Category: STORIA, MITI E LEGGENDE


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Naturalmente, quell’atto di violenza su una donna fu solo la scintilla scatenante di un fuoco che bruciava sotto la cenere.
Come andarono i fatti e chi furono i protagonisti di quella tragedia?
Regnava Tarquinio il Superbo, uomo assai superstizioso, oltre che assai superbo.
Un inquietante prodigio aveva sconvolto la superstiziosa corte etrusca: un enorme serpente era comparso nella Reggia provocando scompiglio e terrore.
Il Re consultò maghi ed indovini, ma, alla fine, decise di inviare a Delfi, (dove sorgeva il Santuario di Apollo) per un responso, due dei suoi figli: Tito e Arrunte, accompagnati dal nobile romano Lucio Giunio, detto Bruto, storiacioè: “stolto”.
Questi, che stolto non era, ma solo assetato di rancore verso la famiglia reale, responsabile della morte del fratello, li accompagnò di buon grado, ma dimostrò, sulla via del ritorno, di che pasta era fatto.
L’oracolo, infatti, s’era espresso così:
“… il potere su Roma, spetterà a colui che per primo bacerà la Madre.”
Fu così che, giunti in patria, mentre i due fratelli discutevano su chi di loro avesse più diritto a quel privilegio, Giunio il “Bruto” finse d’inciampare e cadendo, baciò il suolo, cioè la Madre-Terra, facendo fede alle parole dell’oracolo.
Qualche giorno più tardi, nel corso di un banchetto, un certo Lucio Tarquinio Collatino, parente del Re, si vantava dell’onestà di Lucrezia, la bellissima moglie, ed invitava nella sua casa Sesto Tarquinio, il primogenito del Sovrano.
Questi accettò l’invito e provò a sedurre la bella Lucrezia. La donna, però, lo respinse e quegli, in preda alla collera, la stuprò.
Prima di togliersi la vita, la virtuosa Lucrezia informò dell’accaduto marito, amici e parenti e chiese loro di vendicarla.

Fu proprio Giunio Bruto, animato dal suo odio verso la famiglia Tarquinia, ad occuparsi della faccenda. Cavalcando l’onda della grande emozione suscitata da quell’episodio, egli spinse la popolazione alla rivolta.
Al cospetto delle spoglie della virtuosa patrizia, egli tenne un vibrante discorso funebre che infiammò il popolo: elogiò la virtù di Lucrezia e denunciò i delitti della famiglia Tarquinia.
Fu la fine della Monarchia: Tarquinio il Superbo e la sua famiglia furono cacciati via a furor di popolo e in sua vece fu invocata la Repubblica. Proprio Giunio e Collatino, furono i primi due Consoli eletti.

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Definire complessa la religiosità degli Antichi Romani è quasi un eufemismo: superstizione, incantesimi, spaventevoli rituali e pratiche magiche.
Tutto questo aveva lo scopo di dominare o propiziarsi le forze della natura: eclissi, inondazioni, terremoti…
Rew ed He-kau erano chiamati, in Egitto, gli Incantesimi e le Formule Magiche.
Indigitamenta, invece, era il nome con cui gli antichi romani indicavano l’insieme dei riti e delle formule magiche per invocare le Divinità
Unica, ma fondamentale differenza: mentre le prime, con il “tono giusto” della voce “costringevano” la Divinità ad intervenire, le seconde erano, invece, “invocazioni”, ma sempre con un tono particolare di voce.

Ancor oggi troviamo traccia di questo rituale nella voce modulata del muezzin (durante le cinque preghiere della giornata) dall’alto dei minareti arabi. La troviamo anche nei Salmi ebraici recitati nelle funzioni sacre e nella Messa cantata dei cristiani.

Un accenno meritano le Defixiones, forme di maledizione incise su lamine di piombo arrotolate e trapassate da un chiodo.
Tale pratica era in uso anche altrove: Grecia, Egitto…
In Egitto, in particolare, erano incise su cocci che venivano poi frantumati.
Le defixiones si deponevano in tombe, fosse, pozzi, sorgenti o qualunque posto potesse “condurre” agli inferi ed attirarvi un nemico.
Nuocere, però, non era il solo scopo di questa pratica magica: una defixiones poteva essere utile anche in amore, potere, denaro e altro.
Gli addetti ai lavori, maghi, fattucchiere e sacerdoti, facevano affari d’oro e godevano d’immenso prestigio.
(come oggi, d’altronde)
Pozioni ed amuleti per proteggersi da maledizioni e malocchio, erano assai costosi e misteriosi.
Maghi e fattucchiere si aggiravano nei cimiteri per procurarsi erbe da mescolare ai più raccapriccianti ingredienti: interiora di topi, ossa di serpenti ed altro.
Ne facevano amuleti come gli oscilla (dischetti) o le lunulae (mezzaluna), da portare sulla persona.
Famose era bulla, un sacchetto contenente amuleti e posta al collo dei bambini.
Altre forme di superstizione che atterrivano i “figli della lupa” erano: il canto della cornacchia, quello del gallo durante un banchetto, l’olio versato non intenzionalmente… tutti segni di imminenti disgrazie.

