Category: STORIA, MITI E LEGGENDE


DUNE ROSSE

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Il mitico mondo di Maria P
“DUNE ROSSE” – Saga avvincente ambientata nel posto più inospitale ed affascinante dl pianeta
“DUNE ROSSE”

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di Maria PACE
su AMAZON

Amore e passione – Avventura e Azione – Storia e consuetudini… una avvincente ed appassionante Saga ambientata nel posto più straordinario, affascinante ed inospitale del nostro pianeta. –
I primi due volumi
“DUNE ROSSE – Il Rais dei Kinda”
“DUNE ROSSE – Fiamme sul Deserto”

Seguiranno:
“DUNE ROSSE – Il Vascello Fantasma”
“DUNE ROSSE – L’Avvoltoio lasciò il nido”
PRESENTAZIONE
Il forte interesse e la grande ammirazione verso tutto ciò che era Orientale, creò nel XIX° secolo uno dei capitoli più complessi della storia intellettuale europea. Si trattò di un fenomeno assai diffuso a causa dello spiccato interesse per tutto quanto fosse orientale e per alcune caratteristiche in particolare: l’arte, la falconeria, i divertimenti (soprattutto danza del ventre).
Si giunse perfino a deporre l’abito europeo per preferire quello orientale. Molte personalità lo fecero: il pittore David, l’archeologo Belzoni, l’avventuriero Laurence d’Arabia, per citarne solo alcuni.
Si trascurarono, però, alcuni degli aspetti fondamentali di quella cultura; a volte si finì anche per ironizzarne.
Mancò spesso il rispetto per una cultura considerata piuttosto folkloristica e quel che è peggio, si trascurò la condizione assai precaria che la donna ricopriva in quella società.
Ossessione per una terra ed una cultura che, in fondo, non si conosceva affatto, ma che spinse tanti europei a travestirsi da arabi…
Nelle vicende narrate in questa che è una saga tribale, non si incontreranno solo figure storiche realmente esistite, ma anche personaggi partoriti dalla fantasia.

Che sapore hanno l’amore e la passione?… il sangue e l’odio? Nel posto più straordinario, affascinante e inospitale del nostro pianeta, i sentimenti non sono gli stessi che in altre latitudini… qui il sangue scorre nelle vene come liquido fuoco vivo.
Amore e passione, guerre tribali, razzie, intrighi e misteri, azione, avventura, fantasia, qui, hanno spazi infiniti… Storia e consuetudini.
Uno struggente sentimento lega Rashid, il Rais più temuto d’Arabia, alla principessa Jasmine, ma il suo tutore, il sultano-usurpatore di Doha la promette in sposa ad un uomo dal torbido e misterioso passato. Jasmine, cui è stato fatto credere che l’uomo che ama è responsabile del massacro della sua gente, fugge attraverso il deserto, adottando un travestimento che la rende irriconoscibile.
Si inserisce in queste vicende, la tenera e tormentata storia d’amore dello sceicco Harith per la bellissima Letizia e l’amore proibito di sir Richard lord inglese, per l’indiana Zaira.

Per chi volesse acquistarli:
Dune Rosse: Fiamme sul Deserto (Volume 2) (Italian Edition) (Italian)Paperback – December 24, 2014
by Maria Pace (Author)
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ISBN-13: 978-1505685718 ISBN-10: 1505685710 Edition: 1st
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……………..
Dune Rosse: Il Rais dei Kinda (Volume 1) (Italian Edition) (Italian)Paperback – Large Print, November 15, 2014
by Maria Pace (Author)
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ISBN-13: 978-1503229006 ISBN-10: 1503229009 Edition: 1st
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La leggenda di Crimilde e Sigfrido
Questa storia fa parte della mitologia nordica del popolo dei Nibelunghi. Inizia quando l’eroe Sigfrido giunge alla corte del Re dei Burgundi.

