(continua)
Un’ombra, improvvisamente, gli piovve alle spalle investendo lui e il defunto; un soffio ardente lo colpì sulla nuca. Si girò e uno sbavo di terrore lo colse fin nel midollo delle ossa: di fronte a lui, in tutto il suo terribile ed indescrivibile aspetto, c’era Anubi, lo Sciacallo Divino.
“Chi è che con spoglie mortali si aggira nella Terra-dei-Misteri?” tuonò il Dio dalla Testa di Sciacallo facendo convergere su di lui i fiammeggianti occhi verdi dalle palpebre senza battito.
Atterrito da quella presenza e da quello sguardo, Djoser si prosternò, con la faccia schiacciata contro il pavimento terroso.
“Sono io, o Anubi, Si…Signore delle Fornaci e Dominatore delle Montagne de…della Morte. – balbettò, con la polvere fra i denti – Sono Djoser, figlio di Pthahotep, ar..architetto di Ptha…”
“Che cosa cerchi, Djoser, figlio di Pthahotep, architetto di Ptha,
strisciando come un insetto nelle viscere di Geb?”
“Ce…cerco una tomba per il mio maestro.”
“E la cerchi nella tomba di un Figlio di Ra?” tuonò ancora la voce dello Sciacallo Divino, facendo fremere l’aria; l’onda d’urto spinse il ragazzo con le spalle contro la parete. C’era, in quella voce la stessa eco soffocante e cupa lasciata nel budello in cui era appena strisciato.
“Anche un Figlio di Ra, o Divino Sciacallo, – rispose Djoser, senza, però, ardire di sollevare il capo – apprezza la devozione di fedeli disposti a servirlo nell’altra vita, così come hanno fatto in quella precedente e si allieta della loro presenza…”
“Ah.ah.ah!” la cavernosa risata di Anubi sconquassò l’aria con la forza di un violento temporale; uno di quelli che si scatenavano nel deserto una volta almeno nell’anno, minacciando di far precipitare il cielo: violento come l’ira stessa di Seth, Signore delle Tempeste. Anubi, però, non sembrava irritato, piuttosto divertito e questo incoraggiò il ragazzo..
“Le mani di quell’oscuro architetto hanno sorretto quelle di Hemium, il grande costruttore della Piramide.”
Il terrore gli impediva quasi di respirare; proprio per questo non riusciva a spiegarsi dove trovasse il coraggio per rispondere a quelle domande. Era come se ogni goccia di sangue fosse attraversata dalla paura senza, però, restarne sopraffatto. Era come se avesse già conosciuto quelle paure; le avesse già affrontate e, cosa strana, fosse felice di trovarsele ancora di fronte.
“Molte mani oscure – replicò il Dio con quel sibilo roco che faceva vibrare le pietre delle pareti contro cui Djoser stava appoggiato per non cadere – hanno sorretto l’architetto Hemium, ma nessuno di quei servitori, divide la tomba con un Dio.”
“Lo so, Potente Signore delle Tenebre. – proruppe il ragazzo – Quei devoti servitori vivono appagati nelle loro tombe, all’ombra protettrice della grande Piramide del loro Dio. Al mio maestro non è stato concesso il meritato privilegio, pur essendo stato il più devoto dei devoti servitori di Sua Maestà…”
Il ragazzo fece seguire una pausa che lo Sciacallo Divino riempì con un respiro roco e profondo, come lo sbuffo di un mantice. Anche Djoser ebbe un lungo respiro, si schiarì la voce e proseguì:
“Per questo, o Anubi, ti prego di lasciarlo dimorare qui, il mio maestro. Te lo chiedo con la faccia prostrata al suolo, perchè lui è degno di continuare a servire il suo Faraone.”
Anubi lasciò andare un altro lungo respiro, più profondo e cupo del primo, che fece fremere l’aria già scossa e minacciò il già precario equilibrio del ragazzo.
“So – riprese Djoser – che solo al Faraone è concesso di scalare il Cielo attraverso la Piramide, ma il mio maestro lo renderà lieto con la sua presenza: è assai sapiente e i suoi racconti…”
Anubi non lo lasciò finire e per la seconda volta scoppiò in una
sonora risata: “Ah.ah.ah!”
“E io ti prometto, – continuò il ragazzo – o Signore del Mondo-Rovesciato, che se gli permetterai di restare qui, io non servirò altri Dei all’infuori di Anubi. Nè Ptha il Creatore, nè Osiride il Glorioso e neppure il Solare Horo o il Lunare Thot. Questo io prometto, o Misericordioso Anubi. Questo prometto!”