Nulla da stupirsi, se ancor oggi c’è chi ha paura del gatto nero!

C’erano, poi, le Lemures: ombre dei morti che si divertivano a spaventare i vivi con catene e ferraglia e c’erano i Versipellis: lupimannari, ecc.
Infine, se crediamo che il “Signore degli Anelli” sia una invenzione di uno scrittore dei giorni nostri, ebbene, ci sbagliamo di grosso: Ovidio parlava già di “spiriti maligni” nascosti in anelli e nodi.
A tutto ciò si aggiunge (in età imperiale) la convinzione che gli Astri influissero sulle cose e sulle persone: stiamo parlando di Astrologia, un argomento che imperversa ancor oggi e inchioda, ogni mattino, migliaia di creduloni davanti al televisore in attesa delle notizie dell’oroscopo del giorno…

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Magia e superstizione hanno condizionato la vita dell’uomo in ogni epoca.
Nell’ antica Roma Imperiale, ai tempi di Claudio e Nerone, un nome faceva tremare la corte: Locusta.
Era una vecchia dall’aspetto orrendo, ma dal potere e prestigio quasi illimitati ed era l’unica persona con libero accesso, notte e giorno, agli appartamenti privati di Nerone, perché era la sua fattucchiera personale.
Nerone, come tutti i suoi contemporanei, era profondamente superstizioso.
Come dargli torto se ancor oggi così tanta gente si fa prosciugare il portafoglio da maghi e fattucchiere?
Nerone non muoveva un dito senza prima consultare quella orrenda creatura la quale era anche assai esperta di veleni.
Fu proprio dei veleni da lei preparati che Nerone si servì per sbaragliare la concorrenza.
(oggi si usano altri mezzi, per fortuna)
Per primo, fece fuori l’imperatore Claudio, suo patrigno, facendogli servire una gustosa pietanza a base di funghi… corretti da Locusta, naturalmente.
Toccò poi al fratellastro Britannico, il quale aveva qualche diritto in più di sedere sul trono dei “figli della lupa”.
La morte del povero ragazzo fu spettacolare e gli storici ne danno risalto nei loro scritti.
Britannico era stato invitato ad un banchetto e stava tracannando vino da una coppa da cui aveva già bevuto un assaggiatore. Il ragazzo chiese dell’acqua per annacquarlo, ignorando che il veleno preparato da Locusta si trovasse proprio là dentro.
Morì, tra spasmi atroci, sotto gli occhi di Nerone e della corte atterrita.
A quella morte, naturalmente, ne seguirono altre, sempre sperimentando nuove pozioni e nuovi veleni che resero Locusta una delle donne più ricche di Roma.
Giunse, però, anche per lei il tempo della resa dei conti, della condanna e della pena.
Morto Nerone, l’imperatore Galba la fece pubblicamente giustiziare e la gente poté trarre un sospiro di sollievo.

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ANTICA ROMA: l’atroce fine della vestale Clodia

Clodia, una delle più belle patrizie della Roma Imperiale, andò incontro alla più atroce delle morti: fu sepolta viva.
Di quale orrendo misfatto poteva mai essersi macchiata per meritare tale agghiacciante pena?
Aveva tradito il suo voto di castità: Clodia era una delle dieci Vestali, sacerdotesse di Vesta, Dea del Focolare di Roma.
Una carica prestigiosissima, quella delle Vestali, conferita alle fanciulle più nobili della città.
Il loro sacerdozio durava 30 anni. Giungevano al Tempio di Vesta, sul Campo Marzio, in tenerissima età e ne uscivano ancora giovani e con una cospicua, ma molto, molto cospicua dote che permetteva loro di impalmare qualche potente di turno, ma anche qualche squattrinato rampollo della vecchia nobiltà.

I privilegi di cui godevano erano tantissimi: ricchezza, onori e rispetto.
Consoli, Senatori e perfino Cesare, dovevano cedere loro il passo per strada. I Littori abbassavano i Fasci in loro presenza e, se una Vestale incontrava per strada un condannato a morte, poteva concedergli la grazia.
Quali i doveri a fronte di tali privilegi?
Solo due, punibili entrambi con la morte, se infranti: il voto di castità e tenere desto il Fuoco Sacro del Tempio di Vesta.
La morte era straziante.
La disgraziata veniva rinchiusa in una stanzetta semi interrata su un piccolo colle e murata viva. Le veniva consegnato una torcia, una forma di pane e una ciotola di latte e veniva abbandonata alla sua fine.
La storia fa cenno soltanto a due o tre di queste sventurate e una di loro era Clodia Leta, vissuta ai tempi dell’imperatore Caracolla.
L’aspetto più tragico è che la ragazza era innocente: per non cedere alle profferte libidinose dell’imperatore e non venir meno al giuramento di castità, Clodia preferì affrontare quella fine orrenda.
I contemporanei sapevano della sua innocenza; alcuni storici riportarono l’episodio nei loro annali, ma nessuno ebbe il coraggio di intervenire, ma chiamarono “Sceleratus Ager” il posto in cui l’infelice ragazza era stata sepolta.