Sigfrido è un grande eroe, che ha compiuto grandi imprese: ha combattuto, vinto e ucciso il drago… nel cui sangue si è bagnato rendendosi invulnerabile, salvo una spalla su cui si era posata una foglia.
Ha conquistato la Spada Magica, la cui lama uccide al solo tocco ed ha ricevuto in dono da una maga un anello che moltiplica le forze.
Riesce anche a salvare la Valchiria Brunilde, vergine-Guerriera inviata da Odino, Padre degli Dei, a scegliere eroici guerrieri morenti da condurre nel Walhalla, dimora degli Dei.
Brunilde e Sigfrido finiscono per innamorarsi, ma il cattivo mago Hagen, con una pozione magica, fa infiammare il cuore dell’eroe per Crimilde, sorella di Gunther, re dei Burgundi, a cui Sgfrido consegna la bella Brunilde.
Furente, ma sempre innamorato del suo eroe, Brunilde è rosa dalla gelosia: Sigfrido e Crimilde sono molto felici e lei per vendicarsi del tradimento di Sigfrido, rivela ai suoi nemici il solo punto vulnerabile del suo corpo.
Responsabili della morte di Sigfrido, con una freccia scagliata in quel solo punto vulnerabile, sono il mago Hagen e lo stesso re Gunther, i quali vogliono impadronirsi del tesoro che l’eroe aveva sottratto al drago.
Brunilde, apprendendo del filtro magico, rosa dal rimorso, si getta sulla pira su cui Crimilde aveva fatto adagiare il cadavere dell’eroe.
La vendetta di Crimilde, invece, fu tremenda e seguiva un ben preciso disegno.
Si concesse come moglie ad Attila, Re degli Unni e si fece giurare che l’avrebbe assistita nella vendetta contro la propria famiglia.
La nuova Regina degli Unni invitò a corte il fratello Gunther con il suo seguito di nobili e cavalieri e il mago Hugen. Offrì loro un sontuoso banchetto, chiedendo, però, di lasciare le armi fuori del grande salone.
Crimilde chiese ai fratelli di consegnarle il mago Hagen, ma costoro si rifiutarono, poiché il mago era il solo a conoscere il posto, nel Reno, in cui Sigfrido aveva sepolto il suo tesoro.
Per ottenere quel tesoro, fa sapere il mago, nessuno del popolo dei Burgundi dovrà essere ancora in vita.
Crimilde non ebbe esitazioni e chiese da Attila, che non aspettava altro, lo sterminio della sua gente e dell’odiato mago Hagen, che si consumò durante quel banchetto fatale.

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Sigfrido e il tesoro dei Nibelunghi

E’ l’eroe per eccellenza della mitologia germanica.
Allevato da Ragin, il fabbro, Sigfrido crebbe forte, coraggioso e di bellissimo aspetto. Ancora giovanissimo, il suo maestro lo spinse verso la sua prima impresa: la conquista del tesoro dei Nibelunghi, il mitico popolo dei Nani. di cui faceva parte lo stesso Ragin.
Questo tesoro era appartenuto a Hreidhmar, il padre di Ragin che Fafner, l’altro figlio, aveva ucciso per impadronirsene e dividerlo con il fratello.
Al momento della spartizione, però, Fafner si rifiutò di consegnare al fratello la sua parte, nascose il tesoro e in sembianze di un drago si pose di guardia.
Armato di una magica spada forgiata da Ragin, il suo maestro, Sigfrido affrontò il drago e lo uccise, poi si bagnò nel suo sangue per diventare invulnerabile.
Una foglia, però, si pose sulla sua spalla sinistra, che divenne il punto vulnerabile di tutto il corpo.
Compiuta l’impresa, l’eroe nascose il tesoro in un posto sicuro lungo il corso del Reno, poi si pose in cammino per affrontare un’altra impresa.
Da un falco, l’eroe conosceva il linguaggio degli uccelli, apprese che Brunilde, una delle più belle Valchirie, era stata relegata da Odino, Re degli Dei, sulla vetta di un monte circondato di fiamme.
Sigfrido riuscì a liberarla e si innamorò perdutamente di lei; anche Brunilde era profondamente innamorata del bellissimo eroe e i due decisero di sposarsi.

Per la bella Valchiria, però, ardeva d’amore anche Gunther, Re dei Burgundi, un popolo guerriero di stirpe Vichinga, il quale invitò l’eroe a corte per una partita di caccia.
Gunther, però, mirava anche ad impadronirsi del tesoro nascosto e chiese al mago Hagen
di aiutarlo nell’impresa.
Il mago preparò un filtro magico che fece accendere d’amore il cuore di Sigfrido per la bella Crimildde, sorella di Gunther.
Sigfrido abbandonò Brunilde che convinse a sposare Gunther, poi convolò a nozze con Crimilde.
La bella Valchiria, però, umiliata e tradita, mise ben presto in atto la sua vendetta: rivelò al mago Hagen il punto vulnerabile dell’eroe e questi durante una partita di caccia lo colpì a morte.


Venuta a conoscenza della verità, Brunilde, sopraffatta dal dolore e dal rimorso, si gettò sulla pira che Crimilde aveva fatto preparare per Sigfrido.
Spietata, invece, fu la vendetta di Crimilde nei confronti degli assassini dell’amatissimo marito.
Diventata la sposa di Attila, re degli Unni, Crimilde invitò ad un banchetto suo fratello e il suo seguito e anche il mago Hagen poi chiese ad Attila, il quale non aspettava altro, di farne strage.