Anubi smise di ridere e un silenzio profondo riempì la lunga pausa che seguì, poi con un gesto lo invitò ad alzarsi e disse:
“Chi riesce ad ispirare tanta devozione in un altro essere mortale
merita rispetto!”
Djoser non si fece ripetere l’invito. Sollevò prima un ginocchio e poi il capo e fu allora che il suo sguardo cadde sull’ombra che Anubi proiettava al suolo e che disegnava sul pavimento un inquietante assemblaggio di segni: una piuma, un rivo d’acqua e un mattone, che insieme formavano
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(continua)
- MEDEA
Feroce e tragica fu questa figura di donna, considerata fin dall’antichità come il “genio del male al femminile”.
La tradizione micenea la vuole al fianco dell’eroe Giasone, uno degli Argonauti partiti dalla Grecia per la Colchide, alla conquista del “Vello d’Oro”.
Medea lo aiutò sempre ed in ogni modo, con le sue arti magiche, non disdegnando neppure di far ricorso al delitto più efferato per spianargli la via.
Secondo il mito, erano state Minerva e Giunone, Protettrici dell’eroe, ad indurre Venere a convincere il figlioletto, Eros, a scoccare una freccia nel cuore di Medea affinché si innamorasse di Giasone e lo aiutasse nell’impresa.
Giasone sposò Medea promettendo, davanti agli Dei, di amarla per sempre e portarla con sé in Grecia.
Superate le prove imposte da re Eeta, padre di Medea, e staccato il Vello d’Oro dal ramo di quercia cui era attaccato, i due salirono sulla nave Argo per tornare in Grecia.
Eeta, però, contravvenendo ai patti, fece inseguire gli Argonauti fino alla foce del Danubio.
Per ritardare l’inseguimento e aiutare il suo uomo, Medea ricorse al delitto più atroce: attirò con l’inganno il fratellastro Apsirto, facendogli credere d’essere stata rapita e di trovarsi sulla Argo contro la propria volontà e lo fece uccidere per poi farne gettare i resti nel fiume e costringere gli inseguitori a rallentare per seppellirli.
Dopo varie peripezie, gli Argonauti giunsero in Grecia e i due amanti si fermarono a Corinto, dove Giasone fu fatto Re. Qui, però, l’eroe commise il suo più grave errore: si innamorò della bella Creusi, (o Glauce) figlia di re Creonte e la sposò, abbandonando Medea.
La vendetta della maga, nipote della ancor più potente maga Circe, fu tremenda.
Fingendosi rassegnata, l’implacabile Medea inviò il suo dono di nozze alla novella sposa: una corona d’oro e un manto bianco.
Appena, però, la sposa ebbe indossato la veste nuziale, questa prese fuoco provocandone la morte e quella di tutti coloro che si trovavano a Palazzo; Giasone si salvò solo perché riuscì a buttarsi giù da una finestra.
Non ancora soddisfatta, Medea giunse ad escogitare e mettere in atto la più orrenda delle punizioni per il marito infedele: quella di uccidere due dei figli avuti da lui.
(continua)
“Ecco qui tracce di qualche caposquadra desideroso di far sapere di aver contribuito alla gloria del suo Faraone.” sorrise.
L’ambiente era largo più di due metri ma piuttosto basso; sufficiente, però, per starvi in posizione eretta. Qui si fermò e sollevò la torcia sul capo, poi la infilò tra due sporgenze della parete. La luce, tremula e fumosa, invase l’ambiente, illuminandogli il volto e proiettando la sua figura contro la parete. Saldo sulle gambe, il fisico risaltò in tutta la sua prestanza. Era alto, i fianchi stretti e le spalle atletiche. Al collo portava l’ampio collare degli studenti del Tempio di Ptha.
Sollevò la stuoia e con amorevoli gesti l’appoggiò alla parete occidentale della stanza poi tirò da sotto il perizoma un rotolo di
papiro che accostò alla stuoia: il Libro delle He-kau, il lasciapassare per attraversare l’Aldilà.
“Questo, o mio buon maestro, aiuterà il tuo Ka a trovare la strada per raggiungere il tuo signore, il faraone Khufu. Ti aiuterà a fargli sapere che sei degno di vivere alla sua ombra e ti condurrà sano e salvo fino alla Sala del Giudizio di Osiride.”
