella capacità di trarre piacere senza coinvolgimenti emotivi, non valevano per la sua Jasmine: lei lo appagava soltanto guardandolo negli occhi.
Le labbra lasciarono l’orecchio per cercare il mento e poi la gola e tornare ancora alle guance, alle palpebre e fermarsi alla bocca.
“Resta, Jasmine.” pregò.
Ma lei non restò.

(brano tratto dal romanzo “IL RAIS- Fiamme sul deserto” … prossimamente