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………Seduti in circolo a gambe incrociate nel grande piazzale davanti alla tenda di Rashid, tutta la tribù era presente per festeggiare il suo ritorno e quello della principessa Jasmine: bianchi mantelli, abiti sgargianti, pugnali, fucili e strumenti musicali; alle loro spalle la luna illuminava la sabbia.
Sir Richard, gambe incrociate, pugnale infilato alla cintola, parlava con lo sceicco Harith seduto alla sua destra. Parlavano dell’ultimo acquisto di armi, una mezza dozzina di fucili provenienti dall’Italia da pochi decenni riunita, precisamente da quello che il professor Marco Starti chiamava Stato Pontificio, cui qualche trafficante d’armi era riuscito a portar via.

A Sahab arrivavano armi da ogni parte d’Europa, come ad ogni altra tribù del deserto, le quali facevano affari con italiani, francesi, tedeschi e inglesi, naturalmente.
Harith mostrò il fucile che teneva in mano e sir Richard non riuscì a trattenere la mordace e pacata ironia di cui era dotato:
“Ecco una canna che è passata dal servizio di Cristo a quello di Allah!” disse, da buon miscredente qual era.
Si aspettava la replica, naturalmente, ma le note del tandir di Selima, la Favorta di Rashid, lo salvarono dall’imbarazzo.
“Oh, brava Selima. – esordì sorridendo Zaira – Allietaci con la tua musica… é dolce e malinconica, ma assai bella.”
Selima restituì il sorriso.

“E’ una melodia che mi ha insegnato Letizia. – spiegò – E’ il canto d’amore di una fanciulla che si strugge per un amore non corrisposto…”

Di fronte al lord inglese, dall’altro lato del circolo, Letizia appariva assorta e distante. Irraggiungibile; neppure il suono del suo nome parve scuoterla.

Aveva di fianco le due donne di Rashid: la principessa Jasmine a destra e Selima alla sinistra; di fronte, invece, sedevano Harith e Fatima. Parve scuotersi, infine e fece convergere lo sguardo sulle corde dello strumento nelle mani di Selima.

Sollevò il capo e lasciò vagare d’intorno lo sguardo, sulle note dolcissimamente malinconiche della musica, ma finì per naufragare in quello di Harith, scuro e penetrante, che la fissava con intensità tale da contrarle la carne e procurarle quello stato di gaudiosa e tormentosa eccitazione.
Si guardarono, con quella tenerezza e quell’amore potente come la forza di una tempesta di sabbia, ma lei si sottrasse subito a quel richiamo e spostò lo sguardo sulla donna seduta al suo fianco.

“E’ bella! – pensava – E’ grassa e opulenta come piace a loro… agli uomini… Come piace ad Harith… ”

Guardava la rivale; fissava la sua figura fin troppo opulenta che si perdeva nell’ombra di sete e damaschi e su cui, qua e là, al lume della luna balenavano discreti orecchini, collane e bracciali. E pensava, mentre la guardava, di non avere strumenti per contrastarne le segrete, sapienti insidie amorose di cui la supponeva maestra: dietro quel velo sapientemente calato sul viso, ne era certa, dovevano nascondersi fascini segreti e pratiche amorose per conquistare un uomo, che lei, però, non conosceva.

Fatima era la sola donna col volto velato; tutte le altre portavano solo un velo sui capelli. Fu per questo, forse, che con un gesto di ribellione se lo lasciò scivolare sulle spalle, mettendo in mostra la luminosità dorata dei lunghi capelli biondi e attirando immediatamente su di sé tutti gli sguardi e cogliendo fuggevolmente quello di disapprovazione di Harith, che lei continuava ostinatamente a sfuggire.

E intanto, quel tarlo, la gelosia, correva nel sangue e nelle vene e raggiungeva il cuore, sottile e penetrante, capace di rodere l’animo con un sol respiro.

Soffriva e la mente vacillava. Una sola cosa riusciva a pensare: appartenere a lui le era necessario e vitale più della vita stessa e non poté impedirsi di tornare a rituffare lo sguardo in quello di lui, nero e ardente, colmo di illusorie promesse. E d’improvviso, un piacere quasi folle la colse: la sensazione che anche lui soffrisse.

Dopotutto, c’era una certa “giustizia morale” nella sofferenza di lui, si disse. Ma poi, Fatima che gli si accostava e lui che si chinava verso di lei, riaccese la sua pena. Chiuse gli occhi e si attanagliò le mani intorno alle braccia premendo con forza e provando un piacere sadico nel conficcarsi le unghia nella carne per placare la pena dello spirito.

