Nei tempi dei tempi che furono… iniziavano così le favole, un tempo… regnava in Egitto un Sovrano triste e sconsolato poiché non aveva figli. Tutti i giorni egli si recava al Tempio di Ammon a pregare affinché gliene mandasse uno.
Finalmente il dio di Tebe si mosse a compassione e cedette alle preghiere. Ad una condizione:
“Ti manderò un figlio. – disse – A patto che tu me lo restituisca all’età di diciotto anni.”
Voleva dire che a 18 anni il principe sarebbe morto.
“A prenderlo, – aggiunse – manderò un cane, un serpente o forse un coccodrillo.”
Voleva dire che il ragazzo sarebbe morto per il morso di uno di questi tre animali.
Il Re accettò.
Nato il bambino, però, l’idea di vederlo morire così giovane divenne per lui inaccettabile.
Che cosa fece, allora?
Fece costruire una torre in mezzo al deserto, con una sola piccola porta d’entrata e una stanza con finestrella e lì fece crescere il piccolo, separato dal resto del mondo e sorvegliato dal più fedele dei servitori.
Passarono dieci anni circa; il piccolo principe ignorava completamente le cose del mondo.
Un mattino fu svegliato da un suono sconosciuto che l’attirò verso la finestra; vide una strana creatura che correva su e giù, sotto le mura.
“Chi è quella creatura?” chiese al servitore.
“E’ un puledro. – spiegò quegli – Fischia.”
Il ragazzo fischiò, il puledro nitrì; da quel giorno, il puledro venne ogni giorno a galoppare sotto la finestra e i due divennero grandi amici.
Passarono gli anni; arrivò il diciassettesimo.
Un mattino, a svegliare il principe non fu solo il nitrito del suo amico cavallo, ma i nitriti di molti cavalli al galoppo e le voci di cavalieri in corsa.
“Chi sono quelle persone? – domandò il ragazzo al servo – E quello splendido animale che corre davanti ai cavalli, chi è? Come si chiama?”
“Sono cacciatori e quell’animale è un cane.”
“Ne voglio uno.” ordinò il principe.
Il servo, però, non poteva accontentarlo e si consigliò con il Re sul da farsi; alla fine, si decise di donargli un cucciolo, facendo attenzione che non lo mordesse e pensando di sostituirlo con un altro, appena fosse cresciuto.
La vicinanza, però, e il reciproco rispetto, fecero nascere una profonda amicizia fra il cucciolo e il piccolo principe, tanto da vanificare il pericolo della profezia.
Era così, che gli Antichi Egizi si spiegavano l’amicizia tra cane e uomo: l’incontro tra un cucciolo d’uomo e un cucciolo di cane!
A questo punto, però, il ragazzo era cresciuto abbastanza da porsi delle domande sulla propria posizione. Mandò un messaggero dal Re.
“Padre, – fece chiedere – perché mi tieni qui, prigioniero?”
Il Re dovette metterlo a corrente del pericolo che incombeva su di lui, se avesse lasciato quel rifugio sicuro.
Il principe rimandò indietro il messaggero:
“Padre. – fece dire – Tu sei il Faraone e anche il Sovrano più potente del mondo, ma se Ammon, che è la Divinità più potente fra gli Dei, ha deciso che io debba morire, nulla potr
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(seguito)
Dove poteva andare nei pochi mesi di vita che gli restavano? Scelse di conoscere Babilonia, prima di andare a Tebe, dove viveva suo padre.
Babilonia la Grande, la Bella, l’Opulenta! Ne aveva sentito sempre parlare.
La strada per Babilonia, però, si rivelò una vera delusione: era cosparsa di rovine, campi incolti, gente affamata e bande di malintenzionati.
Fermarono un mendicante e chiesero:
“E’ questa la via per Babilonia? Abbiamo, forse, sbagliato strada? Qui c’è solo miseria.”
“Ahinoi! – esclamò quello – La nostra principessa è bella e virtuosa, ma è anche la nostra rovina.”
“Com’è possibile? – stupì il principe – Una principessa bella e virtuosa non può essere la rovina del suo popolo.”
“Oh, sì! E’ così bella, che da ogni parte del mondo arrivano principi per chiedere la sua mano. Si fanno guerra fra loro e quel che vedi, straniero, ne è il risultato.”
(la morale è che gli A. Egizi non amavano la guerra e che i Faraoni Guerrieri non furono così numerosi)
“Il vostro Sovrano non fa nulla per evitarlo?”
“Certamente sì! Ha consultato il nostro Dio, Marduk, e il consiglio è stato di erigere una
Torre e di rinchiudervi la principessa per darla in sposa a colui, fra i pretendenti, capace di scalare le mura.”
“Non mi pare un’impresa difficile.” replicò il principe.
“Quelle mura sono ricoperte di specchi e chiunque tenti di farlo, scivola giù ai primi tentativi e deve rinunciare all’impresa e andar via.”
(arrampicarsi sugli specchi: è facile capire la morale di questo tratto della favola)
Il principe volle tentare l’impresa.
Sarà perché desideroso di compiere una grande impresa prima di morire, sarà perché qualche volta anche le imprese impossibili si realizzano… sarà perché siamo all’interno di una favola, ma il principe riuscì nell’impresa.
Alla principessa, però, dovette confessare che aveva solo pochi giorni di vita e non poteva sposarla, ma che era felice di aver salvato il suo Paese dall’invasione straniera.