“Salute a te, Horo dei Due Orizzonti. – cominciò a pregare –
Salute a te, Anubi, Signore della Conservazione.”
brano tratto dal libro DJOSER e lo Scettro di Anubi
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. Di corsa attraversò il pavimento lastricato del cortile e raggiunse un punto preciso dell’immensa costruzione. Con gesti rapidi, sempre protetto dall’oscurità, si fermò ad armeggiare intorno ad uno dei lastroni di rivestimento esterno della Piramide.
“Proprio qui dietro – pensò sottovoce – dovrebbe trovarsi una di quelle saracinesche che l’architetto NiuserKa ha fatto rinforzare con serramenti di pietra e legno per tenere lontano i ladri.”
NiuserKa, amico di suo padre, era anch’egli un architetto di Ptha. “Povero Niuserka! – sospirò – Se sapesse che proprio il suo discepolo più fidato è stato sorpreso fuori dal cantiere con in
mano i segreti della Piramide del suo Faraone!”
Quei lastroni di durissima pietra erano inviolabili perfino per le attrezzature di cui disponevano i ladri, ma il ragazzo sapeva che si poteva fare affidamento su operai corrotti e preti miscredenti. I ladri sapevano sempre dove scavare e quali vie percorrere per raggiungere tesori nascosti.
“I saccheggiatori, figlio mio, – soleva ripetergli suo padre – non si arrestano davanti ad alcun ostacolo. Siamo noi che dobbiamo
rendere invalicabili gli ostacoli!”
Una volta gli aveva confidato che in gioventù era stato chiamato a testimoniare in un processo contro i ladri della tomba
di una Regina e di aver partecipato ai lavori di traslazione in un’altra tomba di quel che era rimasto del corredo funerario: quella Regina era proprio Hetepheres, madre del faraone Khufu.
Sotto una spinta vigorosa, il varco si aprì e il ragazzo oltrepassò la soglia insieme al suo fardello; appena dentro, spinse il lastrone con entrambe le mani e la “porta” si richiuse rapidamente alle sue spalle.
“Oh, Thot, Tu rendi potente l’Occhio di Horo
che splende sulla fronte di Ra. Io ti chiamo …” riprese.
Parlava sottovoce, quasi un pensiero sussurrato e intanto sfregava l’una contro l’altra le due pietre focaie che aveva con sè. Una miriade di scintille, luminose come stelle, fendettero la fitta oscurità. Il ragazzo vi accostò la torcia che teneva infilata nel corto gonnellino che gli copriva i fianchi e questa prese fuoco con una brusca fiammata.
“Voi tutti, Dei e Dee, fategli la strada.
Fate che giunga a voi Glorioso e ben fornito…”
Il fumo della torcia, acre e pungente, gli ferì gli occhi e la fiamma gettò luce sulle ombre, proiettando la sua figura sulle pareti dello stretto passaggio, un cunicolo alto non più di otto piedi e largo ancora meno, che lo costringeva a stare curvo. Poteva avere quindici anni. Forse sedici. Il corpo era agile e snello e il volto straordinariamente bello. Una massa di ciocche, corte e contorte, trattenute da un cordino di pelle, gli nascondeva la fronte e gli dava quell’aria un po’ selvaggia, tipica della gente del Basso Delta. Aveva labbra carnose e imbronciate e mento arrotondato e volitivo.
Tenendo sollevata la fiaccola, la cui luce moriva, inghiottita dalle tenebre davanti a sé, Djoser proseguì, sempre trascinandosi dietro la stuoia e il suo penoso contenuto. Avanzava a fatica. Il passaggio era stretto ed angusto. Strusciando sul pavimento di terra pressata e compatta, la punta dei tat-beb di corda lasciava dietro di sè un’eco soffocata e cupa.
Il percorso era in ripida pendenza e sprofondava sempre più giù e ad ogni passo aumentava la fatica. L’aria divenne pesante e l’afa opprimente. Sempre più spesso dovette fermarsi e portarsi alle labbra la spugna bagnata che aveva con sè. Non era soltanto la fatica fisica, era soprattutto un disagio dell’animo. Era l’improvviso peso di una solitudine totale che soltanto là sotto poteva raggiungere quelle soglie. Era solo, eppure, continuava ad avvertire l’invisibile presenza, quel respiro alle spalle, e il cuore tornò a battere veloce. Era veramente solo, però. Era l’unico essere vivente ad aggirarsi tra quelle pietre silenziose.