Quasi si stupì che qualcuno ridesse e scherzasse, proprio accanto a lei, ignaro della sua sofferenza: la principessa Jasmine protesa in avanti per dire qualcosa a Selima.
Letizia le guardò entrambe; le fissò stupita e interdetta… Gelose! Non erano gelose l’una dell’altra? Soprattutto Selima, per le attenzioni che Rashid riservava quasi esclusivamente alla principessa Jasmine.

E Jasmine? Non era gelosa di Selima?

Avevano la stessa età, lei e Jasmine e quando Harith la guardava con quello sguardo inafferrabile, all’inseguimento di pensieri audaci e proibiti che la riguardavano e la facevano arrossire, lei sentiva la propria carne contrarsi dal piacere e non avrebbe voluto vederlo guardare un’altra donna con quello stesso sguardo.

Rashid non aveva mai guardato Jasmine a quel modo? Non era mai balenato, nella mente di Jasmine, il pensiero che Rashid avesse guardato la sua Favorita proprio a quel modo, facendole sentire quello spasimo proibito e furtivo nel desiderare le sue carezze? Lei sì! Non poteva evitarsi di pensare alle mani dolcemente brutali di Harith mentre percorrevano il corpo di Fatima, così come aveva fatto con lei; alla presa intensa e dolce, tenera e predace con cui le faceva intendere che la voleva solo per sé, mentre lei non sopportava che lui potesse volere per sé anche Fatima.
I fuochi dei bivacchi, d’intorno, baluginavano; a spezzare il suo taciturno disagio arrivarono risate, voci e gridolini: un gruppo di ragazze con piatti fumanti e vassoi pieni di coppe e brocche.

Si alzò e andò loro incontro. Prese dalle mani di una delle ragazze un grosso piatto di terracotta contenente del cus-cus, e cominciò a distribuire, con gentilezza aggraziata, muovendosi agile nella tunica di seta blu-indaco.

Gridolini, bisbigli, risate, confusione e il tintinnio delle brocche che si toccavano e l’allegria che aveva conquistato tutti.

Tutti meno lei. Cominciò a servire quelli che stavano seduti alla sua sinistra; riempì per primo il piatto di Selima, poi passò ad Ibrahim, che con disinvoltura cominciò a frugare nel piatto, lasciandovi, però, i pezzi migliori.

Era la volta di Fatima, che sporse verso di lei la piccola mano grassoccia per afferrare dal vassoio e portarlo nel proprio piatto una polputa coscia d’anatra; la ragazza sollevò su di lei lo sguardo e le sorrise.

Letizia rispose al sorriso e mentre si rialzava sul busto e distrattamente lanciava un’occhiata sulla sinistra, il vassoio, semivuoto, le tremò in mano, tanto che dovette sorregerlo con entrambe: le mani di Fatima e di Ibrahim erano teneramente intrecciate.

Letizia impietrì e il senso di ingiustizia morale fece emergere dai meandri più profondi del suo intimo quel sentimento di velato rancore che, una volta innescato, era impossibile da dominare: Harith la preferiva ad una donna che lo tradiva con un altro!

(continua)

brano tratto dal libro IL RAIS – su AMAZON.it

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Il forte interesse e la grande ammirazione verso tutto ciò che era Orientale, creò nel XIX secolo uno dei capitoli più complessi della storia intellettuale europea.
Si trattò di un fenomeno assai diffuso a causa dello spiccato interesse per tutto quanto fosse orientale e per alcune caratteristiche in particolare: l’arte, la falconeria, i divertimenti (soprattutto danza del ventre).
Si giunse perfino a deporre l’abito europeo per preferire quello orientale. Molte personalità lo fecero: il pittore David, l’archeologo Belzoni, l’avventuriero Laurence d’Arabia, per citarne solo alcuni.
Si trascurarono, però, alcuni degli aspetti fondamentali di quella cultura; a volte si finì anche per ironizzarne.
Mancò spesso il rispetto per una cultura considerata piuttosto folkloristica e quel che è peggio, si trascurò la condizione assai precaria che la donna (salvo poche eccezioni) ricopriva in quella società.
Ossessione per una terra ed una cultura che, in fondo, non si conosceva affatto, ma che spinse tanti europei a travestirsi da arabi…

In queste vicende, infatti, non si incontreranno solamente figure storiche realmente esistite, ma anche personaggi partoriti dalla fantasia, perché il tema principale e:

AMORE – PASSIONE – FASCINO – AVVENTURA – AZIONE – MISTERO – FANTASIA – STORIA

la mia prima pubblicazione e-book su Amazon.it

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IL CAMPO SCELLERATO… ovvero, la tomba delle “sepolte vive”

Era un luogo lungo la strada selciata di Porta Collina dove le Vestali ree di inadempienza al proprio voto di castità venivavo sepolte vive. Si trattava di un seminterrato provvisto di un pagliericcio e di una porticina che veniva sprangata dall’esterno ed in cui la sventurata doveva vivere la sua angosciosa e lunga agonia, con solo un bricco di latte, una pagnotta ed una lampada ad olio .