La principessa, però, volle diventare ugualmente la sua sposa e così, dopo la cerimonia nuziale, il principe si apprestò, in tutta fretta, a tornare a Tebe per presentare la sposa al padre.
Durante il viaggio, la piccola carovana alzò le tende lungo le rive di un fiume. Guardie armate sorvegliavano affinché nessun coccodrillo o serpente si avvicinasse alla tenda del principe. Per di più, la principessa vegliava, mentre il principe dormiva.
Verso l’alba, il cane cominciò ad agitarsi e la principessa vide un’orrida testa di serpente sbucare da sotto la tenda. Chiamò i servi, che uccisero il grosso rettile a bastonate.
Il principe, intanto, continuava a dormire.
“E’ quasi giorno. – si disse la principessa – I servi sono all’erta… nessun coccodrillo, ormai, potrebbe entrare qui dentro.”
E così, stanca e assonnata, si addormentò. Proprio nel momento in cui stava svegliandosi il principe che, la guardò con tenerezza e pensò:
“Ha vegliato per tutta la notte… lasciamola riposare.”
Si alzò e lasciò la tenda, poi si portò in direzione del greto del fiume per bagnarsi il volto e gli occhi.
Fu allora che la vide. Vide una creatura orrida e affascinante insieme, che esercitò su di lui, in egual misura, attrazione e repulsione.
“Chi sei? – domandò – Come ti chiami? Che cosa fai qui?”
La creatura rispose:
“Sono il tuo Destino. Il mio nome è Coccodrillo e ti aspetto da diciotto anni.”
Quel giorno il principe compiva diciotto anni, ma… la sorpresa sta proprio qui: non conosceremo mai il destino del principe poiché il papiro su cui è scritta questa favola è rotto e il pezzo mancante, con il finale, è ancora sepolto da qualche parte nella sabbia della necropoli di Deir-el-Medina, in Egitto, dove è stato rinvenuto, nella tomba di un ragazzo.
E adesso, dite… non sembra una favola scritta oggi? Se non ci credete, andate al Museo de Il Cairo e troverete il papiro custodito in una bacheca.
Il legno su cui il Cristo subì il supplizio, oggi non esiste quasi più. In realtà, sparsi per il mondo vi sono decine e decine di frammenti custoditi in Stauroteche (questo il nome delle teche).
Il più grande di questi frammenti si trova a Roma nella Basilica di Santa Croce, fatta edificare da S. Elena, madre dell’imperatore Costantino.
Molti altri frammenti, in Italia si trovano: nel Duomo di Vico del Gargano, nella Basilica di Maria Ausiliatrice di Torino,ecc.. e ancora: a Cantabria, in Spagna e così via.
Ma che cosa ne è stato della Croce e come è arrivata in Occidente, da Gerusalemme?
Bisogna tornare indietro di duemila anni fino al triste giorno della crocifissione e morte del Cristo.
Deposto dalla croce, sappiamo tutti, il Cristo non fu sepolto nel cimitero comune. Per gli Ebrei, seppellire in luogo consacrato un condannato a morte, era considerato un atto di profanazione e per questo un atto proibito.
Anche gli strumenti di morte, croce, spada, pietre… venivano sotterrati con il condannato o nei pressi del luogo della sua sepoltura, che era sempre il luogo ove era stato giustiziato.
Lo sapeva bene l’imperatrice Elena, già avanti negli anni, la quale non voleva morire prima di aver visitato i luoghi del martirio di Cristo.
Si recò, dunque, circa quattro secoli più tardi, in quei luoghi, nella zona del Golgota, alla ricerca di qualche traccia di quei fatti dolorosi.
A lungo si aggirò fra ruderi e grotte; fece scavare qua e là ed infine trovò in un anfratto tre croci e su una c’era scritto: ” Gesù Nazareno Re dei Giudei”.
Era una Reliquia molto preziosa. La più preziosa della Cristianità e tutte le Chiese ambivano possederne almeno un frammento.
La regina Elena cercò di accontentare un po’ tutti: lasciò a Gerusalemme il palo verticale, inviò a Costantinopoli al figlio, l’imperatore Costantino, un secondo pezzo ed un terzo lo portò con sé a Roma.
Molti altri piccoli frammenti, infine, presero altre vie, come si è già visto; sono gli unici rimasti e tutti insieme costituiscono soltanto il dieci per cento di tutta la Croce.
Ma che cosa ne è stato della Vera Croce (il palo verticale), quella rimasta a Gerusalemme?
Attraversò indenne più di un millennio, ma non superò la “valanga” Crociate.
Nella primavera del 1.119, re Ruggero fece arrivare la Santa Croce da Gerusalemme e la fece innalzare su una collinetta per sollevare il morale dell’esercito crociato.
Soprattutto Baldovino, re di Gerusalemme, praticava il culto della Croce e prima della battaglia la innalzava per mostrarla ai combattenti affinché infondesse in loro coraggio e ardimento.
In verità, la Chiesa di Gerusalemme non approvava la disinvoltura con cui i vari principi e sovrani esponevano la Sacra Reliquia ai pericoli delle battaglie.
E ne aveva ben donde.
Nel 1.187, durante la disastrosa battaglia di Hattin, contro Saladino, la Croce andò perduta e non se ne seppe più nulla.
Del legno impregnato del sangue di Cristo, dunque, oggi non rimangono che frammenti.