Cominciò a misurare il percorso: venti piedi, ventotto, trenta, quaranta, sessanta. Settanta piedi. Qui un blocco di granito interruppe la sua avanzata.
Mostrando di conoscere assai bene quel tratto, si spostò sulla sinistra. Da lì partiva un corridoio che imboccò senza esitazione. Proseguendo si accorse subito che sul fondo il tappo di chiusura era stato demolito. Non era il solo; ne vide almeno altri tre, i cui frammenti giacevano sparsi per terra. Il corridoio portava in basso, nelle fondamenta della struttura e ancora più giù, nella roccia sottostante. Sulla destra si apriva un vano. Uno dei tanti che avevano consentito ad architetti ed operai di sostare durante i lavori; le pareti recavano scritte in tintura rossa.
“Ecco qui tracce di qualche caposquadra desideroso di far sapere di aver contribuito alla gloria del suo Faraone.” sorrise.
ANTICO EGITTO: storia, tradizione e fantasy
“DJOSER E LO SCETTRO DI ANUBI”
Siano in Egitto, Antico Regno – IV Dinastia.
Djoser, un ragazzo di sedici anni, allievo del Tempio di Ptha, lavora al cantiere della Piramide del faraone Khafra.
Abbandonato ancora bambino sulle rive del Nilo, Anubi, la più inquietante delle Divinità egizie, lo pone sotto la sua protezione facendo di lui una “creatura” diversa dagli altri mortali: gli permette perfino un viaggio attraverso la Duat, l’Oltretomba egizia, durante u
La vendetta, si dice, è un piatto che va gustato freddo.
Proprio quello che fecero due tragiche figure femminili della Storia (o della Mitologia): Medea e Crimilde, l’una appartenente al Mito Nordico e l’altra a quello Creco.
Crimilde, principessa dei Burgundi
Questa storia fa parte della mitologia nordica del popolo dei Nibelunghi. Inizia quando l’eroe Sigfrido giunge alla corte del Re dei Burgundi.
Sigfrido è un grande eroe, che ha compiuto grandi imprese: ha combattuto, vinto e ucciso il drago… nel cui sangue si è bagnato rendendosi invulnerabile, salvo una spalla su cui si era posata una foglia.
Ha conquistato la Spada Magica, la cui lama uccide al solo tocco ed ha ricevuto in dono da una maga un anello che moltiplica le forze.
Riesce anche a salvare la Valchiria Brunilde, vergine-Guerriera inviata da Odino, Padre degli Dei, a scegliere eroici guerrieri morenti da condurre nel Walhalla, dimora degli Dei.
Brunilde e Sigfrido finiscono per innamorarsi, ma il cattivo mago Hagen, con una pozione magica, fa infiammare il cuore dell’eroe per Crimilde, sorella di Gunther, re dei Burgundi, a cui Sgfrido consegna la bella Brunilde.
Furente, ma sempre innamorato del suo eroe, Brunilde è rosa dalla gelosia: Sigfrido e Crimilde sono molto felici e lei per vendicarsi del tradimento di Sigfrido, rivela ai suoi nemici il solo punto vulnerabile del suo corpo.
Responsabili della morte di Sigfrido, con una freccia scagliata in quel solo punto vulnerabile, sono il mago Hagen e lo stesso re Gunther, i quali vogliono impadronirsi del tesoro che l’eroe aveva sottratto al drago.
Brunilde, apprendendo del filtro magico, rosa dal rimorso, si getta sulla pira su cui Crimilde aveva fatto adagiare il cadavere dell’eroe.
La vendetta di Crimilde, invece, fu tremenda e seguiva un ben preciso disegno.
Si concesse come moglie ad Attila, Re degli Unni e si fece giurare che l’avrebbe assistita nella vendetta contro la propria famiglia.
La nuova Regina degli Unni invitò a corte il fratello Gunther con il suo seguito di nobili e cavalieri e il mago Hugen. Offrì loro un sontuoso banchetto, chiedendo, però, di lasciare le armi fuori del grande salone.
Crimilde chiese ai fratelli di consegnarle il mago Hagen, ma costoro si rifiutarono, poiché il mago era il solo a conoscere il posto, nel Reno, in cui Sigfrido aveva sepolto il suo tesoro.
Per ottenere quel tesoro, fa sapere il mago, nessuno del popolo dei Burgundi dovrà essere ancora in vita.
Crimilde non ebbe esitazioni e chiese da Attila, che non aspettava altro, lo sterminio della sua gente e dell’odiato mago Hagen, che si consumo durante quel banchetto fatale.