La prima di queste sventurate, sotto re Tarquinio Prisco, accusata di aver attentato alla propria virtù, fu la nobile Pinaria, figlia di Publio. Seguì Minuzia, la quale attirò i sospetti su di sé per la cura eccessiva che dedicava alla propria persona. Ad accusarla fu uno schiavo e non le fu possibile dimostrare la propria innocenza.

Nella guerra di Roma repubblicana contro i Volsci, la sorte era decisamente sfovorevole a Roma e si disse che gli Dei erano insoddisfatti e corrucciati ed esigevano sacrifici.
Si pensò subito alla condotta delle sacerdotesse di Vesta: molte delle disgrazie che piovevano sulla città venivano loro attribuite. Qualcuno mise in giro la voce che la responsabilità era proprio di una delle Vestali: Oppia, colpevole di aver oltraggiato la sua virtù con due uomini. Sottoposta a giudizio e condannata, la ragazza fu sepolta viva e i due presunti colpevoli, uccisi a colpi di verghe.

Stessa sorte toccò ad un’altra Vestale, la giovane Urbinia, questa volta durante la guerra di Roma contro Veio. Poiché in città e nelle campagne donne e bambini si ammalavano e morivano di morti sospette, la pubblica attenzione si concentrò una volta ancora sulla Casa di Vesta e sul comportamento delle sue Sante Figlie. Ad essere accusata di non aver rispettato il giuramento di verginità fu, questa volta, la povera Urbinia ed anche lei conobbe l’orribile sorte di essere sepolta viva in quella fossa infame.
Anche per i due presunti colpevoli non ci fu scampo: processo e condanna a morte.

Altre quattro Vestali furono riconosciute colpevoli e condannate, ma tutte preferirono darsi morte piuttosto che affrontare il ludibrio di un processo e una morte orribile: Lanuzia, accusata da Caracalla, che si gettò dal tetto della sua casa; Tuzia che, accusata di aver avuto rapporti con uno schiavo, si trafisse con un pugnale; Gapronia che si strangolò e Opimia che scelse il veleno; Florania, invece, non riuscì a sfuggire alla terribile sorte.

Non mancarono casi di Vestali condannate nonostante la comprovata innocenza, come nel caso della bella e giovane Clodia Leta e la nobile Aurelia, le quali preferirono affrontare il martirio piuttosto che cedere alle profferte libidinose del loro accusatore: l’imperatore Caracalla.

Innocente era anche la bella Cornelia, ai tempi di Domiziano il quale, respinto, l’aveva accusata di aver attentato alla propria virtù con un certo Celere. Non potendo sostenere le accuse in Senato, l’Imperatore l’accusò in un improvvisato tribunale allestito in una casa di campagna senza dare alla povera ragazza possibilità alcuna di discolparsi e difendersi.
Riconosciuta colpevole, l’infelice Cornelia fu condannata e condotta sul luogo del supplizio.
Qui, mentre scendeva i gradini che la portavano in fondo alla fossa, il mantello si impigliò. Il Littore fece l’atto di tendere una mano per aiutarla, ma Cornelia lo respinse per non contaminarsi e dimostrare di possedere ancora la propria virtù e purezza.
Non ancora soddisfatto da questa condanna, Domiziano fece uccidere con le verghe anche il povero Celere, del tutto estraneo a quei fatti.

Singolare é la storia di altre tre infelici: Marzia, Licinia ed Emilia, Vestali ai tempi della Repubblica.
Marzia aveva una relazione amorosa con un giovane di buona famiglia che durava già da qualche tempo quando fu accusata; Lucio Metello, il Pontefice Massimo, si lasciò impietosire dalla loro storia d’amore e graziò la ragazza.
Sempre sotto il suo Pontificato, altre due Vestali, Licinia ed Emilia, vennero meno ai loro voti di castità concedendosi l’una al fratello dell’altra. Scoperte e accusate da uno schiavo, un certo Manius, comparirono davanti al tribunale, ma solo Emilia fu condannata, perché accusata anche di aver intrattenuto relazione illecita con alcuni schiavi per evitare denuncia da parte di quelli.
Il popolo romano, però, assai “bigotto” avremmo detto oggi, riguardo la virtù delle proprie Vestali, si mostrò assai scontento di quelle assoluzioni e pretese un nuovo processo.
Questa volta le tre infelici ragazze vennero tutte condannate e con esse anche quelli che le avevano protette e in qualche modo sostenute.

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La Leggenda di MERLA e TIBALDO

Da sempre chiamiamo “Giorni della merla” gli ultimi, rigidissi tre giorni del mese di gennaio.
Molte leggende sono sorte intorno a questo fenomeno atmosferico e in questa sede ne presento una: forse, la più romantica e triste insieme.
Viveva, nel ‘500, nella Rocca di Stradella, in provincia di Pavia, una nobile famiglia di gastaldi di nome Merli.
Tibaldo, un giovane della famiglia, fu inviato a Pavia a studiare. Terminati gli studi, il giovane ritornò nel contado.
Qui incontrò una giovanissima ragazza di nome Merla e se ne innamorò; Merla era talmente bella, che in tutto il contado si diceva: “Bella come la Merla”.
La ragazza ricambiò immediatamente il sentimento di Tibaldo, ma un grosso ostacolo separava i due innamorati: il grado di parentela.
Merla e Tibaldo, infatti, erano cugini stretti.
Per un po’ i due innamorati riuscirono a tenere segreta la loro relazione, infine, dovettero rendere pubblico quel loro amore senza speranza.
Sembrava, ai due giovani innamorati, che non ci fosse per loro altra soluzione che un romantico suicidio.
Quel sentimento, però, così forte, profondo e sincero, finì per attirare su di loro simpatia, benevolenza e comprensione.
Lo stesso vescovo di Pavia, parente dei due giovani, si mosse a commozione e riuscì ad ottenere una dispensa papale che consentisse loro di sposarsi.
Le nozze furono celebrate in pompa magna e i festeggiamenti si protrassero per tre giorni: gli ultimi, tre gelidi giorni del mese di gennaio e tutto il paese vi partecipò.
Il festoso evento, però, finì in tragedia.
Per raggiungere Pavia, i due sposi attraversarono il Po gelato a bordo della loro carrozza.
Durante il viaggio, la superficie gelata del fiume si ruppe e i due giovani sposi finirono tragicamente annegati.

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IL RO-STAU – La Porta dell’Oltretomba


tratto dal libro “DJOSER e lo Scettro di Anubi”

se questo brano dovesse suscitare interesse e si volesse continuare la lettura, si può richiedere il libro direttamente presso: Società Editrice MONTECOVELLO

oppure alla propria libreria

il libro costa quando due pacchetti di sigarette, ma non è altrettanto dnnoso e sotiene il progetto NON SIAMO SOLI – SAVE THE CHILDREN (come riportato sul retro del libro)

Djoser si mosse. Gli pareva di navigare in un etra fluido e leggero, ma non era la sua volontà a condurlo, bensì una forza arcana ed estranea.
Si voltò. Di nuovo lo assalirono nausea e vertigini, ma qualcuno lo sostenne. Djoser cercò il suo volto. Il movimento fece fluttuare l’aria intorno a lui. Fu in quel momento che la presenza percepita accanto a sé si manifestò.
Era un giovane. D’aspetto bellissimo, il volto era così radioso che per un attimo Djoser dovette chiudere gli occhi. Quando li riaprì, vide una testa che si levava nobile e dritta su un collo taurino e un volto ovale e bruno che pareva scolpito nel basalto. L’espressione era timida e dolce. Straordinariamente dolce. Lo sguardo, però, penetrante ed ardente, irrequieto come quello di un giovane toro, fiammeggiava, simile a oro fuso dai cangianti riflessi turchesi. La fronte, piatta e marmorea, si allungava verso il sincipite dove si inserivano due corna arcuate, levigate e lunghe; una stupefacente macchia bianca campeggiava al centro della fronte.
“Hapy!” sussurrò Djoser; quella presenza non gli ispirava alcun sentimento di paura.
“Divino Hapy, Alfiere di Ptha il Creatore – salutò -
Omaggio a Te che scendi dal cielo e dai da bere alla terra.”
“Djoser, Figlio della Terra. Abbandona tutto quanto ti lega al Mondo-di-Sopra. – la voce del Hapy gli penetrò il cervello -Trattieni qui il tuo Corpo e lascia lo Spirito libero di andare oltre gli Orizzonti-Inviolabili-del-Tempo.”
Djoser sollevò lo sguardo e incontrò quello del Signore del Nilo, turchese, magico e carico di splendore.
Stava sognando? Sotto i sandali non sentiva più il selciato del pavimento, ma nuda terra. Dov’era? Gli pareva di non aver mosso piede eppure era certo di trovarsi in un altro posto. E Hapy? Era anche Lui frutto del suo sogno? Era certo di no, com’era certo di avere già incontrato il Signore del Nilo nel suo aspetto umano.
Un ricordo nitido e chiaro riemerse dalla bruma del tempo infantile. Aveva due o tre anni e stava giocando sul greto del fiume, dietro casa, con l’amichetto del cuore: Amosis, Sikty, Neferptha… Sikhty. Forse Sikthy. Non ricordava con assoluta certezza il suo nome. Ricordava invece che era molto divertente raccogliere ciottoli e vermi sul greto del fiume che il ritiro delle acque lasciava scoperto. Divertente, ma pericoloso. Solo qualche metro più in là, le acque sprofondavano tanto da minacciare di inghiottirli. Proprio ciò che accadde quel giorno.
La voce di Hapy tornò a risuonargli nella mente.
“Risparmia animo e cuore per le prove che ti attendono, ma abbandona ogni paura, o Sa-ta, Figlio-della-Terra, e segui con fiducia i passi della tua Guida.”
“Sono pronto a seguirti.” disse Djoser e perfino la propria voce gli parve un grido che squarciasse il silenzio arcano ed immobile che era intorno a lui e dentro di lui, rotto soltanto dagli sguardi sfolgoranti del Dio. Era sempre fermo, i piedi sempre radicati nel suolo, eppure provava la stessa sensazione di quando scivolava lungo i budelli della Piramide di Khufu.
“Non sono Io la tua guida.” lo sorprese Hapy scuotendo il capo e
facendo fremere l’aria; la miriade di lucenti corpuscoli presenti
nell’aria, parevano scintille impazzite.
“Sarà Lui a guidarti fino alla prima delle Sette Arrit della Duat.”
Fu solo in quel momento che Djoser avvertì una seconda presenza nella stanza e sentì un soffio alitargli sul collo con il bruciore di una fiamma. Capì subito, senza nemmeno voltarsi, che si trattava di Anubi.
Si girò, con animo lieto e gioioso, ma precipitò nello sgomento: l’aspetto del Signore delle Tenebre-Profonde non era quello a lui familiare, gioviale ed un pò ironico. Non era l’aspetto amabile e cortese del compagno di giochi, del maestro sempre indulgente. Il sembiante di Anubi era simile ad una fiamma minacciosa. Gli occhi verdi ed incandescenti parevano pronti ad incenerire, denti e zanne a lacerare, mani ad artiglio a squartare.
Terribile ed Implacabile. Ecco il vero aspetto di Anubi. Così come lo aveva “visto” comparire davanti al principe Kabaef prima che gli succhiasse la vita con quello sguardo tremendo.
Terrorizzato, il ragazzo si girò verso Hapy, ma il Signore del Nilo non c’era più; al suo posto era rimasto un intenso profumo di loto e papiro e una miriade di scintille sempre più trasparenti.
Djoser balbettò qualcosa, ma la mano ad artiglio di Anubi lo toccò sulla spalla e la paura scivolò via dal suo spirito, come l’ombra del pomeriggio sulle case. Il ragazzo abbassò lo sguardo e nel breve battito di ciglia, che a lui parve lungo quanto l’Eternità, la Tenebra si squarciò davanti ai suoi occhi sollevando il primo velo dei Grandi Misteri di Ptha: la Gola del Ro-Stau, la grande Porta dell’Oltretomba.
Djoser la fissò irrigidito dalla paura. Il braccio di Anubi lo guidò e il ragazzo comprese la ragione per la quale lo Sciacallo Divino aveva assunto quel terribile aspetto: tre Demoni, armati di mannaie e coltelli, terrificanti a guardarsi, stavano venendo loro incontro per impedire l’accesso a quella Soglia.
Erano i Sorveglianti del Ro-Stau e al cospetto del Signore del Cammino-Nascosto, pur tra mugugni ed invettive, indietreggiarono. Prima di lasciarlo passare, però, per le Leggi che regolavano il Mondo-di-Sotto, pretesero di conoscere il
nome del pellegrino e che egli pronunciasse il loro, con la giusta intonazione.
Anubi fece un cenno affermativo del capo e il ragazzo recitò:
“Sono Djoser, figlio di Pthahotep, architetto di Ptha. Il mio ren è: Colui-che-esce-dai-papiri.”
“Da dove vieni?” chiese l’Araldo.
“Dalla terra di Ineb-Heg, il Muro Bianco di Memfi.”
“Che cosa sei venuto a fare qui?”
“Sono venuto per conoscere i segreti della Duat. Aprite il Ro-Stau e lasciatemi entrare. – ordinò – Io non sono arrivato qui impuro, ma provvisto di magia e conosco i vostri nomi: Mades è il tuo nome, Heri-sep è quello del tu compagno e tu sei Babi.”
I demoni abbassarono subito asce e mannaie e il grande portale si spalancò con un fragore assordante che lo fece trasalire, nondimeno, si apprestò ad oltrepassare la Buca del Mistero. Con un certo disagio, per la verità: il disagio del distacco che la Terra avverte quando la zappa le stacca una zolla dalla crosta. Era come se il suo essere si fosse scisso e parte di sé fosse rimasta fuori di quella Soglia. Non dolore fisico, ma piuttosto un disagio dello spirito per la perdita di qualcosa. Comprese di aver lasciato su quella Soglia la prima delle “identità” che componevano il suo essere umano: il ren, il nome segreto.
Un’altra delle identità era il Ka, lo Spirito. Era simile al djet, il corpo fisico, di cui era la copia esatta. C’era poi il Ba, l’Anima, che era la parte più intima dell’uomo. E c’era la Shut, l’Ombra. Infine c’erano l’Ib e l’Akh, il Cuore e il Corpo di Gloria. Sette, in totale, e lui provava quel senso di perdita che si avverte quando si smarrisce qualcosa di prezioso e vitale.
Che il ren fosse una questione molto importante per la creatura umana, Djoser lo sapeva assai bene. Vitale, per la verità, dal momento che neppure gli Dei potevano farne a meno. Non avere un nome equivaleva a non esistere. Possedere il nome segreto di un’altra persona
(continua)

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Storie d’Amore e di Morte: Calliroe e Coreso – la “prova” d’Amore

Coreso, sacerdote di Bacco, era stato preso da travolgente passione per Callireo, una bellissima ragazza di Caledone. Costei, invece, non sentiva nessun trasporto per l’ardente innamorato.
Fu così che Coreso finì per chiedere l’intervento di Bacco, affinché lo vendicasse di tanta indifferenza.
Quel gaudente di Bacco si prestò al gioco senza alcun indugio e lo fece nel modo a lui più congeniale: facendo prendere una bella sbronza a tutto il Paese. Una sbronza così forte da togliere il bene dell’intelletto a tutti i Caledonesi.
Per recuperarlo, spiegò l’Oracolo, bastava sacrificare a Bacco l’insensibile fanciulla in questione oppure una persona che fosse disposta a morire al suo posto.
Calliroe era bellissima e non c’era giovanotto che non spasimasse per lei ed a tutti loro, lei chiese la grande “prova” d’amore. Nessuno, però, si fece avanti disposto a sacrificarsi.
Fu così che la bella Calliroe, agghindata di tutto punto, fiori, foglie e gioielli, fu condotta all’altare sacrificale, ma…. ecco il colpo di scena.
Coreso, il Gran Sacerdote di Bacco, innamorato respinto, già pronto ai piedi dell’altare con il coltello sacrificale in mano, invece di conficcarlo nel petto della ragazza, ormai rassegnata alla morte, lo volse contro di sé.
Toccata da tanta “prova” d’amore, Calliroe sentì di colpo infiammarsi il cuore per quel giovane più volte respinto e si trafisse il petto con lo stesso coltello.
Impietositi, gli Dei trasformarono i due in una sola fonte: la Fonte di Atene, alla foce dell’Ilisso, fiume dell’Attica.

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Storie d’Amore e di Morte: Antigone ed Emone – il sopruso e la tirannia

Antigone ed Emone, rispettivamente figli di Edipo e Creonte, erano profondamente innamorati e legati da una promessa matrimoniale.
Creonte, zio di Antigone oltre che spasimante respinto, era riuscito a mettere le mani sul trono di Tebe dopo che i legittimi eredi, Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, si erano affrontati in un duello mortale per entrambi.
Spinto dalla propria natura empia e malvagia, il Tiranno aveva ordinato di non dare sepoltura ai corpi dei due caduti.
Contravvenendo a quell’ordine, però, Antigone innalzò una pira e vi adagiò sopra il corpo di Polinice, cui la principessa era legata da profondo affetto.
Dall’alto di una terrazza, Creonte vide il bagliore delle fiamme del rogo e si precipitò sul posto, sorprendendo Antigone.
In preda alla collera per essere stato disubbidito e cogliendo in quella, l’occasione per potersi vendicare del rifiuto di Antigone, Creonte ordinò al figlio, il principe Emone, di seppellire viva la ragazza nella tomba di Polidice.
Emone finse di ubbidire. In realtà sposò l’amata e la mise in salvo affidandola ad un gruppo di pastori, tra i monti.
Antigone ebbe un figlio che, come tutti nella sua famiglia, portava impresso sul corpo il segno del serpente. Quando, molti anni dopo, ormai cresciuto, il ragazzo si presentò ad una gara con l’arco, Creonte lo riconobbe dal segno, lo catturò e lo fece mettere a morte.
Invano Emone tentò di salvare il figlio; alla fine uccise se stesso e l’infelice Antigone.

(questo personaggio ha dato materia a molte delle Tragedie Greche)